Barn door tracker o derotatore equatoriale?

Sono ormai molti giorni che non aggiorno queste pagine. Ho anche trascurato in parte anche la stesura del mio libro, anche se ogni giorno mi riprometto di scrivere qualcosa. Il fatto è che ultimamente mi sono dedicato – forse troppo – alla realizzazione di quell’astroinseguitore di cui ho tanto parlato. Eccovi gli ultimi aggiornamenti.

NGC 869 e NGC 884 Ammasso doppio di Perseo

NGC 869 e NGC 884 Ammasso doppio di Perseo Somma di 5 fotogrammi ripresi con una focale di 200 mm e 3 secondi di esposizione. senza alcuna montatura di inseguimento (dicembre 2013). Credit: Il Poliedrico.

L’idea originale era quella di riuscire a fotografare le stelle prevedendo il loro moto apparente per evitare il famoso effetto scia. Le strade per fare questo sono diverse ma con troppe limitazioni, soprattutto a grandi focali. Un metodo piuttosto economico ma molto difficile da mettere in pratica con buoni risultati è quello dell’esposizione multipla: si fanno più (molte) esposizioni del singolo oggetto o scena, cercando di rimanere entro la benedetta regola del 500 (vedi riquadro sotto) per evitare il mosso e poi si sommano i singoli fotogrammi usando software di elaborazione come il buon Deep Sky Stacker (che per giunta è anche gratuito).
Una grave limitazione di questo sistema è la rotazione di campo ai bordi delle immagini a largo campo: mentre presso il polo celeste, quindi a basse declinazioni, è possibile spingere anche di molto sui tempi di esposizione, nei pressi dell’equatore celeste la rotazione si fa sentire, eccome!
Come potete osservare dallo stesso riquadro, nei pressi dell’equatore galattico si può tralasciare di calcolare il coseno della declinazione (\(cos(0) =1\)) e così rendere giustizia alla ben nota formula empirica semplificata \(k/f\) dove appunto \(k\) è 500 e \(f\)  è la focale usata, tanto usata dai fotografi del cielo stellato. Volendo osare, si possono usare tempi di esposizione molto più lunghi avvicinandosi ai poli celesti,  sempre a patto che  si stia entro l’esposizione prevista per le declinazioni più basse visibili nel campo inquadrato. Il grave aspetto negativo di questo metodo è che se usiamo sommare troppe immagini di uno stesso campo riprese in un periodo troppo lungo, la rotazione di campo risultante sarà comunque troppo ampia per essere corretta via software, col risultato che solo una piccola porzione dell’immagine finale sarà abbastanza  buona  essere conservata.
La soluzione a tutti questi problemi è quella di usare un sistema meccanico che  potesse compensare il moto apparente della volta celeste facendo ruotare la fotocamera in asse con l’asse terrestre ma in direzione opposta.
12651064_1163021377043095_6710097951710270984_nUna montatura equatoriale è l’ideale per questo scopo. Concettualmente è anche la soluzione più economica, peccato però che le montature equatoriali in commercio siano pensate per essere usate con i telescopi, dove le esigenze meccaniche (in termini di peso supportato) e di precisione di puntamento siano molto al di sopra delle più blande esigenze richieste nell’astrofotografia a largo campo (\(f.\) fino a 200 -300 mm). Una soluzione piuttosto semplice ed economica poteva essere la costruzione di una tavoletta equatoriale (vedi post precedenti sull’argomento), ma le tolleranze di costruzione e gli errori di tangente indotti da una vite che amplia una corda d’arco che segue l’opposto della rotazione terrestre ne limitano l’uso tra pochi minuti fino a qualche decina nel caso di un sistema a quattro bracci prima che vengano in bella evidenza i limiti costruttivi.  Ci sono casi di tavolette equatoriali mosse a mano seguendo a mano i secondi di un quadrante d’orologio, di quelle azionate col meccanismo dei girarrosto a molla, perfino. Ci sono anche tavolette costruite con leghe di alluminio aeronautico e controllate da un PC che si occupa di correggere gli errori tangenziali. La fantasia degli astrofotografi è infinita.
All’inizio l’idea di costruire anch’io una tavoletta equatoriale mi aveva allettato assai: un sistema a quattro bracci per minimizzare gli errori di tangente, costruita in alluminio e pilotata da un Arduino Mega 2650; avevo buttato giù anche una buona parte del codice per il microcontrollore [cite]https://github.com/UmbyWanKenobi/Astroinseguitore[/cite].

credit: Il Poliedrico

La regola del 500 completa per un uso esclusivamente astrofotografico.Credit: Il Poliedrico

Ma si sa, l’appetito vien mangiando. Secondo le mie intenzioni Arduino avrebbe dovuto anche occuparsi dello scatto remoto della fotocamera inserendo il tempo di esposizione previsto nelle impostazioni di avvio; avrebbe avuto un sistema di ausilio alla calibrazione e puntamento verso il Nord per un più facile stazionamento tramite una bussola elettronica, e una compensazione degli errori di tangente attraverso la modulazione della velocità del motore  passo-passo. Erano previsti perfino un led rosso ad alta luminosità per illuminare il terreno intorno alla stazione e un cicalino sonoro al termine della sessione di ripresa!
Però fatti due conti sulle difficoltà costruttive (ho il raro dono di avere le dita a prosciutto!) a fronte di una manciata di minuti buoni per l’inseguimento,  ho deciso di passare ad un approccio molto più semplice, compatto e forse perfino meno costoso, un semplice derotatore di campo equatoriale.
Oggi la tecnologia di lavorazione dei materiali permette di avere un motore passo-passo demoltiplicato fino a 0,018° (o 64.8” d’arco se preferite) per step, equivalenti a 20 000 step per un singolo giro ad un costo veramente basso. questo si traduce in uno step ogni 4,308 secondi: $$Tempo_{Siderale} /\left(\frac{Step}{Giro}\right) = 86164.0419 / 20000 = 4.308$$
Sfruttando poi le peculiarità di alcuni circuiti pilota per i motori passo-passo come i Pololu DRV8825 che permettono di suddividere i singoli passi in micropassi più piccoli (il DRV8825 consente fino a 32 micropassi per step!) si ottengono veramente dei risultati incredibili: fino alla risoluzione teorica di inseguimento di ben 2 secondi d’arco 1 !
Un sistema siffatto basta che abbia l’asse di rotazione correttamente allineato col Polo Celeste, esattamente come si impone a qualsiasi altro sistema di inseguimento equatoriale, mentre ogni sbilanciamento di peso può essere compensato con un peso equivalente opposto come si usa nelle analoghe montature. In pratica è lo stesso identico schema di una qualsiasi montatura equatoriale, dove si richiede di compensare il moto terrestre con una rotazione opposta, solo che qui non sono necessarie le stesse doti di precisione e stabilità previste per le montature equatoriali professionali che sono sottoposte a carichi maggiori .
Tutto questo si traduce in una minore complessità geometrica, un notevole risparmio nella potenza di calcolo e di conseguenza una maggiore disponibilità di questo per altre operazioni, come la registrazione dei dati meteo e dei dati di scatto per scopi scientifici e così via.
Anche impostare tempi diversi come il tempo sinodico lunare, il tempo solare e così via è molto più facile ed immediato rispetto alle tavolette equatoriali che sono espressamente progettate in funzione di un’unico tempo, in genere quello siderale. In queste modificare la velocità di inseguimento può introdurre errori agli errori già sottolineati in precedenza.
Questo mio nuovo approccio 2 aumenta la flessibilità di inseguimento, come ad esempio quella richiesta per le eclissi, i transiti 3 e così via.

Insomma: se continua così, ce sarà pure da divertisse (come usiamo dire noi romani)!
Cieli sereni.


Note:

Osservate per la prima volta le onde gravitazionali con LIGO

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… c’era una coppia di buchi neri, uno di circa 36 volte la massa del Sole mentre l’altro era un po’ più piccolo, di sole 29 masse solari. Questi due pesantissimi oggetti, attratti l’uno dall’altro in una mortale danza a spirale hanno finito per fondersi insieme, come una coppia di ballerini sul ghiaccio che si abbraccia in un vorticoso balletto. Il risultato però è un po’ diverso: qui ne è uscito un oggetto un po’ più piccolo della semplice somma algebrica delle masse: 62 masse solari soltanto.
Il resto è energia dispersa, non molta per la verità date le masse in gioco, pressappoco come quanta energia potrebbe emettere il Sole nell’arco di tutta la sua esistenza. Solo che questa è stata rilasciata in un singolo istante come “onde gravitazionali“.

Ma cos’è un’onda gravitazionale?

spacetime-02La visione dello spazio che da sempre conosciamo è composta da tre uniche dimensioni, larghezza, altezza e profondità; o \(x\), \(y\) e \(z\), se preferite. Il tempo, un fenomeno comunque misterioso, fino agli inizi del XX secolo era considerato a sé. Una visione – poi confermata dagli esperimenti di ogni tipo – fornitaci dalla Relatività Generale è che il tempo è in realtà una  dimensione anch’essa del tessuto dello spazio; una quarta dimensione. insieme alle altre tre 1. Fino alla Relatività Generale di Einstein si era convinti che una medesima forza, la gravità, fosse responsabile sia della caduta della celebre mela apocrifa di Newton, che quella di costringere la Luna nella sua orbita attorno alla Terra e i pianeti nelle loro orbite attorno al Sole. Nella nuova interpretazione relativistica questa forza è invece vista come una manifestazione della deformazione di  uno spazio a quattro dimensioni, lo spazio-tempo, causata dalla massa degli oggetti. Così quando la mela cade, nella Meccanica Classica (essa è comunque ancora valida, cambia solo l’interpretazione dei fenomeni) la gravità esercitata dalla Terra attrae la mela verso di essa mentre allo stesso modo – e praticamente impercettibile – la Terra si muove verso la mela, nella Meccanica Relativistica è la mela che cade verso il centro di massa del pianeta esattamente come una bilia che rotola lungo un pendio e la Terra cade verso il centro di massa della mela nella stessa misura prevista dai calcoli newtoniani.
La conseguenza più diretta di questa nuova visione dello spazio-tempo unificato, è che esso è, per usare una metafora comune alla nostra esperienza, elastico; ossia si può deformare, stirare e comprimere. E un qualsiasi oggetto dotato di massa, se accelerato, può increspare lo spazio-tempo. Una piccola difficoltà: queste increspature dello spazio-tempo, o onde gravitazionali, sono molto piccole e deboli – la gravità è di gran lunga la più debole tra le forze fondamentali della natura –  tant’è che finora la sensibilità strumentale era troppo bassa per rivelarle. Se volessimo cercare un’analogia con l’esperienza comune, potremmo immaginare lo spazio quadrimensionale come la superficie di un laghetto a due dimensioni, mentre la quarta dimensione, il tempo, è dato dall’altezza in cui si muovono le increspature dell’acqua. Qualora buttassimo un sassolino l’altezza della increspatura sarebbe piccola, ma man mano se scagliassimo pietre con maggior forza e sempre più grosse, le creste sarebbero sempre più alte. Però vedremmo anche che a distanze sempre più crescenti dall’impatto, queste onde scemerebbero di altezza e di energia, disperse dall’inerzia delle molecole d’acqua 2; alcune potrebbero perdersi nel giro di pochi centimetri dall’evento che le ha  provocate, altre qualche metro e così via. Alcune, poche,  potrebbero giungere alla riva ed essere viste come una variazione di ampiezza nell’altezza del livello dell’acqua del laghetto e sarebbero quelle generate dagli eventi più potenti che avevamo prodotto in precedenza. Queste nello spazio quadrimensionale sono le onde gravitazionali e esse, siccome non coinvolgono mezzi dotati di una massa propria per trasmettersi come ad esempio il suono che è solo un movimento meccanico di onde trasmesse attraverso un mezzo materiale,  possono muoversi alla velocità più alta consentita dalla fisica relativistica:\(c\), detta anche velocità della luce nel vuoto.

Il grande protagonista: LIGO

E’ stato LIGO-Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (in italiano, Osservatorio Interferometro laser per onde gravitazionali) il protagonista di questa straordinaria scoperta: uno strumento formato da due strumenti gemelli, uno a Livingston (Louisiana) e l’altro a Hanford (Washington), a 3000 chilometri di distanza dal primo. Sono due gli interferometri, perché i dati possono venir confrontati e confermati: se entrambi gli strumenti rilevano lo stesso disturbo, allora è improbabile che sia legato ad un terremoto oppure a dei rumori di attività umana. Il primo segnale che conferma l’esistenza delle onde gravitazionali è stato rilevato dallo strumento americano Ligo il 14 settembre 2015 alle 10, 50 minuti 45 secondi (ora italiana), all’interno di una finestra di appena 10 millisecondi.

 David Reitze del progetto LIGO ha annunciato al mondo la scoperta delle onde gravitazionali: “We have detected gravitational waves. We did it!”. Crediti: LIGO

David Reitze del progetto LIGO ha annunciato al mondo la scoperta delle onde gravitazionali: “We have detected gravitational waves. We did it!”.
Crediti: LIGO

Ed eccole qui, in questo diagramma: l’onda azzurra, captata da LIGO di Livingston e l’onda arancio, captata da LIGO di Hanford. Sono sovrapponibili, il che ci dice che sono la stessa onda captata dai due strumenti gemelli. E’ la firma della fusione dei due buchi neri supermassicci con la conseguente produzione di onde gravitazionali. In altre parole, questa è la firma del nuovo buco nero che si è formato dai due precedenti e, come è accennato anche più sopra, le tre masse solari che mancano dalla somma delle due masse che si sono fuse assieme dando vita al nuovo buco nero di 62 masse solari si sono convertite in onde gravitazionali.
Volete udire il suono di un’onda gravitazionale? Sì, certo che è possibile…. E’ straordinario pensare che queste onde rappresentano la fusione di due buchi neri in uno nuovo e proviene da distanze incredibilmente grandi, in un’epoca altrettanto remota: un miliardo e mezzo di anni  fa.

Le prove indirette

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

Il decadimento orbitale delle due stelle di neutroni PSR J0737-3039 (qui evidenziato dalle croci rosse) corrisponde esattamente con la previsione matematica sulla produzione di onde gravitazionali.

La prima prova indiretta dell’esistenza delle onde gravitazionali si ebbe però nel 1974. In quell’estate, usando il radio telescopio di Arecibo, Portorico, Russel Hulse e Joseph Taylor scoprirono una pulsar che generava un segnale periodico di 59 ms, denominata PSR 1913+16. In realtà, la periodicità non era stabile e il sistema manifestava cambiamenti 3 dell’ordine di 80 microsecondi al giorno, a volte dell’ordine di 8 microsecondi in 5 minuti.
Questi cambiamenti furono interpretati come dovuti al moto orbitale della pulsar  4 attorno ad una stella compagna, come previsto dalla Teoria della Relatività Generale. Di conseguenza, due pulsar, in rotazione reciproca una attorno all’altra, emettono onde gravitazionali, in perfetta linea con la Relatività Generale. Per questi calcoli e considerazioni, Hulse e Taylor ricevettero nel 1993 il Premio Nobel per la fisica.

La presenza di una qualsivoglia stella compagna introduce delle variazioni periodiche facilmente rivelabili nel segnale pulsato della stella che i radioastronomi sono in grado di misurare con precisione inferiore ai 100 microsecondi. Giusto per farsi un’idea, immaginiamo di prendere il Sole e di farlo diventare una pulsar. Dal suo segnale pulsato, gli astronomi sarebbero in grado di rilevare la presenza di tutti i pianeti che orbitano attorno a questo Sole-pulsar, grazie al fatto che ogni pianeta causa uno spostamento del centro di massa del Sole di un certo valore espresso in microsecondi. La Terra per esempio, che si muove lungo la sua orbita ellittica, produce uno spostamento del centro di massa del Sole di ben 1500 microsecondi! 5


Per saperne di più:

La prima pulsar doppia” articolo di Andrea Possenti dell’INAF-Osservatorio Astronomico di Cagliari, pubblicato sul numero di Le Stelle, marzo 2004.

La notizia, pubblicata sul Physical Review Letters, porta i nomi di B. P. Abbott e della collaborazione scientifica di LIGO e VIRGO[cite]http://journals.aps.org/prl/abstract/10.1103/PhysRevLett.116.061102[/cite].

 


Note:

A spasso nel cielo

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Ed eccoci qua con uno dei primi appuntamenti più visibili di quest’anno. Per tutto il mese di febbraio infatti saranno visibili nel cielo subito prima dell’alba tutti e cinque pianeti noti fin dall’antichità: Mercurio e Venere, i due pianeti più vicini al Sole di noi, e Saturno, Marte e Giove in ordine di distanza apparente dal Sole sul piano dell’eclittica; come è evidente dalla foto qui sopra. Qui in effetti Mercurio sta sorgendo dietro ai cipressi (qui siamo in Toscana, il cipresso è un po’ l’albero tipico di questa regione) poco sotto la Luna e non è ancora visibile, mentre Venere – che è appena sorto – fa capolino proprio nel momento dello scatto.
Questa immagine è in realtà un mosaico ben sette fotogrammi (su otto) uniti in un unico puzzle; non è stato facile unire così tante immagini in una ma con un po’ di pazienza e un potente software libero (HUGIN) sono riuscito ad unirli là dove software ben più blasonati avevano miseramente fallito.

E ora vi offro un’altra immagine da me ripresa sempre il 6 mattina inseme a tanto freddo (-2° C.):

Mercury, Venus and Moon in Tuscany

Qui invece è visibile la bella congiunzione Luna – Venere – Mercurio, dove il Pianeta Messaggero degli Dei è appena spuntato sopra i tipici cipressi toscani e disegna un magnifico triangolo con gli altri due corpi celesti.

Spesso la gente crede che la scienza, e l’astrofisica in questo caso, uccide la poesia del mistero del Creato; a me invece sapere dare un nome a quei puntini sospesi nel cielo, saper distinguere i diversi pianeti, alcune (non tutte) costellazioni, dare un nome a qualche stella e sapere cosa le fa brillare così tanto da anni luce di distanza tanto da permettermi di scorgerle ad occhio nudo o in qualche foto, mi emoziona allo stesso modo, e probabilmente,  ancor di più.

Cieli sereni.

Come hanno avuto origine gli elementi?

Nucleosynthesis_Cmglee_1080Sorgente: APOD: 25 gennaio 2016 – Where Your Elements Came From

Molto tempo fa ho narrato delle abbondanze chimiche nella nostra galassia e come le analisi delle varie proporzioni degli elementi del Sistema Solare ci aiutano a capire quali fossero i loro progenitori. Oggi Astronomy Picture of the Day (APOD) pubblica una divertente Tavola Periodica con suindicate le origini di ogni singolo elemento; un modo per ricordarci che l’origine dei diversi elementi che ci compongono non è sempre la stessa e che siamo in definitiva il risultato di un lungo intreccio di eventi passati molto diversi e distanti fra loro, sia nel tempo che nello spazio.

La percentuale d'acqua presente nel corpo umano varia con l'età ma dalla metà fino ai 2/3 della massa corporea è comunque acqua.

La percentuale d’acqua presente nel corpo umano varia con l’età ma si può tranquillamente sostenere che dalla metà fino ai 2/3 della massa corporea è comunque acqua.

Due atomi di idrogeno (simbolo \(H\), in alto a sinistra nella tabella) insieme a un atomo di ossigeno (simbolo \(O\), nella seconda riga in alto a destra) compongono l’acqua, da quella degli oceani alle nubi cariche di pioggia e anche quella che è presente nel corpo umano. Gli atomi di  idrogeno si formarono ben 13,8 miliardi di anni fa subito dopo il Big Bang, non ci sono state da allora altre fonti di questo elemento, che oltre ad essere il mattone elementare con cui sono stati poi costruiti nelle fucine stellari tutti gli altri elementi sparsi nell’universo, è anche quello più antico.
Il carbonio del nostro corpo, il calcio delle nostre ossa e il fluoro nello smalto dei nostri denti sono il risultato della fusione dell’idrogeno nelle stelle. Il ferro contenuto nell’emoglobina del sangue e anche quello che quotidianamente conosciamo con altre forme e con altri nomi, come ad esempio l’acciaio delle posate da cucina e quello delle automobili, nasce un attimo prima che una stella grande almeno una decina di volte il nostro Sole esploda in supernova.  Il metallo che più di tutti consideriamo da sempre il più prezioso e usato anche come controvalore negli scambi commerciali, l’oro, è il risultato di una fusione tra due stelle di neutroni [cite]http://wwwmpa.mpa-garching.mpg.de/mpa/institute/news_archives/news1109_janka/news1109_janka-en.html[/cite], uno degli eventi cosmici più potenti in assoluto e quasi sicuramente l’unico responsabile dei Gamma Ray Burst (GRB). Anche il piombo, metallo assai povero, piuttosto tossico se inalato o ingerito e conosciuto fin dall’antichità per le sue notevoli proprietà metallurgiche, è prodotto dal decadimento dell’uranio 238 (simbolo \(U\), ultima riga della tavola), che anche lui trae origine nelle collisioni di stelle di neutroni. Quando sentirete di un avvistamento di un nuovo avvistamento di un lampo di raggi gamma pensate che lì si è formato dell’oro e dell’uranio.
Solo gli ultimi, dall’americio (simbolo \(Am\) al laurenzio (simbolo \(Lr\), senza contare anche altri elementi chimici di sintesi che qui non sono riportati, sono opera dell’uomo.
Come vedete, noi e tutto quello che ci circonda nell’Universo è in definitiva Figlio delle Stelle.


 

Pianeta X, Pianeta 9, o …

 La supposta esistenza di un nono grande pianeta nel Sistema Solare checché se ne dica non coglie del tutto di sorpresa gli astronomi. Spesso la matematica è riuscita ad anticipare importanti scoperte astronomiche. L’universo là fuori è una infinita fonte di meraviglie e di fantastiche scoperte, e di questo gli scienziati ne sono ben consapevoli. Ma questa pistola fumante, come dicono gli americani, non ha niente a che fare con la sonora bischerata di Nibiru e le stupide teorie catastrofiste che l’accompagnano. Chi ha visto in questa ipotesi una conferma delle teorie di Sitchin ha sbagliato anche stavolta 😛

Rappresentazione artistica del Pianeta Nove. Si suppone che il pianeta sia piuttosto simile ad Urano e Nettuno. Una ipotetica tempesta di fulmini illumina il lato notturno. Credit: Caltech / R. Hurt (IPAC)

Rappresentazione artistica del Pianeta Nove. Si suppone che il pianeta sia piuttosto simile ad Urano e Nettuno. Una ipotetica tempesta di fulmini illumina il lato notturno.
Credit: Caltech / R. Hurt (IPAC)

Il metodo è ormai antico e collaudato. Già nel  1846 l’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle e al suo allievo Heinrich Louis d’Arrest scoprirono l’ottavo pianeta del Sistema Solare Nettuno 1. Questo fu il primo pianeta ad essere stato trovato tramite calcoli matematici piuttosto che attraverso regolari osservazioni: fu il trionfo della Meccanica Celeste che da Niccolò Copernico fino a Isaac Newton aveva matematicamente rivoluzionato l’universo fino ad allora conosciuto. La posizione del pianeta era stata infatti prevista dai calcoli dell’astronomo francese Urbain Le Verrier dell’Osservatorio di Parigi che era partito dall’osservazione dello strano comportamento dell’orbita di Urano che non rispecchiava esattamente il percorso in cielo previsto. A meno di grossolani errori nelle osservazioni e nei calcoli, l’unica spiegazione era che là fuori vi fosse qualcos’altro all’esterno che ne perturbava l’orbita. E infatti Nettuno fu scoperto entro appena un grado dal punto previsto.
Ma se pensate che la storia finisca qui siete in errore: infatti Nettuno non ha sufficiente massa (anche se è il terzo pianeta più massiccio del Sistema Solare) per giustificare le perturbazioni orbitali di Urano e quasi fin da subito dopo la sua scoperta divenne evidente che c’era ancora qualcosa che disturbava le orbite di entrambi i pianeti Urano e Nettuno. Partendo da quelle anomalie orbitali, agli inizi dello scorso secolo William Henry Pickering e Percival Lowell provarono a calcolare la posizione di questo misterioso Pianeta X che ancora non era stato scoperto. E anche quella volta, nel 1930, un pianeta fu scoperto quasi nello stesso posto previsto dai calcoli: Plutone, ad opera dell’astronomo dilettante (quello che oggi considereremmo un astrofilo) Clyde Tombaugh che si laureò in astronomia solo nel 1936.
Eppure, anche stavolta la massa di Plutone, che poi fu declassato a pianeta nano dall’Unione Astronomica Internazionale a pianeta nano, non era ancora sufficiente a giustificare il caos nelle orbite dei pianeti ai confini del Sistema Solare.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=V_Pmy331Sic&w=320]

La soluzione arrivò nel 1989, quando furono finalmente disponibili misure più accurate della massa di Nettuno e quelle della massa di Urano del sorvolo di tre anni prima della Voyager 2. Poche frazioni percentuali, ma con le nuove misurazioni dirette tutte le anomalie orbitali si risolsero [cite]http://dx.doi.org/10.1086/116575[/cite] e anche la questione di un altro pianeta molto massiccio al di là di Nettuno scomparve.

E ora veniamo al più che recente dibattito, scatenato dalla notizia apparsa sul sito del Caltech (California Institute of Tecnology) sulle prove dell’esistenza di un altro pianeta orbitante al di là di Nettuno [cite]http://www.caltech.edu/news/caltech-researchers-find-evidence-real-ninth-planet-49523[/cite].  Due ricercatori, Konstantin Batygin e Mike Brown (uno degli scopritori di Sedna) 2, hanno cercato di trovare una spiegazione sulle strane orbite possedute da alcuni corpi minori trans-nettuniani (cioè quei corpi la cui orbita si trova interamente o per la maggior parte oltre a quella di Nettuno, detti anche KBO da Kuiper Belt Object, oggetti della Fascia di Kuiper) che mostrano caratteristiche piuttosto simili [cite]http://iopscience.iop.org/article/10.3847/0004-6256/151/2/22[/cite]. L’idea in sé non è poi tanto originale, Chad Trujillo (che aveva fatto il post dottorato con Mike Brown e anche lui tra gli scopritori di Sedna)  e Scott Sheppard  astronomo presso la Carnegie Institution for Science di Washington) nel 2012 scoprirono un corpo minore, 2012 VP113, ne estrapolarono l’orbita e videro che il suo perielio era piuttosto simile a quello di un altro corpo simile, Sedna, scoperto nove anni prima. L’articolo della scoperta apparve nel 2014 su Nature [cite]http://www.nature.com/news/dwarf-planet-stretches-solar-system-s-edge-1.14921[/cite], ma non riscosse molto credito.

Le orbite di sei oggetti transnettuniani (KBO), e la possibile orbita del presunto pianeta. Tutti hanno il perielio allineato verso un punto. Credit: California Institute of Technology

Batygin e Brown invece hanno esteso quella ricerca includendo le orbite di altri corpi minori trans-nettuniani (in tutto sono 13) e si sono accorti che i sospetti originali di Trujillo e Sheppard erano più che fondati: come se ci fosse qualcosa che spingesse i corpi minori presi in esame ad avere i loro perieli tutti orientati verso un’unica direzione.
Dal punto di vista meramente statistico è assai improbabile che queste orbite si presentino così simili in modo puramente casuale. È assai più probabile che siano il prodotto di qualche evento comune (la butto là, un unico corpo di origine) oppure –  ed è la spiegazione più probabile – la presenza di un unico corpo molto più massiccio, un pianeta, che attraverso ripetuti incontri ravvicinati con i corpi minori abbia spinto questi ad avere caratteristiche orbitali al perielio molto simili. Partendo da questa conclusione, Batygin e Brown hanno provato a simulare (ripeto: simulare) le caratteristiche del pianeta che potrebbe aver allineato le orbite di quei KBO: un corpo con una massa di circa 10 volte quelle della Terra (in confronto Nettuno è circa 17 volte il nostro pianeta) e un perielio di ben 200 U.A. (circa 30 miliardi di chilometri) e un afelio compreso tra 500 e i 1200 U.A (75 e 180 miliardi di chilometri).

I sei oggetti più distanti del sistema solare conosciuti che hanno orbite esclusivamente oltre Nettuno (magenta), tra cui Sedna (magenta scuro), tutti misteriosamente si allineano in una sola direzione. Inoltre, se visto tridimensionalmente,le loro orbite inclinano verso un quasi identico punto del sistema solare. Un'altra frazione di oggetti della fascia di Kuiper (ciano) sono costretti in orbite che sono perpendicolari al piano del sistema solare e con un altro curioso orientamento. Batygin e Brown pensano che un pianeta con 10 volte la massa della Terra in una lontana orbita eccentrica (arancione) e anti-allineato con le orbite magenta e perpendicolari alle orbite ciano possa spiegare questa configurazione. Caltech / R. Hurt (IPAC)

I sei oggetti più distanti del sistema solare conosciuti che hanno orbite esclusivamente oltre Nettuno (magenta), tra cui Sedna (magenta scuro); tutti misteriosamente si allineano in una sola direzione. Inoltre, se visto tridimensionalmente, le loro orbite inclinano verso un quasi identico punto del sistema solare. Un’altra frazione di oggetti della fascia di Kuiper (in ciano) sono costretti in orbite che sono perpendicolari al piano del sistema solare e con un altro curioso orientamento. Batygin e Brown pensano che un pianeta con 10 volte la massa della Terra in una lontana orbita eccentrica (arancione) e anti-allineato con le orbite magenta e perpendicolari alle orbite ciano possa spiegare questa configurazione.
Credit: Caltech / R. Hurt (IPAC)

In più ogni teoria che si rispetti deve essere in grado non solo di spiegare come sono avvenute certe cose, ma fornire anche alcune previsioni; e in questo caso alcune di esse possono essere addirittura già verificabili, come quella di un secondo gruppo di oggetti KBO che posseggono orbite  perpendicolari rispetto all’eclittica e che finora non era stato possibile spiegare.
Il supposto Pianeta 9 molto probabilmente non è un pianeta errante poi catturato dal Sole, ma piuttosto un quinto corpo celeste formatosi insieme agli altri giganti gassosi  del Sistema Solare e poi espulso nella sua posizione attuale da Giove e Saturno ben prima che le attuali orbite si stabilizzassero.

Ora non resta che scoprirlo, anche se la scorsa campagna WISE del 2011, dopo un campionatura del 99% della volta celeste nell’infrarosso, aveva escluso la possibile esistenza di pianeti di massa come Nettuno in un raggio di ben 700 U.A. e di Giove fino a ben 26000 U.A. Il problema è che l’eventuale Pianeta 9 sarebbe ben più piccolo di Nettuno (meno di 2/3) e quindi al limite, se non al di sotto, della capacità osservativa del telescopio spaziale anche se fosse transitato in quel momento al perielio [cite]www.jpl.nasa.gov/news/news.php?release=2014-075[/cite].
Na non tutto è comunque perduto: saranno necessari i grandi telescopi come il telescopio gemello da 10 metri dell’Osservatorio Keck o il telescopio Subaru sul Mauna Kea per vederlo. Ma solo una massiccia campagna osservativa potrà confermare l’esistenza del Pianeta 9.


Note:

Costruire un astroinseguitore: le scelte

Era da molto che mi ero riproposto di prendere in mano un vecchio argomento, la costruzione di un astroinseguitore, o tavoletta equatoriale, se preferite.
Lo dico, ho una manualità da far schifo ma tanti buoni propositi e tante idee. Forse ne uscirà qualcosa di buono.

RISO.II = distanza tra il fulcro del braccio pilota (rosso) e la vite motrice (giallo) lungo la base portante (grigio). B = distanza tra punto di contatto del braccio pilota con il braccio della fotocamera (blu) e il suo fulcro. C = distanza tra i fulcri dei due bracci lungo la base portante.

RISO.II = distanza tra il fulcro del braccio pilota (rosso) e la vite motrice (giallo) lungo la base portante (grigio).
B = distanza tra punto di contatto del braccio pilota con il braccio della fotocamera (blu) e il suo fulcro.
C = distanza tra i fulcri dei due bracci lungo la base portante.

Ho deciso di passare ai fatti. Per il progetto di un astroinseguitore ho scelto quella che senz’altro dal punto di vista tecnico presenta più difficoltà, la soluzione a doppio braccio per annullare gli errori di tangente presenti – o in agguato – nelle soluzioni a braccio singolo. In pratica si tratta di un braccio di alzata motorizzato su cui semplicemente appoggia un secondo braccio che si muove sotto la spinta del primo.
Ma prima di passare alla costruzione della complessa struttura mi sono messo a studiare cosa occorre per muovere tutto e rendere il più automatico possibile i diversi processi, dal movimento equatoriale motorizzato alla gestione da remoto delle immagini. Qui serve un sistema che consenta di scattare più fotogrammi da diversi secondi fino ad alcuni minuti consecutivamente mentre il braccio dinamico guida la fotocamera nel percorso apparente del cielo senza sbavature. Potrebbe in questo caso bastare un banalissimo telecomando remoto magari in radiofrequenza, ce ne sono di molto validi e abbastanza economici in commercio – come l’ottimo Pixel TW-282TX, io stesso ne ho uno – ma perché non gestire tutto con un unico sistema?
Per automatizzare il movimento 1 ho pensato – come già avevo anticipato nei precedenti articoli – ho pensato ad un motore passo-passo, ideale per tutte quelle applicazioni che richiedono precisione nello spostamento angolare e nella velocità di rotazione; infatti vantano un ampio arco di impieghi, dalla robotica fino alle montature dei telescopi.
Per pilotare un motore passo passo occorrono diversi impulsi consecutivi in corrente continua, non è quindi possibile farli girare applicandovi una semplice tensione. Però con un circuito digitale che invia impulsi con una specifica frequenza è possibile guidarne il funzionamento e anche la velocità senza ricorrere a complicati meccanismi di demoltiplica. Una struttura hardware del genere che non richiede eccessive conoscenze ingegneristiche esiste già e si chiama Arduino.

Una scheda Arduino sormontata da un display LCD 1602 (16 caratteri per 2 righe) Credit: Il Poliedrico

Una scheda Arduino sormontata da un display LCD 1602 (16 caratteri per 2 righe)
Credit: Il Poliedrico

Arduino è una piattaforma hardware nata nel 2005 a Ivrea, Italia, come progetto open-source  a basso costo per gli studenti della facoltà di Interaction Design Institute Ivrea [cite]https://goo.gl/ZSyuLR[/cite]. Nonostante che l’istituto in sé non esista più, negli anni il progetto si è sviluppato e, grazie all’idea iniziale Open Source, è stato possibile progettare e creare una miriade di dispositivi hardware aggiuntivi e schede logiche a costi irrisori. Di conseguenza anche la comunità intorno a quest’idea è cresciuta allo stesso modo. Oggi si possono trovare progetti che con una singola scheda Arduino e pochi altri componenti di contorno fanno di tutto: dall’automazione degli irrigatori da giardino a stazioni meteorologiche complesse gestibili da remoto, dall’automazione casalinga alla robotica industriale e alla prototipizzazione di sistemi complessi. Di suo la scheda non fa poi molto, se non quello di mettere a disposizione alcune porte digitali e analogiche in ingresso e uscita. Ma la sua incredibile potenza deriva dalla straordinaria capacità di essere interamente programmabile con un linguaggio che deriva direttamente dal celebre C, addirittura. È questo che la rende un eccellente strumento, può addirittura eseguire dei calcoli matematici.
Di fronte a cotanta flessibilità la mia scelta di affidarmi ad Arduino per questo progetto mi è apparsa naturale. Ora non mi resta che sperimentare (ahi! il metodo galileiano anche qui) le varie soluzioni e vedere cosa ne esce. Spero che siano rose!
Cieli sereni.

(continua)


Note:

Quante stelle ci sono nella Via Lattea?

In questo periodo sto portando avanti un altro progetto, per questo non aggiorno più spesso di quanto vorrei queste pagine. Essendo comunque questa l’era dei social network, su Facebook c’è una bellissima pagina che comunque io tengo aggiornata con articoli e notizie a cui potete far riferimento.
Tornando allo sviluppo dell’altro progetto, mi sono impantanato su un annoso problema che spesso i professionisti evitano come la peste, mentre i profani insistono a chiederlo: quante stelle ci sono nella Via Lattea?

The Milky Way

Il cuore della Via Lattea. Credit: Il Poliedrico

Guardando il cielo stellato da una località – sostanzialmente – priva di inquinamento luminoso in una notte di novilunio si riescono a scorgere tantissime stelle e una strana fascia un po’ più luminosa che da sempre chiamiamo Via Lattea. Questa è la nostra galassia, un agglomerato di miliardi di stelle (tra cui il nostro Sole) a forma di spirale e che a noi è concesso di vedere solo dalla sua periferia, di taglio e per giunta dall’interno. Già comprenderne la forma è stato un difficilissimo esercizio, un po’ come se dalla cima della cupola di S. Pietro cercassimo di capire la pianta della città di Roma e magari anche quanti abitanti abbia la città, nel caso volessimo rispondere alla domanda del titolo.
Ora, nessun censore con un po’ di sale in zucca si cimenterebbe in una impresa così ardua, ci sono sistemi molto più comodi, pratici e funzionali piuttosto che arrampicarsi in cima al Cupolone per capire com’è fatta Roma. Purtroppo gli astronomi non posseggono altri mezzi migliori per comprendere la nostra galassia se non quello di scrutare il cielo dalla Terra o dai sui immediati dintorni. Studiando i  moti delle stelle e degli ammassi globulari più lontani dal centro galattico si è potuta fare una stima dell’intera massa della Galassia in base alla Legge di Gravitazione Universale. A questo punto, studiando le altre galassie a noi più vicine e cercando quelle più simili come massa e luminosità si è potuto comprendere la morfologia della Via Lattea. Guardando solo da dentro non sarebbe stato possibile farlo.

Conoscere la massa totale della Via Lattea può fornirci una stima di massima delle stelle che raccoglie. Ma la massa di una qualsiasi galassia non è equamente distribuita nelle stelle e la nostra non fa eccezione.
Si parla di massa viriale 1 per una certa massa racchiusa entro un certo volume. Però a concorrere a questo parametro partecipa un po’ di tutto: stelle ormai morte da eoni, nubi di gas interstellare, piccoli corpi che non hanno potuto accendere le reazioni nucleari di fusione al loro interno e così via fino all’immancabile e sconosciuta materia oscura che permea ogni cosa in grado di produrre un campo gravitazionale.
In realtà il metodo comunque è semplice, possiamo testarlo con i parametri orbitali del Sole che dista dal centro galattico 8,33 kpc (un chiloparsec equivale a 3263 anni luce) [cite]http://arxiv.org/abs/0810.4674[/cite] e vi ruota attorno ad una velocità di 220 km/sec. e applicando le semplice Legge di Keplero \(M={d_o}^3/{p_o}^2\).  Esprimendo la distanza \(d_o\) in unità astronomiche ( \(1,72\times 10^9\)) e  il periodo orbitale in anni(\(2,33\times 10^8\)) si hanno: $$\frac{{1,72\times 10^9}^3}{{2,33\times 10^8}^2} \rightarrow 9,36\times 10^{10}$$ masse solari. Ciò significa che nel volume racchiuso dall’orbita del Sole ci sono qualcosa come ben 93 miliardi di masse solari. Va da sé che queste cifre sono approssimative, l’orbita del Sole non è proprio circolare e anche una minuscola differenza nei valori dei parametri da me usati qui sopra comporta stime di massa molto diverse.
In più la Via Lattea è molto più grande dell’orbita del Sole che si ritiene essere circa a metà strada tra il centro galattico e il limite stellare visibile che è approssimativamente intorno ai 17 kpc dal centro. Un calcolo più accurato richiederebbe che siano considerati anche gli effetti gravitazionali dovuti alla massa della Galassia esterna all’orbita del Sole, che poi non è poi così poca come si potrebbe essere portati a credere. Infatti misurando la velocità relativa delle galassie satellite della Via Lattea è stato calcolato che la maggior parte della massa della Galassia non è concentrata nei suoi confini visibili ma pare che sia diffusa in uno stato di gas caldissimo che si estende per almeno altri 100 kpc [cite]http://arxiv.org/abs/1205.5037[/cite].

NGC 7331 (qui in alto) è spesso citata come una galassia gemella della Via Lattea. In basso invece la forma dedotta da William Herschel nel 1785. All'epoca si credeva che il Sole fosse nei pressi del centro.

NGC 7331 (qui in alto) è spesso citata come una galassia gemella della Via Lattea. In basso invece la forma dedotta da William Herschel nel 1785. All’epoca si credeva che il Sole fosse nei pressi del centro.

Questo è ben evidente nelle altre galassie, dove la stima della massa viriale è ben diversa (tra dieci e le cento volte tanto) da quella che appare invece dalla sola massa stellare visibile che si può calcolare usando il metodo che si rifà alla ben nota correlazione tra massa e luminosità (\(M/L\)) che vale in linea di massima per le singole stelle, ma che in questo caso si può usare con una buona approssimazione anche per le galassie, tenendo ben presente però che a questa scala di distanze solo le stelle più luminose contribuiscono alla luce galattica.

Così si hanno ben due stime molto diverse della massa di una galassia, una viriale che tiene conto di tutta la materia (barionica e non barionica) presente e quindi stelle, gas e polveri, pianeti e corpi substellari, oggetti ormai degeneri e buchi neri, e così via, che è diretta funzione del volume studiato; e quella bolometrica, legata cioè alla luminosità complessiva della galassia ma che, per le galassie più vicine, offre forse un quadro più preciso della massa esclusivamente stellare, a patto di conoscere con buona approssimazione il grado di estinzione della luce delle sorgenti più deboli e  una ragionevole stima della percentuale delle stelle più visibili rispetto al totale delle altre.
Questi valori sono dipendenti dal tasso di formazione stellare, le quantità di gas e polveri coinvolte nel fenomeno dell’estinzione della luce, l’età della galassia e così via, ma che per fortuna possiamo vedere e calcolare, essendo noi stessi abitanti di questa Galassia. Un ottimo strumento del genere si chiama IMF (Initial Mass Function) o funzione di massa iniziale 2, una funzione empirica (basata cioè principalmente sulle osservazioni) che descrive la distribuzione delle masse in un gruppo di stelle. Infatti tutte le proprietà principali (energia irradiata o luminosità, volume, massa, raggio etc) e l’evoluzione di una stella sono strettamente legate alla sua massa e questo rende l’IMF un eccellente strumento nello studio di grandi quantità di stelle [cite]http://adsabs.harvard.edu/doi/10.1086/145971[/cite].
Nel corso degli anni il lavoro originale di Salpeter ha subito modifiche, sono state aggiunte delle sostanziali migliorie ma il concetto è rimasto lo stesso: partite da una stima accurata della luminosità galattica nei dintorni del Sole legata ad una coerente funzione di massa e da lì estrapolare il numero delle stelle presenti nella Via Lattea.

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Grafico ricavato dalla tabella qui sopra.

Grafico ricavato dalla tabella qui sopra.

Far coincidere ora tutti questi dati grezzi e apparentemente incoerenti può contribuire a risolvere il rebus iniziale ma non dà una risposta definitiva che può essere significativamente diversa a seconda dei valori espressi dalle diverse campagne osservative.
Il modello qui preso in considerazione indica che tra il 30 e il 40% dell’intera massa della Via Lattea entro i 2 kpc dal centro sia racchiusa nel suo rigonfiamento centrale (bulge in inglese), mentre la massa dell’alone sia almeno un ordine di grandezza più piccola rispetto a questo. Il peso del Buco Nero Centrale e del gas del suo alone sono inclusi nella massa viriale totale (\(1,26\times^{12}\)), come tutti gli altri oggetti che emettono poca o nulla radiazione elettromagnetica, come le stelle ormai morte e la materia non barionica che rappresenta circa \(4\times 10^{08}M_{\odot}\) (McMillan, 2011 [cite]http://arxiv.org/abs/1102.4340[/cite]).
Una serie di calcoli basata sulla distribuzione delle masse stellari nei pressi del Sole e applicata alle componenti principali della Galassia (zona centrale, disco e alone), restituiscono grossomodo i valori comunemente accettati per la Via Lattea: \(1,88\times 10^{11}\) non lontano quindi dai \(2\times 10^{11}\)  (200 miliardi) comunemente accettati in letteratura.
Ovviamente questi numeri sono il risultato di semplificazioni e ipotesi che comunque potrebbero non essere del tutto corrette, come assumere che la IFM sia ovunque la stessa quando invece potrebbe essere diversa tra le varie regioni della Galassia e le Popolazioni Stellari dominanti (l’alone e buona parte del nucleo centrale sono composti da stelle di Popolazione II, il disco sottile è dominato dalle stelle di Popolazione I mentre la parte più esterna del disco, conosciuta come disco spesso, è più eterogeneo).

Contare quante stelle ci sono nella Via Lattea anche se è un lavoraccio comunque si può, e qualcuno deve pur farlo. Ma il rischio di perdere il conto è molto alto, ci vuole molta pazienza: 1 … 2 … 3 …


Note:

La curiosa storia della curva di luce di KIC8462852, Alieni? Non credo

Immagine artistica della pulsar PSR B1257+12 con i pianeti. Credit: Wikipedia

Immagine artistica della pulsar PSR B1257+12 con i pianeti. Credit: Wikipedia

Come avevo scritto nel mese scorso e poi successivamente su un mio post sulla piattaforma di giornalismo sociale Medium.com, che peraltro vi invito a seguire, la storia di  KIC 8462852 (intanto soprannominata  Tabby’s Star (Stella di Tabby), in onore all’astronoma Tabetha Boyajian che per prima si era impegnata in questa ricerca) rappresenta un’autentica sfida per gli astronomi e gli appassionati.
Nei giorni scorsi non si sono fatti attendere i risultati della campagna di ascolto del SETI Institute, che aveva impegnato l’Allen Telescope Array per studiare la stella alla ricerca di eventuali radiosegnali extraterrestri [cite]http://goo.gl/2fhrze[/cite] emessi da un’ipotetica struttura artificiale supposta dall’astronomo Jason Wright per spiegare le anomalie nella curva di luce dell Stella di Tabby.
Dopotutto una civiltà avvastanza evoluta da considerare di costruire uno sciame di Dyson avrebbe accesso a un livello di \(1\times 10^{27}\) watt di energia. Anche supponendo che una piccolissima frazione fosse dedicata alle trasmissioni omnidirezionali (come ad esempio dai radiofari), questi dovrebbero comunque essere rivelabili. Purtroppo l’analisi dei dati dimostrano che tra le frequenze di 1 e 10 Ghz che dal sistema della stella non proviene alcun segnale rilevabile. Questo automaticamente non può escludere a priori l’ipotesi di Wright, in fondo la struttura potrebbe essere stata abbandonata millenni fa oppure i Costruttori usano una tecnologia diversa dalle onde elettromagnetiche per comunicare o anche più semplicemente abbiamo ascoltato le frequenze sbagliate.
Ma come l’astronomo del SETI Seth Shostak ha fatto notare, “La storia dell’astronomia ci dice che ogni volta che abbiamo pensato di aver trovato un fenomeno dovuto alle attività di extraterrestri (la storia dei Little Green Man rivelatesi poi un fenomeno assolutamente naturale – le pulsar – ne è un esempio n.d.a.), ci sbagliavamo. Ma anche se è molto probabile che lo strano comportamento di questa stella sia dovuto alla natura piuttosto che agli alieni, la prudenza chiede di controllare anche queste ipotesi.

Simulazione della rapida rotazione della stella Altair ottenuta con lo strumento MIRC del C.H.A.R.A. di Mt. Wilson. qui sono evidenti gli effetti del teorema di von Ziepel sulla relazione fra gravità superficiale e flusso radiativo di una stella.

 

rotatorMa forse il comportamento della Stella di Tabby potrebbe essere ancora più banale di quanto non si sia pensato. L’idea l’ha suggerita James Galasyn sul suo blog Desdemonadespair.net e ripresa da Paul Gilster sul suo Centauri-Dreams.
L”ipotesi, a mio avviso molto interessante, si rifà ad una serie di documenti [cite]http://goo.gl/tMTRre[/cite] [cite]http://goo.gl/82ewqR[/cite] riguardo a PTFO 8-8695b, un ipotetico pianeta supposto orbitare attorno ad una stella di pre-sequenza principale particolarmente schiacciata ai poli dalla sua alta velocità di rotazione 1. Ora la conferma di questo pianeta non sembra ancora confermata ma gli studi sulle flessioni di luce indotte hanno prodotto dei risultati molto interessanti.
Quando una stella è dotata di un moto rotatorio importante (come mostra il filmato qui sopra e l’immagine qui a fianco) la stella subisce un aumento delle dimensioni in direzione del suo equatore e uno schiacciamento dei poli dovuto alla forza centrifuga.  Dal punto di vista fisico questo comporta che in prossimità dei poli la stella appaia più luminosa che all’equatore tanto più è basso il suo periodo di rotazione; questo fenomeno si chiama Oscuramento Gravitazionale.
Senza dilungarmi troppo su questo curioso fenomeno una tipica curva di luce di un transito ha la classica forma a U più o meno pronunciata dalla distanza del piano dell’osservatore rispetto al piano dell’orbita 
e più o meno profonda dovuta alle dimensioni del pianeta rispetto alla stella [cite]http://goo.gl/RDWPKB[/cite].

Geometria della precessione nel caso di una stella oblata (in rosso) con un singolo pianeta in orbita (blu).  Le frecce indicano la direzione precessione di precessione "positivo" nella matematica. In realtà la precessione è negativo, cioè, retrograda, o in senso orario come visto da sopra il polo nord stellare.

Geometria della precessione nel caso di una stella oblata (in rosso) con un singolo pianeta in orbita (blu).  Le frecce indicano la direzione precessione di precessione “positivo” nella matematica. In realtà la precessione è negativo, cioè, retrograda, o in senso orario come visto da sopra il polo nord stellare.

Ma KIC 8462852 possiede un periodo di rotazione bassissimo, appena 21 ore, sufficienti però a distorcere significativamente la forma della stella e rendere importanti gli effetti previsti dall’oscuramento gravitazionale. Noi ancora non conosciamo la direzione dell’asse di rotazione della stella e se magari possiede un pianeta in orbita abbastanza stretta e con sufficiente massa da provocare un effetto di precessione, e né se giaccia su un piano orbitale molto diverso dalla linea dell’osservatore 2. Magari la stella possiede anche un campo magnetico piuttosto inclinato rispetto al suo asse di rotazione da provocare aperiodici episodi di hotspot o di macchie stellari persistenti lungo la linea dell’osservatore. Una combinazione di questi fattori potrebbe spiegare le irregolarità e con qualche sforzo anche l’ampiezza dei picchi negativi di luminosità come quelli registrati.

Le curve di luce estrapolate da Jason Barnes e il suo gruppo per il caso PTFO 8-8695.

Le curve di luce estrapolate da Jason Barnes e il suo gruppo per il caso PTFO 8-8695.

Anche se attorno a PTFO 8-8695 non è stato – forse ancora – rivelato alcun pianeta, i metodi di indagine e di studio del prof. Barnes possono rivelarsi preziose per risolvere il mistero delle stravaganti curve di luce della Stella di Tabby.


Note:

 

KIC 8462852, una stella piuttosto bizzarra

Può suonare strano ma i primi a sperare che si trovino tracce di vita aliena non sono solo gli ufologi (alcuni di loro sono davvero in gamba e fanno un’opera di disinganno davvero notevole) ma gli astronomi. Significherebbe il compimento di quel pensiero che da Anassagora, (V secolo a.C.) attraversando 2500 anni di storia è giunto fino a noi ancora irrisolto: “siamo davvero soli nell’Universo?”.

Credit Gianluca Masi - VirtualTelescope

Credit Gianluca Masi – VirtualTelescope

Nel 1967 l’allora studentessa Jocelyn Bell e il suo relatore Antony Hewish scoprirono uno strano segnale pulsato nel cielo che non sembrava essere prodotto da alcuna interferenza di origine terrestre, ma che piuttosto appariva provenire da un punto preciso del cielo.
Quella sorgente, ora nota col poco esotico nome di PSR B1919+21, fu chiamata LGM-1 dall’acronimo di Little Green Men (Piccoli Omini Verdi). All’inizio infatti Bell e Hewish non riuscivano a spiegarsi quella strana pulsazione di 1,33 secondi e specularono sulla natura artificiale del fenomeno, attribuendola appunto a ipotetici Piccoli Omini Verdi. In seguito venne compreso che quello che sembrava un radiofaro extraterrestre era in realtà un fenomeno prettamente naturale abbastanza comune nell’Universo. Oggi se ne conoscono tantissime, le chiamiamo pulsar, e sappiamo che sono prodotte dall’interazione del campo magnetico delle stelle di neutroni (oggetti super compatti, residuo di supernovae di tipo II, aventi la massa del Sole ridotta in uno spazio di pochi chilometri) con la loro rotazione.


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In questi giorni sta accadendo un po’ lo stesso. Tutto parte dal telescopio spaziale Kepler, che per oltre quattro anni ha misurato la luminosità di oltre 150 mila stelle in uno spazio di appena 100 gradi quadrati di cielo in direzione della costellazione del Cigno. Tra queste c’è una stella, TYC 3162-665-1, ribattezzata nella nomenclatura di Kepler come KIC 8462852 [cite]http://goo.gl/h5G4Dr[/cite].
La cosa curiosa di questa stella è la sua bizzarra curva di luce che mai ci si aspetterebbe da una stella di sequenza pincipale così comune (circa il 22% della popolazione galattica è di tipo F).

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Come si vede dalla tabella qui a fianco KIC 8462852 è una stella in sequenza principale, un po’ più  massiccia e calda del Sole. Una stella come molte altre, se non fosse che, secondo Kepler, è soggetta a aperiodici cali di luce molto intensi, che vanno dal 15 fino al 22%, come dimostrato qui sopra (i dati sono comunque pubblici e sono disponibili qui [cite]http://goo.gl/ywDlLc[/cite]).
Nei miei precedenti articoli [cite]http://goo.gl/738Z1p[/cite] ho descritto come calcolare le dimensioni di un esopianeta partendo dal calo di luce registrato. In questo caso specifico per giustificare un calo di circa il 20% come quelli talvolta registrati occorre un oggetto grande circa sette decimi del Sole: circa 492 mila chilometri di raggio. Una cosa enorme!
Inoltre, se avreste la costanza di guardare la mole dei dati pubblici di Kepler su questa stella di cui ho fornito il link, vedreste che ci sono diverse decine di questi misteriosi e potenti cali e che non sembrano affatto periodici.  In più, se fossero causate da uno o più oggettti sferici, ci si aspetterebbe che la forma di questi affievolimenti fosse regolare. Invece no, la forma che Kepler rivela che questi sono irregolari anche come forma.
Eliminata l’ipotesi di guasto strumentale, dopotutto solo KIC 8462852 ha restituito questi straordinari solo per questa stella, non resta che cercare altre spiegazioni all’interno di quel sistema stellare.
Come si evince dal documento PDF qui sopra, è evidente il segnale seghettato dovuto alla veloce rotazione della stella, solo 21 ore per compierne una; l’irregolarità presente in questo segnale forse è dovuta alla presenza di macchie stellari anche se questo non giustifica tutto il resto.
Un altro aspetto da non sottovalutare è che KIC 8462852 è stella di classe F3, non è quindi longeva quanto il Sole, può restare nella Sequenza Principale meno di 3 miliardi di anni circa.

Ipotesi naturali

La prima ipotesi che viene in mente è che la stella sia una variabile irregolare, ma la sua presenza nella sequenza principale cozza con tutto ciò che sappiamo sulle stelle variabili. Le variabili intrinseche (cioè non dovute alla presenza di altri compagni stellari come Algol) sono quelle stelle in cui le variazioni di splendore sono dovute a variazioni nelle condizioni fisiche come la temperatura, la densità o il volume.  In genere queste condizioni si verificano quando la stella sta per abbandonare – o lo ha già fatto – il ramo principale del diagramma di Hertzsprung-Russell, ma non sembra che questo sia il caso di KIC 8462852. Ipotesi scartata.
Al momento della loro nascita tutte le stelle sono circondate dai resti della nebulosa protostellare, il che potrebbe  spiegare benissimo gli improvvisi e irregolari sbalzi di luce registrati. Però  in tal caso dovrebbe essere presente anche un eccesso nella radiazione infrarossa dovuto alla presenza di queste polveri, cosa che le immagini riprese nell’infrarosso escludono (vedi il documento). Anche questa ipotesi è scartata.
La presenza di giganteschi pianeti che tutti insieme riescono a coprire almeno il 40% della superficie del disco è improponibile, e comunque il segnale prodotto sarebbe completamente diverso da quello registrato e una analisi armonica avrebbe rivelato la loro presenza. Altra ipotesi scartata.

Un incontro ravvicinato

Allora cosa provoca quegli strani picchi di luce? Semplicemente non lo sappiamo, potrebbero essere il risultato di una collisione planetaria che ha sparso i detriti in orbita alla stella, ma anche in questo caso la luce della stella dovrebbe riscaldare queste polveri tanto da restituire un eccesso di radiazione infrarossa, ma così appunto non è, nessun eccesso IR è stato finora registrato.
Un’altra idea potrebbe essere che la sua nube di Oort, o parte di esssa, stia in qualche modo collassando verso la stella e che miriadi di comete stiano precipitando verso di essa. Molte comete sublimerebbero ancor prima di raggiungere il periastro e verrebbero spazzate via come gas e polvere dal vento stellare, dando origine all’irregolarità dei picchi. Così si spiegherebbero le strane irregolarità nel flusso luminoso e forse anche la non presenza di una emissione IR in eccesso, ma per giustificare così i cali di luce della stella occorrono tante, ma tante comete in caduta contemporaneamente.
Una analisi della stella nell’infrarosso effettuata con l’United Kingdom Infrared Telescope (UKIRT) alle Hawaii mostra una lieve protuberanza che da altre analisi effettute con l’ottica adattiva all’infrarosso del telescopio Keck (banda H a 1,65 micron) si mostra essere una debole stellina  di classe M2V, grande cioè appena 4 decimi del Sole. Supponendo che essa sia alla stessa distanza di KIC 8462852 allora la distanza tra i due astri risulta essere di sole 885 UA, circa 132 miliardi di chilometri. Ancora non esistono dati sufficienti per stabilire se le due stelle siano legate gravitazionalmente o meno; ammettendo comunque che non lo fossero e che la nana rossa viaggiasse a 10 chilometri al secondo attraverso il sistema solare principale, le occorrerebbero 400 anni per attraversarlo tutto, un tempo quindi abbastanza lungo per portare scompiglio alla nube di Oort di KIC 8462852 fino forse farla collassare almeno in parte verso la stella principale, giustificando così la sua bizarra curva di luce .

Ipotesi artificiale

Jason Wright, un astronomo della Penn State University ha invece una teoria ancora più bizzarra: megastrutture artificiali in orbita alla stella capaci di catturarne parte dell’energia per renderla disponibile ad una civiltà aliena che si attesterebbe intorno al II grado della scala di Kardashev, capace cioè di manipolare l’energia di un’intera stella [cite]http://goo.gl/Egh6aU[/cite].
Non necessariamente, come da molti siti indicato a sproposito, questa o questte strutture dovrebbero dar luogo a una Sfera di Dyson, una struttura sferica che avvolge tutta la stella per raccoglierne tutta l’energia: primo, è assai improbabile trovare all’interno dei sistemi stellari tutta la materia necessaria per avvolgere completamente la stella ad una distanza utile da comprendere una ecosfera abitabile, e anche se fosse, molto probabilmente questo sarebbe un guscio troppo sottile per essere funzionale (almeno per i nostri standard tecnologici). Poi c’è l’eterno inconveniente delle leggi della termodinamica che spesso troppi tendono a dimenticare: affinché ci sia un lavoro deve esserci una differenza di potenziale, il che significa che tutta l’energia deve essere reirradiata nello spazio esterno nella sua forma più degradata 1, cosa che sicuramente non sarebbe passata inosservata alle diverse survey nell’infrarosso o ai radiotelescopi nelle lunghezze d’onda maggiori [cite]http://goo.gl/tMH1yF[/cite].
Strutture ad anello o specchi sparsi nelle varie orbite sarebbero strutture molto più facili da costruire e più funzionali rispetto a una Sfera di Dyson e, se complessivamente fossero abbastanza grandi, in questo caso almeno 7,60 x 1011  km2, ovvero 760 miliardi di chilometri quadrati, potrebbero giustificare questi cali di luce, ma lo stesso dovrebbe essere presente un picco IR per giustificare la radiazione degradata riemessa nello spazio.
Infine c’è l’età della stella, che per una stella grande 1,6 volte il Sole è comunque ridotta a un terzo. Anche ammettendo l’esistenza di un pianeta adeguato alla vita in un’orbita simile a quella di Marte (ricordo che la stella è più calda del Sole e quindi anche l’ecosfera è un po’  più grande della nostra) e con due terzi di vita della stella alle spalle (2 miliardi di anni), esso è probabilmente ancora troppo giovane perché possa ospitare forme di vita intelligenti da dar luogo ad una civiltà così evoluta da costruire gigantesche strutture artificiali in orbita alla loro stella. Si potrebbe obbiettare che questi costruttori potrebbero provenire da qualche altra parte, ma anche questa è solo una giustificazione che finisce per complicare quella precedente.

Conclusioni

Jason Wright ha fatto bene a pubblicare su ArXiv le sue speculazioni [cite]http://goo.gl/rSQ26H[/cite] e anche a citare il caso di KIC 8462852 tra i casi che richiedono più attenzione. È comunque sempre giusto prendere scientificamente in considerazione ogni ipotesi, nessuna esclusa.
Ma qui sempre di ipotesi si tratta, non di certezze come purtroppo in questo momento molti altri siti e media – anche autorevoli – stanno facendo. Anche se l’ipotesi del collasso della nube di Oort della stella appare piuttosto striminzita, per ora è la migliore che si possa fare. Far passare per vera l’esistenza di gigantesche strutture artificiali intorno alla stella solo sulla base che le altre ipotesi finora postulate sono deboli, non è fare scienza. Fin quando l’ipotesi di Wright rimane solo un’altra ipotesi, spacciarla per vera è un insulto all’intelligenza.
Solo il tempo, e altri dati, potrannno darci una risposta sensata; le speculazioni fatte a caso giusto per scroccare un click o un like sui social network no.

NASA Confirms Evidence That Liquid Water Flows on Today’s Mars | NASA

Le evidenze c’erano, e molte. Ma ancora era mancata la prova definitiva, la pistola fumante, come amano dire gli americani.
La sporadica presenza di metano nell’atmosfera richiamava processi abiotici di serpentinizzazione che necessariamente richiedono la presenza di acqua per accadere; gli studi di Catherine Weitz del Planetary Science Institute che identificò i segni della possibile presenza d’acqua allo stato liquido nel lontano passato di Marte all’interno di un gruppo di canyon chiamato Noctis Labyrintus 1 2;  La stessa presenza di perossido di idrogeno e vapore acqueo nell’atmosfera richiedono che l’acqua sia in qualche modo presente sul pianeta 3. Lo stesso rover Curiosity aveva mostrato conglomerati di ciottoli arrotondati come se fossero stati levigati dall’acqua [cite]http://goo.gl/FK8rx8[/cite] ma dove questa fosse finita, se dispersa nello spazio per fotodissociazione, congelata nel permafrost nei pressi dei poli o nel sottosuolo, non era possibile, fino ad ora, saperlo. L’unica cosa certa era, ed è ancora, che Marte è un luogo freddo e molto secco.

Ma adesso abbiamo la prima prova che dell’acqua liquida appare sporadicamente durante i mesi estivi marziani. Nell’attesa di poterne sapere di più vi rimando alla pagina della stessa NASA.

New findings from NASA’s Mars Reconnaissance Orbiter (MRO) provide the strongest evidence yet that liquid water flows intermittently on present-day Mars.

Sorgente: NASA Confirms Evidence That Liquid Water Flows on Today’s Mars | NASA