Come il V2H può cambiare l’Italia (parte prima)

L’autonomia energetica non è solo un sogno. È una scelta tecnica, culturale e personale. Da un paio di anni vivo in una casa alimentata da un impianto fotovoltaico da 8 kWp, con 15 kWh di accumulo e una gestione intelligente orchestrata da intelligenza artificiale. Risultato? La mia ultima bolletta bimestrale è di 48 €, di cui 16 € sono il canone TV. Il resto è energia. E anche quella, è tutta mia.

Ho dovuto, malvolentieri, suddividere l’articolo i due tronconi: ci sono troppe cose da dire rispetto al tempo di attenzione di un lettore medio. Questa m’è parsa la soluzione migliore per tutti, e ne varrà la pena aspettare qualche giorno affinché l’importanza di un veicolo elettrico V2G e del fotovoltaico casalingo con accumulo venga compresa al meglio dal lettore.
Nel prossimo, le considerazioni finali.

L’auto come batteria: il concetto di V2H/V2G

Con l’arrivo della mobilità elettrica, le auto non sono più solo mezzi di trasporto. Sono accumulatori mobili da 60–100 kWh, parcheggiati per il 90% del tempo. Il V2H (Vehicle-to-Home) permette di scaricare energia dalla batteria dell’auto per alimentare la casa. Il V2G (Vehicle-to-Grid) consente di immettere energia nella rete nazionale, contribuendo alla stabilità e ricevendo compensi.

 

Simulazione: un milione di auto elettriche V2G

ParametroValore stimatoNote / fonte
Numero di auto V2G1.000.000
Plausibile al 2028-2030 (oggi ~334k EV totali, proiezione PNIEC: 6,5M al 2030).
Percentuale attiva contemporanea50% → 500.000 autoBasato su soste medie (notte/lavoro), ~50% connesse in orari di picco.
Capacità media batteria60 kWh (conservativa)Media attuale 53 kWh; sale con nuovi modelli.
Energia disponibile per V2G50% della batteria → 30 kWh/autoLimite per non intaccare mobilità; ciclo round-trip 80%.
Totale energia disponibile500.000 × 24 kWh = 12 GWhUtile per ~1-2 ore di scarica di picco.
Potenza media erogabile/auto3 - 7 kW (scarica controllata, non massima)Conservativo; fino a 7 kW domestico, 22 kW aziendale.
Potenza istantanea totale1.5 - 3,5 GWDipende da aggregazione; es. 500k × 3-7 kW.
Impatto sulla rete nazionale
12 GWh di energia immediata disponibile → sufficiente a coprire:
Il fabbisogno giornaliero di 2 milioni di abitazioni (media 6 kWh/giorno/abitazione)
1.5 - 3.5 GW di potenza istantanea → pari a
circa una grande centrale nucleare.
O il 10–15% del picco serale medio italiano in inverno

 

La rete italiana (gestita da Terna) ha un picco di domanda attuale di circa 56 GW (luglio 2025), con consumi medi giornalieri di circa 800 GWh. Un parco V2G come immaginato nella simulazione agirebbe come una batteria distribuita mobile: essa assorbe senza sforzo gli eccessi rinnovabili (ex. il solare diurno) e rilascia in picchi serali, stabilizzando la rete senza bisogno di storage stazionario costoso. Ecco l’impatto stimato, in termini percentuali e benefici:

  1. Su Picchi di Domanda (Peak Shaving)
    • Riduzione potenziale: 1.5-3.5 GW, ovvero il 2.7-6.2% del picco nazionale (56 GW).
    • Esempio locale: A Roma, stime Areti indicano circa 400 MW solo con lo smart charging più il V2G iniziale; su scala nazionale si potrebbe arrivare a 2-4 GW con un milione di auto.
    • Beneficio: Eviterebbe blackout o investimenti di rete per un risparmio di circa 1-2 miliardi di euro fino al 2030.
  2. Su Energia Totale e Integrazione Rinnovabili
    • 12 GWh netti equivalgono a circa l’1.5% del consumo giornaliero, stimati oggi 800 GWh, ma concentrati tutti in 2-4 ore di picco; questo scenario dimezzerebbe i vuoti serali, integrando il surplus del 10-15% di solare/eolico (oggi al 42% della domanda energetica).
    • Al 2030, con 6.5 milioni di veicoli elettrici V2G (stimati) si otterrebbe un potenziale accumulo totale pari a 300 GWh (pari alla produzione giornaliera di 12 centrali nucleari da 1000 MW), riducendo le emissioni CO2 di 200-300 mila tonnellate all’anno (valore economico 0.8-4.8 €/kWh evitato).
  3. Benefici Economici e Ambientali
    • Economici: Almeno 700-800 milioni di euro all’anno per il sistema (riduzione costi dispacciamento del 40%); mentre gli utenti guadagnerebbero intorno ai 100 €/auto/anno vendendo il surplus di energia.
    • Ambientali: Maggiore quota di rinnovabili significa meno emissioni (la doppia vita delle batterie ridurrebbe il bisogno di litio); il degrado extra batteria <1% in 10 anni con gestione smart.
    • Rischi: Congestioni locali se non aggregati bene, ma mitigabili con le Unità Virtuali Abilitate Miste (UVAM) da 1 MW [1]

Sala tecnica operativa di Terna (RM)

Secondo Motus-E e ARERA [2] il V2G potrebbe diventare una delle leve principali per la transizione energetica italiana, con incentivi fino a 600 €/anno per utente e un significativo – come abbiamo visto — impatto strutturale sulla bilancia energetica nazionale.
In pratica, se anche solo metà delle auto elettriche italiane diventassero V2G-ready, potremmo trasformare il parco circolante in un gigantesco UPS nazionale, capace di assorbire e restituire energia in modo intelligente.

Un esempio molto simile è il californiano V2G Curbside [3] dell’aprile 2025. Il California Energy Commission ha finanziato un progetto da 1.1 milioni di dollari per sviluppare il primo sistema V2G curbside al mondo 1. È stato pensato in collaborazione con UC Berkeley e University of Delaware per creare colonnine bidirezionali installabili sui marciapiedi urbani, dove milioni di auto sono parcheggiate ogni giorno, con l’obiettivo di trasformare le auto elettriche in sosta in risorse energetiche attive, capaci di scaricare energia nella rete durante i picchi e ridurre la pressione sulle infrastrutture elettriche.
Solo in California, si parla di 7 milioni di veicoli leggeri parcheggiati quotidianamente. Se anche solo il 10% di questi fosse V2G-ready, si otterrebbero 21 GWh di energia disponibile in caso di necessità. Il progetto include lo sviluppo del J3068 Active Cable [4], un cavo intelligente che gestisce comunicazione, autenticazione e flussi bidirezionali.

24 Giugno 2025, California. Un Modello Perfetto

il 24 giugno 2025, la California ha vissuto un momento storico. Durante una fascia critica tra le 19:00 e le 21:00, la rete elettrica era sull’orlo del blackout a causa di un picco di richiesta e una produzione rinnovabile in calo (picco +15-20% rispetto alla richiesta prevista). Ed è lì che è entrata in gioco la Virtual Power Plant (VPP) di Tesla e Sunrun: una rete di 25.000 Powerwall domestici aggregati e gestiti in tempo reale.
Sunrun ha dispacciato oltre 340 MW prelevate dalle batterie domestiche in serata, mentre Tesla ha testato un evento con migliaia di Powerwall, iniettando potenza extra durante le ore critiche e evitando blackout diffusi. Si è trattato di un salvataggio da 100 MWh in un colpo solo, simile a una centrale termoelettrica di medie dimensioni ma distribuito e scalabile. E il sistema ha risposto in modo sincrono, stabile e distribuito, evitando il collasso della rete. Il modello  californiano, con la sua straordinaria capacità di adattamento — domanda di picco intorno ai 50 GW, ha tagliato i costi emergenziali per centinaia di milioni di dollari e integrato un 15% di surplus di energia rinnovabile senza ricorrere a nuovi impianti centrali.

In Italia, con i nostri picchi estivi (tipo +7% consumi a giugno 2025), un setup VPP da un milione di auto e accumuli casalinghi potrebbe replicarlo alla scala nazionale, coprendo 1-3 GW extra senza muovere nemmeno un mattone.
L’esperienza californiana dimostra che l’energia decentralizzata è affidabile e che l’applicazione concreta dell’intelligenza artificiale nella gestione della rete elettrica distribuita è in grado di coordinare migliaia di dispositivi privati senza sforzo. E questo è un modello perfettamente replicabile in Italia grazie all’integrazione del modello casa-auto elettrica tramite il V2H/V2G.

28 aprile 2025. Caos nella Penisola Iberica

Il blackout del 28 aprile 2025 in Spagna e Portogallo è stato un campanello d’allarme per tutta l’Europa [5]. In pochi secondi, 15 GW di potenza sono spariti dalla rete iberica, causando oltre 10 ore di interruzione in molte zone e gravi disagi nei trasporti, telecomunicazioni e servizi essenziali. E tutto questo, paradossalmente, in un momento di alta produzione rinnovabile.
Non è stata la sovrapproduzione delle fonti rinnovabili, come qualche incauto il giorno dopo azzardò a proporre, ma una rete non sufficientemente flessibile per gestire sbilanciamenti improvvisi. Più precisamente fu proprio l’assenza di sistemi di bilanciamento del carico elettrico nazionale come sistemi di accumulo distribuito configurati in una VPP attiva a far crollare il sistema o, almeno, questa soluzione avrebbe ridotto di almeno un 40/50% le probabilità di un blackout estremo come quello che si è verificato dando il tempo necessario ai gestori di riallineare gli impianti tradizionali.

28 settembre 2003: Blackout italiano

L’Italia vista dallo spazio la notte del blackout nazionale del 2003

Dopo il blackout del 28 settembre 2003 [6], l’Italia ha invece investito pesantemente in reti intelligenti (le smart grid) con sistemi di protezione e riaccensione automatica, e interconnessioni europee più robuste coi paesi europei più vicini (Francia, Svizzera, Slovenia). Anche i sistemi di accumulo stazionario e fotovoltaico residenziale sono in crescita costante.
L’adozione della normativa CEI 0-21 che ora include anche il V2G [7] consentirà alla rete elettrica nazionale italiana di essere ancor più resiliente di quanto sia oggi.

Ora, immaginiamo di adattare l’ipotesi di cui sopra di un parco di un milione di auto elettriche V2G, esteso magari anche alle batterie domestiche per chi ha il fotovoltaico: con ARERA che promuove le Unità Virtuali Miste (UVAM [8]) regolamentate dal Testo  Integrato del Dispaccciamento Elettrico (TIDE [9]) dal 2025, è fattibile: aggregatori come Enel X o nuovi player potrebbero coordinare via app, pagando 0.10-0.20 €/kWh per scarica.
Ecco l’impatto stimato da questo scenario:

  1. Sul picco italiano del 28 giugno scorso  (eccesso di rchiesta di energia intorno a 1-2 GW):
    • La VPP coprirebbe il 75-175% dell’extra domanda: 1.5-3.5 GW iniettati nelle 2-4 ore serali di picco dimezzerebbero il calo del fotovoltaico, evitando così onerose importazioni lampo da Francia e Austria (+20% nei prezzi spot).
    • Beneficio: Risparmio rete di circa 100-200 milioni di euro a evento senza emissioni di gas extra,  grazie al surplus  fotovoltaico (Italia al 10% quota, sale al 25% con VPP).
  2. Rispettto al blackout spagnolo (un distacco generale causato dalla perdita di 30-36 GW):
    • Scala nazionale: La rete italiana (picco 56 GW) è simile; una VPP da un milione di auto V2G mitigherebbe  del 5-6% un guasto simile (appoggiandosi comunque anche alla rete europea). Con espansione a 2-3 milioni di auto V2G al 2027,  si raggiungerebbero i 4-7 GW. Abbastanza per tamponare un 10-20% di caduta, dando tempo a Terna per reindirizzare il sistema.
    • Scenario ottimista: In picco di domanda dovuta a un’ondata di caldo anomalo imprevisto,tipo il caso californiano, o un guasto alla rete , nel caso spagnolo, una VPP e le smart grid ridurrebbero i rischi di blackout totale del 40-50%, come in CA.
    • Economicamente: Gli utenti guadagnerebbero per il loro surplus 100-200 €/auto/anno; il sistema nazionale risparmierebbe intorno ai 500-1 miliardo di euro all’anno in investimenti di stoccaggio.

 

La rana bollita e il Grande Filtro

Sono passati ormai diversi anni da quando ho pubblicato il mio ultimo post. Vuoi per pigrizia, alcuni acciacchi e altri, numerosi, progetti in cantiere che spero di finire, prima o poi. Uno di questi è appunto svecchiare questo bog. C’è ancora molto da fare, ma questo articolo è un inizio.
Ora voglio suggerire il Grande Filtro come un processo già in atto, non come un futuro prossimo o remoto. Magari col botto.

 

1. Il Grande Filtro

Robin Hanson definì il Grande Filtro come l’ostacolo (o la sequenza di ostacoli) che impedisce alla materia inerte di organizzarsi (vita) e diventare civiltà evoluta  [10].
Io aggiungo: che non necessariamente il Grande Filtro deve essere necessariamente una catastrofe col botto come  un meteorite, ma una cottura a fuoco lento iniziata quando la specie ha dimenticato come si regola il termostato.

La rana bollita

Non credo che il Grande Filtro debba essere per forza un evento catastrofico violento come il meteorite di Chicxulub, ma un processo molto più lungo, tipo” rana bollita”.
L’idea che il Grande Filtro sia un processo lento piuttosto che un singolo evento catastrofico è supportata anche da alcuni studiosi, come Anders Sandberg e Peter Søgaard Jørgensen [11] , che suggeriscono che il Filtro possa essere una serie di “trappole evolutive” piuttosto che un unico disastro.
Non necessariamente una civiltà tecnologica potrebbe fallire non per un’esplosione nucleare improvviso o un conflitto, ma per una graduale incapacità di gestire risorse, conflitti o tecnologie avanzate.
La metafora della “rana bollita” è perfetta: l’umanità potrebbe non accorgersi del pericolo finché non è troppo tardi per intervenire.

2. Quando è partito il conto alla rovescia?

Potremmo fissare un inizio convenzionale: 1750, macchina a vapore, carbone, miniere di ferro.
Da allora:
  • +1,5 °C medi globali [12]
  • 150-200 Mld USD / anno di danni climatici solo negli USA [13]
  • fracking, GNL, IA senza vincoli → tutte trappole lente che Sandberg e Jørgensen chiamano evolutionary traps [14].

Ma, molto più plausibilmente, ancora prima.

3. Cooperazione vs. individualismo:
la molla che si spezza

L’Homo sapiens ha sviluppato la sua civiltà proprio grazie a finzioni condivise [15]
Due viraggi l’hanno spostata sul binario opposto:
MomentoDriverEffetto
1550-1700CalvinismoPredestinazione → etica del lavoro individuale [11]Weber, M., & Parsons, T. (2010)
1980-oggiNeoliberismo liquidoMercato > Comunità, ansia, precarietà [12]Bauman, Z. (2020).
Non siamo individui isolati che prendono decisioni in un vuoto razionale. Siamo creature profondamente sociali, guidate da emozioni, relazioni e dall’inconscio, che plasmano chi siamo e come viviamo.
The Social Animal: The Hidden Sources of Love, Character, and Achievement, David Brooks

La cooperazione è stata la chiave del successo umano [16]. La capacità di formare gruppi, condividere risorse e sviluppare culture complesse ha permesso l’evoluzione da piccole comunità di cacciatori-raccoglitori a civiltà avanzate.
Ad esempio, la rivoluzione agricola (circa 10.000 anni fa) e le prime città (es. in Mesopotamia, sulle sponde del Fiume Giallo in Cina, in Mesoamerica come in Nuova Guinea) si basavano su una forte collaborazione sociale,  reti di reciprocità: condivisione di semi, gestione collettiva dell’acqua e difesa comune. Studi antropologici, come quelli in Sapiens [17] e Homo Deus [18], sottolineano che la nostra abilità di creare finzioni condivise (es. religione, leggi e valori) ha reso possibile la cooperazione su larga scala. Non fu quindi la genialità di singoli, ma l’accumulo di conoscenza condivisa (come scrive Jared Diamond in Armi, acciaio e malattie [19].
Invece l’idea che l’individuo prevalga sulla comunità si è affermata con forza soltanto in epoche recenti, specialmente con il calvinismo. 1[20]

l’Illuminismo (XVIII secolo) e il capitalismo moderno.

Ma mentre nel calvinismo delle colonie puritane era presente comunque un forte controllo comunitario (es. norme morali rigide), suggerendo quindi che qui l’individualismo era bilanciato da vincoli sociali, nella versione più liberista queste regole sono state definitivamente infrante.

La glorificazione dell’individuo, del profitto personale e della competizione ha portato a progressi tecnologici ma anche a disuguaglianze estreme. Questo si riflette, ad esempio, nella rivoluzione industriale, che ha concentrato ricchezze in poche mani, o nel neoliberismo degli ultimi decenni, che ha privilegiato il mercato rispetto al bene comune, come ben evidenziato da Zygmunt Bauman [21] nella una critica profonda e articolata alla società contemporanea, centrata sul concetto di modernità liquida e di come la globalizzazione e la perdita di riferimenti stabili (es. lavoro, relazioni, valori) siano fonte di ansia, alimentata da media e politiche che sfruttano l’industria della paura .
Non che l’altro modello alternativo, il marxismo, sia migliore dell’ortodossia capitalista.
Nel marxismo, l’individuo è subordinato alla collettività e alla lotta di classe. Marx vede l’individuo non come un agente isolato, ma come parte di un sistema sociale ed economico (capitalismo, poi socialismo) che ne determina il comportamento e le possibilità. La realizzazione individuale avviene attraverso la partecipazione alla trasformazione collettiva della società, abolendo per legge le disuguaglianze di classe. A differenza del calvinismo, che esalta l’autonomia personale e l’etica del lavoro individuale, il marxismo privilegia la cooperazione e il collettivo per superare lo sfruttamento capitalistico, relegando l’individualismo a un prodotto dell’ideologia borghese. Qui l’individuo è definito dal suo ruolo nella struttura economica (es. operaio, capitalista). Le scelte personali sono limitate dalle condizioni materiali: un lavoratore non è “libero” perché deve vendere la sua forza-lavoro per sopravvivere.
Il marxismo ha ispirato movimenti collettivi (es. Rivoluzione Russa, 1917) che hanno cercato di abolire le disuguaglianze, ma spesso a scapito della libertà individuale (es. autoritarismo sovietico). Questo mostra un paradosso: pur promuovendo il collettivo, alcune applicazioni del marxismo hanno soffocato l’individuo, contrariamente all’ideale di Marx di una società in cui ciascuno si sviluppa liberamente. Senza contare i danni ambientali dove, anche qui come nel capitalismo, si antepone il primato della società umana sulla natura: i disastri ambientali come quello del lago di Aral [22] sono frutto di una gestione delle risorse naturali che non tiene affatto conto delle conseguenze a lungo termine sull’ambiente.
Nel marxismo l’individuo è subordinato alla collettività: la sua realizzazione avviene attraverso la lotta di classe e la costruzione di una società senza sfruttamento, in netto contrasto con l’individualismo calvinista che esalta l’autonomia personale. Marx vede l’individualismo come un’illusione borghese che nasconde lo sfruttamento, e promuove la cooperazione per superare le disuguaglianze. Tuttavia, le applicazioni storiche del marxismo hanno spesso sacrificato l’individuo in nome del collettivo, mostrando un altro rischio del Grande Filtro: perdere l’equilibrio tra i due.

Le opere più enigmatiche e curiose dell’Isola di Pasqua probabilmente segnarono la fine del popolo Rapa Nui. Altre ricerche però sono critiche al riguardo.

Oggi abbiamo tecnologie globali, ma ancora istinti tribali. I social media sfruttano questa dissonanza, polarizzando il pensiero, mentre il mercato continua a premiare chi estrae valore (dati, risorse), non chi crea beni comuni (clima stabile, pace, conoscenza aperta).Un focus eccessivo sull’individuo erode la cooperazione necessaria per affrontare sfide globali come il cambiamento climatico o l’esaurimento delle risorse.
Nel suo libro Collasso [23], Diamond documenta come società del passato (es. Maya, Isola di Pasqua, Norse della Groenlandia) siano crollate a causa di una gestione insostenibile delle risorse, spesso aggravata da disuguaglianze sociali e mancanza di cooperazione. Ad esempio, sull’Isola di Pasqua, l’élite Rapa Nui ha sfruttato le foreste per costruire statue (moai), ignorando i bisogni della comunità, portando alla deforestazione e al collasso. Diamond identifica cinque fattori ricorrenti: danno ambientale, cambiamento climatico, conflitti interni, relazioni esterne e incapacità di adattamento (ricerche più recenti dell’Università di Oackland, Nuova Zelanda, suggeriscono conclusioni diverse [24]).

Il precedente accenno al fracking (costi ambientali, emissioni di metano) mostra come l’interesse individuale delle compagnie petrolifere prevalga sul bene comune, contribuendo al riscaldamento globale (+1,5°C rispetto al preindustriale). Questo è un chiaro esempio di gestione diseguale delle risorse che rischia di “bollire” l’umanità.

Ma più di tutto, quelle che colpiscono la mia attenzione sono le disuguaglianze economiche: Nel 2024, l’1% più ricco possiede il 50% della ricchezza globale, mentre 3 miliardi di persone vivono con meno di 6,85 dollari al giorno 2 [25]. Questa disparità, come descritto da Diamond, crea tensioni sociali e instabilità, rendendo ancora più difficile superare il Grande Filtro.

Conclusione – Disinnescare il Grande Filtro

Se il Grande Filtro è un processo in corso, non è necessariamente un verdetto. Può essere una prova selettiva, un bivio evolutivo che distingue civiltà capaci di visione da quelle prigioniere di miopia sistemica.

Come mostra Anders Sandberg [26], superare il filtro implica:

  • Pensiero su scala temporale estesa, come suggerito da Ord [27], che considera la sicurezza esistenziale una disciplina cruciale.
  • Etica computazionale e governance del rischio, in linea con gli studi del Future of Humanity Institute [28].
  • Progettazione di sistemi resilienti, che integrino tecnologia e coesione sociale (Sandberg et al., 2018, vedi i riferimenti).
  • Riscoperta del valore della cooperazione, anche attraverso finzioni condivise come mostrato da Harari (2014, 2016, vedi riferimenti), e reinterpretato in chiave sistemica da Jørgensen (vedi riferimenti)

In questo scenario, l’individuo non è rifiutato, ma reinserito nel tessuto collettivo con una nuova consapevolezza: quella che la sopravvivenza, il progresso e il senso si raggiungono insieme, non contro.

“Se il Filtro è un esame evolutivo, l’interrogazione è aperta.
Non basta evitare di bollire: occorre imparare a progettare il termostato. E magari, come suggerisce Sandberg, l’astronave.”

Breakthrough Listen Candidate 1: molto extra ma quasi certamente terrestre.

Premetto che ancora poco o nulla si sa su Breakthrough Listen Candidate 1. Non esiste ancora un documento ufficiale su questo segnale captato nei pressi di Proxima Centauri. Tutto ha avuto origine da un articolo sul Guardian[29] e poche altre indiscrezioni apparse qua e là.  Le voci finora a me giunte sono ancora troppo poche per poter suggerire quale sia l’esatta origine di BLC-1.
Questo però dimostra ancora una volta che la scienza non teme di rincorrere un tema spinoso come la ricerca di altre intelligenze extraterrestri, così come è impossibile che una notizia simile rimanga celata tanto a lungo. come suggeriscono alcuni furbi ai tanti beoti teorici del complotto.

Il sistema Alpha Centauri

Si fa presto a dire che Breakthrough Listen Candidate 1 (BLC-1) sia stato un segnale emesso da una civiltà tecnologica extraterrestre.
Tra aprile e maggio del 2019, il radiotelescopio Parkes (Australia), nell’ambito della ricerca Breakthrough Initiatives [30] per la ricerca di civiltà extraterrestri, è stato puntato verso la regione di cielo che ospita Proxima Centauri. la terza stella del sistema di Alpha Centauri.
Proxima è una stellina piccola e fredda, una M5 con una massa circa un decimo del Sole. Questo la rende soggetta a esplosioni coronali molto vivaci e frequenti causate dalla sua instabilità magnetica, esplosioni capaci di sterilizzare qualsiasi pianeta le orbitasse vicino.
Proxima in effetti ha due di pianeti uno appena più grande della Terra, in orbita nella zona abitabile (5 centesimi di unità astronomiche, 7,5 milioni di chilometri), e uno a 1,48 UA, grande 6 volte la Terra e completamente ghiacciato. I grandi brillamenti, che per loro natura hanno tutte le stelle di piccola massa, rendono assai poco probabile che si possa essere sviluppata la vita e poi una civiltà avanzata analoga alla nostra in un sistema siffatto, perché semplicemente, le condizioni non sono certamente le più adatte 1.
Parkes era stato puntato verso Proxima non per cercare gli alieni, i ricercatori quello che ho appena detto lo sanno, ma per studiare probabilmente i lampi di energia tipici di una stella a flares. Questo genere di studi è necessario se si vuol  capire come riconoscere un segnale di origine artificiale da uno naturale.
Ma, durante l’ascolto, è stata notata una nota a 982,002 MHz, un debole segnale monotonico, ossia che, apparentemente, non contiene alcuna informazione codificata in esso. Ci si aspetterebbe che qualsiasi segnale di natura artificiale emesso da una civiltà extraterrestre con l’intento di comunicare contenga informazioni, modificando cioè l’intensità del segnale o modulando la sua frequenza, oppure ruotando il suo piano di polarizzazione, come avviene anche nelle comunicazioni terrestri, per esempio.
Ma BLC-1 (il nome dato al segnale) è stato, come ho detto, un debole segnale monotonico, l’equivalente di un fischio di una locomotiva, o di un fascio radar che non necessariamente si pretende che contenga qualche sorta di informazione. Curioso, ma non eccezionale: noi terrestri usiamo spesso segnali di questo genere.
Per dimostrare di essere un segnale di origine extraterrestre, i ricercatori in genere cercano subito se appare una qualche deriva di frequenza2, ovvero l’analogo dello spostamento verso il rosso o il blu caratteristico di una sorgente (o del ricevitore) che si muove nello spazio rispetto al suo opposto. È così che vengono scoperti i pianeti extrasolari col metodo spettrale: osservando e misurando le oscillazioni delle righe spettrali delle stelle. E questa caratteristica, pare che BLC-1 l’abbia mostrata. Ma il monotono è stato registrato per troppo poco tempo (alcune indiscrezioni parlano di 5 volte nell’arco di 3 ore) per stabilire se la sua deriva appartiene al movimento della Terra attorno al Sole (ricevitore) o se è la sorgente (il segnale) a muoversi attorno a Proxima Centauri.

Ipotesi

Come ho sottolineato prima, non necessariamente un segnale artificiale deve per forza contenere informazioni codificate al suo interno: basti pensare ai fasci di radioonde dei radar, che devono semplicemente illuminare un oggetto e captarne il riflesso. Oppure uno di quei transponder usati per la triangolazione e localizzazione delle piste di atterraggio degli aeromobili 3 che, quando sono fuori servizio di solito non trasmettono il loro codice identificativo proprio per dimostrare che non sono operativi.
Anche alcuni satelliti spia della vecchia Unione Sovietica trasmettevano in prossimità della banda L di radiocomunicazioni (tra 1 e 2 Ghz) e anche alcune vecchie telecomunicazioni usavano la parte alta della banda P (UHF).
Un detrito spaziale in un’orbita insolita, pressoché stazionaria, che avesse potuto riflettere un segnale di questi verso la Terra, anche se appare alquanto poco probabile, potrebbe offrire una spiegazione ben più convincente di una ipotetica civiltà tecnologicamente avanzata evolutasi su un pianeta in orbita a Proxima Centauri. Oppure un satellite artificiale non identificato, magari un satellite spia militare non classificato, potrebbe essere all’origine del misterioso segnale.
Un segnale spurio o una sua armonica 4 appare difficile da spiegare, perché il segnale era presente solo quando il Parkes era puntato in direzione di Proxima Centauri, il segnale scompariva appena il radiotelescopio veniva spostato (questa tecnica è chiamata nodding, dal termine inglese usato per descrivere l’annuire con un gesto della testa) ma non impossibile.
Poteva essere un segnale prodotto da una sorgente naturale molto più lontana e non necessariamente sulla stessa linea di vista, che le particolari attività di Proxima di quel momento, per esempio campi magnetici e plasma, hanno deflesso, messo in risonanza ed esaltato, producendo poi il segnale monotonico osservato (BLC-1) a 982 MHz. Oppure un’altra sorgente posta casualmente sulla stessa direttrice di Proxima Centauri, così come la scorsa settimana Giove e Saturno sembravano quasi sovrapporsi se visti dalla Terra.

Conclusioni

Quel che cerco di evidenziare è che non serve necessariamente ricorrere all’ipotesi più fantasiosa e affascinante per spiegare la natura di un segnale radio transitorio. Sì, perché BLC-1 nel frattempo pare che sia scomparso: qualunque cosa fosse stato, ha cessato di trasmettere, o forse noi non siamo più in grado di rivelarlo.
Anche noi, in passato, abbiamo intenzionalmente diretto un segnale radio transitorio verso lo spazio[31] con l’intento di comunicare la nostra presenza al panorama cosmico, ma condensammo un sacco di informazioni nel nostro segnale (se poi chi lo capterà sarà in grado di decifrarlo e comprenderlo, quello è un altro discorso) e BLC-1 non pare essere questo.
Solo il tempo — e ulteriori analisi — potrà dirci qualcosa di più della reale natura di Breakthrough Listen Candidate 1.

Interminati mondi e infiniti quesiti

La copertina del mio libro: anche la fotografia qui è mia. Su Amazon si può leggere sia la sinossi che un breve estratto gratuito.

Ho sempre sostenuto che nell’affrontare un argomento tanto complesso non si dovrebbe mai prescindere dal raccontare anche le condizioni che lo circondano, esattamente come per lo scrivere, o il parlare, occorre conoscere il significato di ogni singola parola usata. Mi è altrettanto caro però anche un altro concetto: un libro non serve a dare esclusivamente nozioni, ma deve offrire al lettore anche qualcosa su cui riflettere e proporre di approfondire autonomamente l’argomento di cui tratta.

Per questo saggio[32] a me sono serviti quattro anni. O forse anche di più.
Sicuro che il primo embrione di quello che poi sarebbe diventato il mio primo libro — non ho affatto intenzione di fermarmi a questo, uscì proprio su questo Blog nel 2015[33], attraverso una serie di articoli sul celebre Paradosso di Fermi. Non sto a ripeterne qui la storia, l’ho spiegata in un capitolo del mio lavoro.
Ho detto quattro anni, perché ne parlai durante un pranzo con la Responsabile della Didattica e Divulgazione presso la Fondazione GAL Hassin-Centro Internazionale per le Scienze Astronomiche, Isnello (PA), (blogger di Tutti Dentro , firmatrice di diversi articoli qui ospitati, nonché mia carissima amica) Sabrina Masiero nel lontano 2016, e che poi mi ha aiutato tantissimo proprio nelle ultime revisioni alla fine dello scorso anno.

È stata una genesi lunga che alla fine mi ha portato molto lontano — e non solo da queste pagine — e fatto maturare in modi che, sinceramente, non avrei mai creduto possibile. Ho rivisto alcune mie posizioni, affrontato argomenti e campi a me del tutto sconosciuti o appena osservati da lontano.
Esplorare le innumerevoli domande insite in questo saggio è virtualmente impossibile, perché ognuna di esse apre infiniti altri quesiti che richiederebbero altrettanti trattati. Per questo ne ho scelti e affrontati soltanto qualcuno. Una scelta difficile, che mi ha portato a scrivere e abbandonare centinaia di bozze e sviluppare quelle che ho comunque ritenuto più significative.

Affrontare i temi della Vita, Intelligenza e Civiltà extraterrestri prendendo spunto unicamente dall’umana esperienza su questo mondo può sembrare scontato, ma molto spesso tale sforzo non viene  compiuto.
Duecento o quattrocento miliardi di stelle nella nostra Galassia non significa che ognuno di quei soli sia accompagnato da qualche forma di vita, anche se appena batterica. Anzi: la maggior parte delle stelle che vediamo ad occhio nudo (appena qualche migliaio) o è troppo grande oppure possiede qualche altro handicap da scontare.
Eppure tra queste centinaia di miliardi si possono ancora calcolare milioni di altre stelle che potrebbero benissimo ospitare altrettante terrificanti e pur sempre meravigliose forme di vita; queste potrebbero funzionalmente somigliare ad alcune di quelle che la Terra ha ospitato in quattro miliardi di anni, oppure no.
Come è esattamente sorta la vita sulla Terra ancora nessuno lo sa, ma ci sono buoni e ragionevoli motivi per pensare che questo sia accaduto — e che accada ancora — attorno a quei milioni di stelle che ho appena citato, e questo lo si è creduto o, perlomeno sospettato, fin dalla preistoria.
Il concetto stesso di Vita ha mutato significato nei secoli e con esso anche il modo in cui si è supposto che la Vita sarebbe potuta emergere. Dall’aristotelica abiogenesi alla sua definitiva smentita da parte di Pasteur, dal concetto fumoso di Erasmus Darwin (il nonno di Charles) fino agli esperimenti di Miller e Urey[34] che hanno spianato poi la strada alla moderna astrobiologia.
Ma quello che — almeno per me, amante da sempre del razionalismo scientifico — è apparso sempre più evidente, man mano che andavo avanti con la stesura, è stata la similitudine tra il concetto metafisico del Divino e quello dell’Universo e la sua storia che  faticosamente stiamo scoprendo nel’ultimo secolo.
Deus sive Natura, diceva più di tre secoli fa il filosofo olandese Baruch Spinoza, Dio ossia la Natura. E l’implicito che qui in parte tento di mostrare è simile: tutta la storia dell’Universo che abbiamo ricostruito ci mostra che sotto molti aspetti il Divino e la Natura possono essere concetti piuttosto simili e spesso essere perfino sovrapponibili. Col mio studio desidero soltanto offrire alcuni spunti su cui riflettere partendo da una domanda fatta per celia all’ora di pranzo dal grande fisico che fu Enrico Fermi e che è matematicamente riassunta nell’Equazione di Francis Drake.

Come ogni buon libro che si rispetti, ho chiesto a Marco Castellani, dell’Osservatorio Astronomico di Roma – INAF, blogger di Gruppo Locale e scrittore, di curare la prefazione del mio lavoro. Ne è sortita una piccola perla che merita di essere gustata per intero, perché anch’essa offre al lettore miriadi stimoli di riflessione.

Non voglio svelare di più per non rovinarvi il gusto della lettura del mio saggio, ma posso dirvi che per me è stato un viaggio meraviglioso e che spero, con l’approvazione di voi lettori, presto di rifare.

 

Cieli sereni.

Illusioni marziane

Ancora una volta sono qui per commentare l’adagio: c’è vita su Marte? L’unica mia risposta è che no lo so, ma sono estremamente scettico sul fatto che il Pianeta Rosso abbia mai ospitato forme di vita. Rimango possibilista verso l’ipotesi di vita procariotica all’inizio della storia marziana, ma anche su questo nutro dubbi. Perché Marte è piccolo, troppo piccolo per aver mai avuto un’atmosfera abbastanza spessa da mantenere l’acqua allo stato liquido per il tempo necessario a sviluppare forme di vita più complesse. 

Il professor William Romoser dell’Università dell’Ohio suggerisce che questa immagine, scattata da un rover su Marte, sia un forma di vita marziana. Per me è semplicemente un caso di pareidolia, . (Credit: William Romoser)

Nell’estate del 1964, poco prima del lancio della missione Mariner 4 (la prima sonda interplanetaria che ci descrisse la realtà marziana) un istituto sponsorizzato dall’ente spaziale americano NASA, organizzò un simposio per tentare di descrivere cosa avrebbe potuto scoprire la sonda nella peggiore delle ipotesi. Ancora nel 1964 si sapeva poco e niente di Marte, della sua atmosfera, del suo suolo ricco di perossidi, della sua abitabilità: tant’è che si speculava persino dell’esistenza di forme di vita complesse delle dimensioni di un orso polare[35].
Oggi, grazie ai numerosi rover e laboratori automatici inviati sul Pianeta Rosso, sappiamo che non è così. 
Ogni giorno Marte si rivela un incredibile laboratorio dove testare le più ardite teorie dell’esobiologia: i pennacchi di metano stagionali[36] e ora di ossigeno[37], spingono i meno informati a immaginare che su Marte, dopotutto, ci sia qualche forma di vita, forse anche abbastanza evoluta. 
Infatti, ancora esistono sacche di pensiero che resistono a quanto si è scoperto in quest’ultimo mezzo secolo su Marte.
L’entomologo americano William Romoser ha presentato, il 19 novembre scorso, un documento al convegno[38] dell’Entomological Society of America tenutosi a St. Louis, nel Missouri.
Romoser sostiene di aver identificato forme di vita complesse, sia fossili che viventi, in diverse immagini scattate dai rover marziani. Le altre immagini, che sono pubblicate nel suo documento,  suggeriscono teste di serpenti fossili, insetti in volo, e così via.
A mio parere, e ringrazio l’amico Stefano che mi ha comunicato la notizia, è semplicemente l’ennesimo caso di pareidolia, dettato in questo caso dall’attitudine mentale di chi è abituato a vedere insetti ovunque: un entomologo, appunto.

Il Volto di Cydonia, conosciuto anche come Sfinge di … , è il più noto caso di pareidolia legato a Marte. Credi: NASA/JPL

Non è la prima volta, e non sarà neanche l’ultima, che nella frastagliata superficie di Marte vengono scorte immagini bizzarre e giochi di luce che si prestano a eccentriche interpretazioni  riconoscendovi cose a noi più familiari: il volto della Sfinge di Cydonia è uno dei più noti, ma c’è chi giura di aver scorto anche piramidi, cupole, resti di statue e cinte murarie. 

Nel 1958, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad descrisse un fenomeno chiamato apofenia. L’apofenia indica la tendenza a percepire erroneamente le connessioni e il significato tra cose non correlate. Conrad la legò principalmente alla schizofrenia, ma in realtà nella sua forma non patologica, l’apofenia è qualcosa di molto più profondo. Quando i primi esseri umani si avviavano a conquistare la Terra la capacità di trovare schemi nell’ambiente circostante e ragionare su di essi era essenziale alla sopravvivenza della specie. Questa tendenza la si riscopre oggi in tutte le attività umane: dalla finanza al gioco d’azzardo, dalla ricerca scientifica alla statistica. Possiamo tutti sperimentarlo quando scorgiamo una figura a noi familiare in un sistema caotico, come ad esempio la figura di un animale scolpito dalle nuvole (pareidolia) o quando tentiamo a cercare di evidenziare ed esaltare fatti che confermino le proprie convinzioni (bias di conferma).
Per questo diventa semplice per chi ha dedicato la vita a studiare insetti, vedere un bacarozzo dove altri vedono semplicemente un sasso. 

Ma quando ci si propone di fare della scienza, è assai importante attenersi anche alle pregresse scoperte e dati.
Ad esempio, l’evoluzione verso i metazoi1 avvenne nel periodo Ediacarano fra i 645 e i 542 milioni di anni fa, quando l’ossigeno atmosferico accumulatosi nell’atmosfera della Terra diede origine allo strato di ozono. Questo, su Marte non sembra mai essere accaduto, perché lì non sembra esserci mai stata un’atmosfera abbastanza ricca di quell’elemento.

Per ricavare una certa quota partendo da una data pressione (espressa in millibar) si può far riferimento a questa formula empirica (vale solo per il caso terrestre): $$h_{alt}= \left (1- \left ( \frac{P_{sito}}{1013.25} \right )^{0.190284} \right ) \times 44307.69$$

Poi, altro esempio, è la pressione atmosferica marziana: per frenare la discesa dei robot su Marte servono paracadute giganteschi rispetto a quelli che servono per la discesa sulla Terra. Infatti, la pressione atmosferica media di Marte è di 6,3 millibar, la stessa che ritroviamo sulla Terra a 27 mila metri di quota: 3 volte la quota di un normale aereo di linea. Un ipotetico insetto volante immaginato da Romoser dovrebbe possedere ali come un gabbiano per sostenersi in volo.

Mentre scrivo, scopro che il lavoro dell’entomologo è stato intanto ritirato (infatti il link nei riferimenti non è più funzionante).
E probabilmente è un bene, perché esistono molti scienziati che stanno davvero cercando di rispondere alla domanda principe Esistono altre forme di vita fuori dalla Terra?
Le persone che non conoscono i meccanismi di produzione abiotica del metano e dell’ossigeno, le reali condizioni ambientali di Marte e che quando sentono parlare di chimica organica evocano subito qualcosa di biologico, fanno presto a tirare le somme e immaginare che su Marte ci sia la Vita.
Senza contare i numerosi bischeri che inondano Internet con immagini artefatte e spiritate ipotesi di antiche civiltà marziane e alieni tenuti nella formaldeide, che non fanno che lucrare sul complottismo scientifico che tutto è fuorché scienza.
Al contrario, il ritiro affrettato del lavoro di Romoser potrebbe invece alimentare le medesime illazioni complottarde che potrebbero avere mano facile nell’affermare che la scoperta di insetti marziani ad opera di un emerito entomologo (Romoser) è stata nascosta e messa a tacere dai poteri forti della NASA che vorrebbero tenerci tutti all’oscuro della realtà marziana.

Per questo da sempre dico che l’unica soluzione è studiare, studiare e studiare. E siccome a nessuno di noi è stato concesso il dono dell’onniscenza, magari un pizzico di umiltà nel saper accogliere il giudizio di chi è più preparato su un particolare argomento, è fondamentale.

Cieli sereni

Riflessioni serotine

Da diversi mesi ho iniziato a pubblicare alcune mie riflessioni su temi di attualità politica e ambientale su Facebook dal titolo «Riflessione serotina» seguito dalla data giuliana (un mio omaggio alle consuetudini astronomiche) per dare ad esse un minimo d’ordine temporale e farle apparire come un vero e proprio editoriale. Poi però mi sono detto: perché non ripetere qui 

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Partiamo dalle ondate di calore di questa bizzarra stagione che ha investito — e non solo — l’Europa: esse sono provocate dall’anomala espansione a nord dell’Anticiclone Nord-Africano; a sua volta questo fenomeno trae la sua origine nell’eccessivo indebolimento del Vortice Polare Nord, una vasta area di bassa pressione che arriva fin nella stratosfera e che staziona nei pressi del polo (lo dice anche il suo nome). Normalmente queste aree di bassa pressione bloccano le masse di aria fredda e secca sopra i poli, più vicino al suolo, e sono il risultato della forte differenza di temperatura tra le regioni polari e l’Equatore.
In genere questi vortici sono stabili, dal momento che le differenze di pressione e temperatura sono tali da mantenere il sistema in equilibrio. Quando i vortici sono forti l’aria fredda resta confinata nelle aree polari, mentre se invece perdono forza capita che si frammentino in una o più parti, e masse d’aria a bassa pressione e bassa temperatura si spostano verso le zone più temperate interagendo quindi con quelle più calde. Quando il vortice al Polo Nord è molto debole, le zone di alta pressione normalmente presenti alle medie latitudini migrano verso nord, facendo spostare l’aria fredda e secca verso sud.
Quando questo accade — come è successo lo scorso maggio — le temperature scendono drasticamente e si verificano forti precipitazioni, anche nevose. Però, subito dopo l’aria fredda si disperde e l’anticiclone che normalmente investe il Sahara può arrivare fino all’Europa centrale. Questo fenomeno — che io personalmente detesto perché non sopporto il caldo — è una conseguenza del cambiamento climatico indotto dalle azioni dell’uomo ed è un fenomeno del tutto naturale che non può essere fermato.
Hai voglia a dire che Noi siamo Europei, anzi Italianissimi e magari pure discendenti della Lupa (di Remo e Romolo, dimenticando che i lupanari erano i bordelli dell’Antica Roma), l’Anticiclone Africano non lo si può fermare per decreto: sudi, bevi molta acqua, mangi frutta, e non ti resta che sperare nella clemenza del prossimo inverno.
E così come non si può fermare per decreto imperio l’Anticiclone Africano, allo stesso modo non si possono fermare i flussi migratori umani[39]., che li si voglia chiamare clandestini o che altro, perché la migrazione e la perequazione appartengono alla natura intima delle cose — è anche una Legge della Termodinamica — e delle persone.

La storia insegna — e la Storia deve essere studiata e apprezzata proprio perché è la fonte principale della Saggezza, la più importante delle virtù cristiane insieme alla Carità  — che i muri che dividono popoli e nazioni non sono mai forieri di sicurezza e sviluppo sociale ma bensì di miseria e sventura.
L’età moderna del genere umano ha circa 9-11 mila anni: in questo arco di tempo sono sorte civiltà, imperi e commerci: gli uomini intanto hanno conquistato il pianeta. I commerci, gli scambi culturali e scientifici hanno diffuso e arricchito tutta l’Umanità. Quando in una regione vi era ristagno e miseria, un’altra prosperava e arricchiva il sapere umano.
Le prime operazioni di chirurgia oftalmica le svilupparono gli Arabi (sapete quegli omini buffi che immaginiamo tutti con le babbucce e il turbante e che sono musulmani?) nel X secolo in Spagna; la meccanica e l’idraulica, note ai Greci classici furono ricordate e arricchite dagli Arabi e che poi il nostro Leonardo da Vinci spacciò per sue dopo averle studiate e rimaneggiate; la matematica e l’astronomia (tutte le stelle che vediamo ad occhio nudo hanno un nome proprio arabo) senza la cultura araba non sarebbero mai arrivate a noi. Avete mai provato a far di conto coi numeri romani? Magari potrebbe essere un esercizio degno di qualche leader politico che si crede un condottiero (non ho detto Duce) e che ha molto tempo libero anche quando finge di lavorare.
Quando i successori di Pietro si diedero un titolo, scelsero Pontifex, ossia Costruttore di ponti, Colui che supera le barriere, un termine che apparteneva alla cultura romana1.
I muri, i fili spinati, i fucili spianati, sono tutti strumenti incivili e inutili, antistorici e disumani. Spesso assistiamo allo sproloquiare di alcuni figuri che reclamano l’assoluta necessità di tali strumenti per salvaguardare la purezza della razza2 o la superiorità morale e materiale di una cultura rispetto alle altre;  insensati concetti privi di ogni fondamento e chi ne fa uso non potrà mai definirsi costruttore di ponti e difensore della civiltà.

50 anni dopo lo Sbarco sulla Luna non me la sento di festeggiare.

Ormai mancano poche ore al cinquantenario dello Sbarco sulla Luna. 
Quando fu scoperta la minaccia dei clorofluorocarburi all’intero ecosistema terrestre, nel 1997 tutti gli Stati della Terra fecero fronte comune e imposero il bando totale dei CFC col Trattato di Montreal; oggi, nonostante le belle parole, ancora non vedo lo stesso impegno per scongiurare le altrettanto gravi crisi ambientali. Per questo ora non riesco a gioire come vorrei lo storico anniversario.

 

L’equipaggio della missione Apollo 11: dalla sinistra: Michael Collins, Neil Armstrong e Buzz Aldrin (nato Edwin Eugene)

Checché alcuni allocchi continuino a sostenere il contrario, il 20 luglio del 1969 per la prima volta nella storia un essere umano mise davvero piede sulla Luna; tre uomini, eccetto uno che rimase in orbita, giunsero là dove nessuno era mai giunto prima.
Non sto a ripetere la storia delle missioni e dell’intero Programma Apollo, in questi giorni un po’ su tutte le testate giornalistiche, blog, TV e social non si parla di altro. Ma se da un lato questo mi conforta — finalmente si torna a parlare dell’esplorazione umana dello spazio in termini concreti — dall’altro mi spaventa pensare che dopo cinquanta anni, cinque decadi da quello storico momento, siamo riusciti ad arrivare sull’orlo di una crisi dell’intero ecosistema terrestre.
Mi spiego meglio: la stessa razza umana che cinquant’anni fa è riuscita a compiere quella fantastica impresa, oggi rischia di soccombere (no, non credo all’estinzione di tutto il genere umano ma al crollo della sua civiltà) per tutti gli errori e le opportunità che non ha saputo cogliere in quest’ultimo mezzo secolo.

Ci sono voluti ben tre lustri, dal 1973 al 1997, per far capire al mondo che i CFC (clorofluorocarburi) stavano distruggendo lo strato di ozono che protegge la vita sulla Terra da almeno 2 miliardi di anni. Il presidente della multinazionale Dupont (industria chimica che era fra i maggiori produttori di CFC nel mondo) bollò i primi studi come “spazzatura da fantascienza“; all’epoca i CFC erano usati dappertutto, dall’industria della refrigerazione (frigoriferi e climatizzatori per esempio) fino all’agricoltura, dall’elettronica alla lacca per capelli (bombolette spray). Eppure, dopo le prime conferme sul campo del 1985 che confermavano le responsabilità umane nella distruzione dello strato di ozono, si giunse al bando operativo su tutto il pianeta dei clorofluorocarburi. Oggi quel bando sta funzionando e,  checché ne dicano — o abbiano detto — i vari “mister Dupont” dell’epoca, quella fu la cosa giusta da fare.
Oggi la situazione è altrettanto pericolosamente grave: all’inizio del mese un’intero distretto in Giappone (Kagoshima, un milione di persone)[40] è stato costretto dalle piogge torrenziali ad abbandonare le proprie case; d’accordo, quando qui la gente aspetta ogni occasione per andare al mare per fare i primi bagni, in Giappone (giugno-luglio) è la stagione delle piogge, ma quell’evento era comunque decisamente fuori dell’ordinario anche per loro.
E anche in altri paesi e regioni climatologicamente distanti si stanno sperimentando fenomeni parossistici sempre più estremi e frequenti: l’eccezionale ondata di caldo che ha travolto l’Europa (45° vicino a Montpellier, in Francia) dopo un giugno insolitamente uggioso e fresco; 21° C. sopra il Circolo Polare Artico [41]; 50,6° C. in India appena il giugno scorso, quando qui era insolitamente fresco (nevicò in Corsica).

Coralli morti per effetto dell’innalzamento della temperatura e dell’acidità delle acque superficiali a Lizard Island (Australia) sulla Grande Barriera Corallina tra il marzo e il maggio 2016. Prima arriva lo sbiancamento, indice della morte dei minuscoli oranismi e poi la fioritura di alghe (a destra) completa l’opera di distruzione.
Credit: XL Catlin Seaview Survey

Questi segnali dimostrano tutta la fragilità di un sistema, quello climatico, che sta pericolosamente deviando per colpa delle attività umane: nel 2016 in Siberia si raggiunsero ben 33 gradi e nella regione dello Yamal (67° N) il disgelo estivo risvegliò un mortale batterio che era rimasto inerte da chissà quanti anni: il Bacillus anthracis, meglio noto come antrace; l’infezione uccise 2000 renne e un bambino; la più grande struttura vivente, visibile pure dallo spazio, ovvero la Grande Barriera Corallina a nord- est dell’Australia da almeno tre anni registra sbiancamenti (morte dei coralli) senza precedenti nella sua storia 1.

Eppure, ancor oggi, nonostante il parere pressoché unanime degli scienziati di tutto il mondo, miliardi di dollari spesi in conferenze e dibattiti internazionali, e una miriade di parole spese in buone intenzioni, quasi nulla è cambiato. Fior di sciocchi e stolti continuano a negare l’evidenza del Global Warming, alcuni bollandola addirittura come bufala comunista studiata dai cinesi per far svenare l’Occidente con l’acquisto di inutili auto elettriche e pannelli solari (fabbricati con le Terre Rare cinesi).
Ho già illustrato su queste pagine le prove del coinvolgimento umano nel Riscaldamento Globale, tanto che parlare di Anthropogenic Global Warming non è affatto sbagliato, anzi. Dopo quasi 25 anni nel 1997 riuscimmo come genere umano a fermare la grave minaccia all’intero ecosistema terrestre rappresentato dallo spregiudicato uso che facevamo dei CFC, mentre oggi una minaccia altrettanto grave si sta palesando ogni giorno; per questo oggi nonostante il cinquantenario dello Sbarco sulla Luna mi sento sconfortato.

Tornando al Programma Apollo che  portò L’Uomo sulla Luna, al di là di tutto ricordo che ogni onere – e merito – fu frutto dell’impegno di una sola nazione. Nell’anno dello sbarco, il costo per gli Stati Uniti d’America fu di 2.4 miliardi di dollari (PDF): appena un ottavo del costo dell’impegno militare in Vietnam di quell’anno che fu di circa 20 miliardi di dollari. In totale la spesa tra il 1961 e il 1973 fu di 26-28 miliardi di dollari dell’epoca (circa 270 miliardi di oggi) [42]. Nello stesso periodo il costo dell’intero sforzo bellico in  Indocina, per gli USA si avvicinò ai 200 miliardi, circa 2000 miliardi (a spanne) di oggi.
Ma mentre ogni dollaro investito nella ricerca spaziale comportava un ritorno di almeno cento negli anni successivi, i 200 miliardi nella guerra del Vietnam ebbero costi almeno triplicati dalla crisi economica successiva, dai costi sanitari per gli invalidi, la caduta del mercato interno e soprattutto la credibilità economica internazionale ne risentì.
Provate per un attimo ad immaginare se invece il bilancio militare mondiale dal 1970 ad oggi fosse stato dedicato alla colonizzazione dello spazio 2.
Con migliaia di miliardi investiti in ricerca e sviluppo invece che a cercare il miglior modo per farci stupide guerre per l’effimero controllo di un pezzo di terra pressoché tutti i mali che ancora affliggono l’umanità potrebbero essere ora un incubo del passato; oggi avremmo saputo come trasferire nello spazio tutte le attività più inquinanti e inaugurato una nuova era di pace e comunione per il genere umano; l’inquinamento che ogni anno causa milioni di morti — molti di più di un conflitto mondiale — sul nostro pianeta sarebbe potuto non essere più una minaccia per l’intero ecosistema terrestre e quel bambino dello Yamal avrebbe avuto l’opportunità di invecchiare magari proprio sulla Luna.

Ora noi potremmo darci tutte le pacche sulle spalle che vorremmo e raccontarci quanto fummo bravi 50 anni fa a raggiungere la Luna. ma se poi tra altrettanti anni (2069) la nostra civiltà non avrà ancora occasione di festeggiare quello che sarebbe potuto essere l’inizio di una nuova era per tutto il genere umano, sarà stata tutta colpa nostra e della nostra cieca stupidità e cupidigia.

 

Global Warming for dummies (prima parte)

Ho ascoltato con somma pazienza qualcuno affermare che a Bergamo con un paio di gradi in più si starebbe meglio.
Ma quando leggo di professori universitari o politici di una certa rilevanza — almeno mediatica — sparare castronerie come quelle che sento in questi piovosi giorni che “siccome oggi fa freddo allora il Global Warming è tutta una truffa mediatica“, vengo assalito dal tremendo dubbio se realmente stiano marciando così per propria convenienza (più probabile) o perché ne siano convinti (assai meno probabile).
Per questo ho deciso di tornare sull’argomento.

 

Articolo di giornale

Prima pagina di un (pessimo) giornale a tiratura nazionale.Il nome della testata è stato volutamente cancellato.

Nei giorni scorsi qualcuno mi fece notare la prima pagina di un quotidiano a tiratura nazionale, che qui ripropongo, per dimostrare quanto sia ancora controverso il dibattito sul Global Warming
Sì, qui ora mentre scrivo fa ancora freddo per essere metà maggio. Ma mentre qui e su più o meno tutta l’Europa centrale fa un po’ più freddo della media stagionale, in Spagna, nel sud della Francia e in Turchia la situazione è opposta. 
Coloro che denunciano l’inesistenza del Riscaldamento Globale trincerandosi dietro a una situazione meteorologica particolare hanno torto marcio. Non posso affermare se questa loro convinzione derivi dalla mancata comprensione del tema, dalla confusione che spesso viene fatta tra tempo meteorologico (locale sia nello spazio che nel tempo) e clima (andamento regionale o globale esteso nel tempo e depurato da fattori stagionali), oppure che si tratti di una scelta cosciente e ponderata.
Purtroppo propendo per questa seconda ipotesi, portata avanti da una corrente politica conservatrice e reazionaria transnazionale che si fa beffe del rischio globale che la civiltà umana in questo momento corre.
No, non penso che l’umanità corra il rischio di soccombere entro i prossimi decenni o secoli, ma tutta la nostra civiltà, il villaggio globale che faticosamente abbiamo costruito negli ultimi due secoli, potrebbe soccombere molto presto a causa della nostra scelleratezza se non abbiamo la volontà e la forza di correggere i nostri errori. 

Quindi non mi sento tranquillo quando sento gioire un uomo politico per lo scioglimento dell’Artide perché così si aprono nuove rotte commerciali[43] (dopo che il suo governo ha sempre negato che esista il Global Warming) e neppure quando vedo certi titoloni sbattuti in prima pagina come questo sopra che gioca pure sulle parole dando di fatto degli idioti a chi, in tutti questi anni, ha denunciato le pesanti responsabilità umane nell’attuale cambiamento climatico.

Dopo questa pesante filippica dove respingo ai mittenti la definizione di sciocco indirizzata verso chi si batte per sensibilizzare l’opinione pubblica e promuovere politiche di contenimento di un processo ormai quasi irreversibile quale è il Global Warming antropogenico, torno a spiegare cos’è e perché capita che, nonostante la tendenza al rialzo delle temperature medie del pianeta nel lungo periodo, possa in alcuni momenti fare ancora più freddo del solito.
Impiegherò un paio di puntate perché l’argomento non è difficile da comprendere ma lungo da spiegare ma spero lo stesso di riuscire nell’intento. Dopodiché sta a voi lettori cercare di spiegare agli scettici che incontrerete come stanno le cose.

Le prove che inchiodano le pesanti responsabilità umane: gli isotopi del carbonio.

Ciclo del carbonio atmosferico

Il ciclo del carbonio atmosferico in sintesi. La riga di centro indica i principali serbatoi naturali di carbonio. In verde sono descritti i principali processi che sottraggono il carbonio nella forma di CO2 dall’atmosfera. In rosso tutti gli altri, che cioè rilasciano carbonio. Credit: Il Poliedrico

Nessuno scienziato nega che il clima nei secoli scorsi sia stato anche molto diverso da quello attuale, ma i meccanismi di scambio gassoso con la litosfera hanno mantenuto per milioni di anni il tasso di concentrazione dell’anidride carbonica dell’atmosfera entro i 150-300 parti per milione. I complessi meccanismi alla base del ciclo naturale del carbonio (in realtà sono due: il ciclo organico e quello geologico) sono i responsabili di queste contenute oscillazioni: una minor concentrazione della CO2 atmosferica — sottratta dalle piante — porta all’abbassamento della temperatura a livello globale, ossia a una glaciazione; di conseguenza, anche le foreste che sequestrano l’anidride carbonica atmosferica trasformandola in lignina diminuiscono di pari passo con l’avanzata dei ghiacci mentre le emissioni vulcaniche intanto rimangono sempre abbastanza costanti. Questo ultimo fatto porta lentamente a un rialzo della percentuale di CO2, un riscaldamento globale naturale che sottrae di nuovo spazio ai ghiacciai e lo restituisce alle piante. E così all’infinito: cicli interglaciali caldi con alti (max 300 ppm) tassi di anidride carbonica atmosferica intervallati da periodi glaciali in cui la CO2 è più bassa (150-180 ppm).
L’anidride carbonica sequestrata dalle foreste sotto forma di lignina tramite processi di marcescenza e alte pressioni finisce per trasformarsi in carbone, mentre i medesimi processi trasformano in petrolio e gas naturale gli animali che, nella loro catena alimentare, in definitiva si sono nutriti di quelle stesse piante. Con l’inizio dell’Era Industriale tutto questo è cambiato: in appena 250 anni, e specialmente nell’ultimo secolo, l’Uomo ha imparato a sfruttare a proprio vantaggio l’energia racchiusa in quei serbatoi naturali di carbonio attraverso la combustione di quelle sostanze (combustibili fossili). Quindi buona parte di quel carbonio sequestrato dall’atmosfera in milioni di anni è stato liberato di nuovo in appena un paio di secoli e poco più.

Clima

Concentrazione della CO2 nell’atmosfera negli ultimi 800 mila anni (ppm). Credit NOAA/Il Poliedrico

La riprova di quanto ho detto sta nei rapporti isotopici del carbonio atmosferico: il 12C e il 13C sono due isotopi stabili del carbonio e poi c’è anche il 14C, un radioisotopo del carbonio che ha origine dall’interazione dell’azoto atmosferico coi raggi cosmici secondo lo schema: $$ n + \ ^{14}N \rightarrow p +\ ^{14}C $$
Il radiocarbonio 14 (6 protoni e 8 neutroni) ha una emivita di appena 5715 anni, ossia circa la metà degli atomi di una certa quantità di 14C torna ad essere 14N (azoto 14) per effetto del decadimento β in quasi 6000 anni.  Siccome la quantità di raggi cosmici negli ultimi 100 mila anni è più o meno costante, anche la quantità di 14C atmosferico è rimasta pressappoco la stessa (circa 70 tonnellate) nel medesimo arco di tempo[44]. Il naturale decadimento radioattivo del carbonio 14 comporta che esso sia praticamente assente nei combustibili fossili, e infatti sono circa due secoli che i naturali rapporti tra gli isotopi 12C, 13C e 14C espressi negli ultimi 800 mila anni stanno mutando come conseguenza al consumo di questi 1.
Sempre rimanendo a parlare di isotopi del carbonio, occorre anche ricordare che a parità di proprietà chimiche i processi biologici prediligono sempre gli atomi più leggeri 2: per questo nell’anidride carbonica prodotta dall’uso dei combustibili fossili il δ13C è sbilanciato in favore della versione più leggera dell’atomo di carbonio (12C).
E come detto in precedenza, dalla combustione di fonti fossili è assente la versione più pesante del carbonio (14C) perché esso dopo appena 75 mila anni è ridotto a circa 1 millesimo di quanto era stato sequestrato all’inizio. Quindi, è l’analisi temporale dei rapporti fra i diversi isotopi che ci conferma che l’attuale surplus di anidride carbonica atmosferica è dovuta all’uomo e alle sue attività energivore basate sui combustibili fossili.

Non sono io, non è qualche scienziato prima di me o la ragazzina svedese Greta Thunberg a dirlo: sono gli isotopi del carbonio a farlo; i fatti, quelli su cui ogni giornale dovrebbe basarsi e sui quali qualsiasi politico dovrebbe tener conto prima di prendere una decisione che potrebbe influire sulla collettività, sono questi.


(fine prima parte)

SAY IT AIN’T SO STEPHEN (the last part)

Planets of the apes

Make love, not war Unlike their chimpanzee cousins, the bonobo apes often resort to sex as a social tool for conflict resolution.

Make love, not war
Unlike their chimpanzee cousins, the bonobo apes often resort to sex as a social tool for conflict resolution.

Humans and chimpanzees share much more than a common ancestor some four million years in the past. They share, in particular, a not infrequent and sometimes decidedly disastrous tendency to solve problems with individuals of the same species—even the same social group—by violent means.
It can be argued that in the long run such bad manners do actually offer some sort of evolutionary advantage. Big strong males scaring rivals off mate more frequently, passing their traits along. Hierarchical order enforced through a blow or two to the head helps keep rules from being broken by rogue individuals. Territory is defended fiercely, which results in better survival chances for the tribe. Et cetera.
It is not widely known, though, that chimpanzees do have very close relatives, one of the two species making the genus Pan (the other one being the chimpanzees themselves). The bonobo—or Pan Paniscus, if you really want to be formal—differs from Pan Troglodytes in a just a few details here and there physically, like relatively longer legs, pink lips, dark face, and parted long hair on its head. It all boils down as something very much like what happens with crocodiles and alligators, which would be basically the same kind of creature to the average beholder.
Physically that is. Now socially is an entirely different pair of shoes.

Make love, not war (2) In a few moments of human history there have been pacifist movements on a global scale. The Hippies of the late 60s are an example. But the Hippy culture also had an important historical role for the subsequent technological computer revolution.

Make love, not war (2)
In a few moments of human history there have been pacifist movements on a global scale. The Hippies of the late 60s are an example. But the Hippy culture also had an important historical role for the subsequent technological computer revolution.

Bonobos have been found to drastically lack the aggressiveness exhibited as a norm by chimpanzees—matter of fact, they seem to spend a lot of their awake time engaged in what could be best described as Peace And Love. Literally, in case you were wondering: sexual activity generally plays a major role in bonobo society, being used as what some scientists perceive as a greeting, a means of forming social bonds, and a means of conflict resolution. (They also do not seem to discriminate in their sexual behavior by sex or age, with the possible exception of abstaining from sexual activity between mothers and their adult sons. Male/male or female/female interaction are quite common.) Their unique approach to life does not end there—according to observations in the wild, when bonobos come upon a new food source or feeding ground, the increased excitement will usually lead to communal sexual activity, presumably decreasing tension and encouraging peaceful feeding. (!)
So there. We have basically the same kind of creature, with the same abilities and capacities yet a totally opposite attitude, which does not appear to be the result of any Ten Commandments brought down from the inexistent mountains in the Congo river. It can be rightly argued that such a peaceful bonobo society anyway has not, technologically and scientifically, done a whole lot—no spaceflight, fire, or advanced agriculture—but then neither have the aggressive chimps, come to that.
So at the very least the remote possibility would seem to exist that an alien society on a nearby world could very well be found to virtually lack the worst hostile impulses that have long plagued our own human societies. They, in a sense, would be the bonobos to our Homo Sapiens. Meaning no wars—and more importantly, no Wellsian invasions of neighboring planets.
Absolute certainty? Of course not. But we can hope, we can hope….
It could be pointed out that at any rate aggressiveness has worked for us humans, helping us fend off all those pesky predators to eventually come to rule the world as the dominant species. And yet even we have slowly begun to understand the perils of our ways. We haven’t always been able to stop the lunacy: right up to 1914 virtually everybody and his kid brother in polite society was fond of explaining why wars had become obsolete and totally absurd in the brave new world we had created by then. Yet we had the horrible and totally unprecedented Great War—and, only a few decades later, an even more devastating one ending in a potentially world-ending scenario.
And still.

[…]
but these NIGHTS!
Heights of the summer’s nights, stars above and stars of Earth besides: O to be dead at last and at long last eternally to know the stars… the stars! How, how, how can they ever be forgotten?
[…]
Rainer Maria Rilke: Duineser Elegien

The Cold War didn’t end in a hot one. And when we stepped onto another world, for the first time ever in history, we did it in peace, with no weapons.
The universe did not come with guarantees. There were no guarantees we could achieve the level of knowledge required to explore the Solar System, to take that small step for a man that became a giant leap for all of humankind. There are no guarantees we have brethren of some kind out there in this vast sea of stars around us; intelligences like ours—or vastly different from ours, conceivably—from which we can learn, and keep going on as a society, a species. As there are no guarantees those intelligences, if found at all, will be as peaceful and friendly as we would like them to be.

There’s just the one way to know—to boldly go where we haven’t gone before. For that to happen, we can’t look at the stars above in abject fear and despair. We’ll have to turn to poet Rainer Maria Rilke for the right emotion to feel when looking up at the night sky, when we contemplate the thought that up there we have before us the greatest adventure ever, a journey that hopefully—no guarantees—will take humankind to heights we ourselves today won’t get to see but can dream about:

March 2019

SAY IT AIN’T SO, STEPHEN (third part)

Pride And Punishment

On Easter Island we can see a perfect example of the collapse of an isolated civilization. It was the isolation and over-exploitation of the available natural resources that were considered inexhaustible to trigger it.

Company isn’t just an antidote for boredom—when it comes to cultures, it may mean the difference between stagnation and growth.
Australian aborigines, cut off from contact with other human groups (and the fresh achievements in technology and knowledge they would bring with them), hit a technical peak—and stopped there. Without any new input, any new ideas to add to their own savvy, to crossbreed with their own knowledge to result in a breakthrough conducive to a higher mastery of their environment and resources, they could go no further. Uncorroborated reports point out to some Tasmanian groups even losing the capacity to make fire—which they would thereafter remedy by borrowing it from friendly neighbors—if admittedly this would be an extreme case of technical retrogradation.
Cultural and technological isolation can also, oddly enough, happen by deliberate choice. After developing a very interesting civilization the Chinese during the Qing dynasty in the 15th century pretty much decided what they had achieved so far was good enough for them, and that was it. They from then on stopped virtually all contacts with the outside world (and the new developments in both science and technology) until the outside world then by the late 1800s drastically showed them what they had been missing all along. The consequences are arguably felt even to this day.
Japan was another such case, if here the reaction to Commodore Perry’s forceful opening of the islands to the world was a policy of quickly catching up on what the previously ignored neighbors had to offer, which turned Japan into a world power some decades later.
Contact with other cultures, then, appears to be a sine qua non for any civilization to live long and prosper, to borrow a phrase. Sufficiently interested readers are invited to take a look at I. Shklovskii’s Universe, Life, Intelligence, (Moscow, USSR Academy of Sciences Publisher, 1962)—later developed into Intelligent Life In The Universe, after a collaboration with Carl Sagan—for a number of insights on this issue.
And, once more, science fiction was there first. Aside from all the fast-paced adventures of the space explorers he depicts as stranded on Earth, the premise of Chad Oliver’s The Winds Of Time (1957) is indeed the plight of a lonely civilization looking desperately everywhere else for company. It of course helped that Oliver was an anthropologist himself, a point evident throughout the novel.
So, at the very least, then a case can be made as well for a hypothetical technically advanced alien culture being also self-contained and averse to foreign contacts—which greatly diminishes the chances they need to come all the way to Earth to show what their weaponry can do.
Which, naturally, brings us once again to the issue of which is the more advanced civilization (in what science and/or technological field??) and what exactly can you do when you come to Earth with all guns firing.

Go native or go home

A very overlooked aspect in the collective imagination is that our world may seem more dangerous and threatening to aliens than they are to us.A hydrothermal worm. Credits: Philippe Crassous

Suppose, if you will, you’re parachuting on the Amazon jungle. (Let’s ignore that nasty canopy of treetops where your parachute has every chance to become entangled, and assume you’ll make it to the ground all right.) All through the descent you’re surrounded by the best technology available, from the ingenious device that allows you to slow down what otherwise would be a freefall, to the boots protecting your feet from the rough ground.
And now, having made it to the floor of the jungle, you’re ready to show those tribesmen who’s boss. As soon, that is, as you can wipe all that sweat from your forehead. And fend off those insects flying around you. Oh, yes, also the snakes. Did we mention the insane heat?
Oh, well, at least you can call for reinforcements, in case things get slightly out of hand. Right? Right? “What do you mean, help may take decades to come?” “Er, we mean lightspeed. Like nothing can go faster than that, unless you develop some Star Trek-like warp speed. And even then travelling through interstellar distances will still take some time. Hellooo!”
Meh, forget it—your call for help won’t be answered for several years, and it’ll take twice as long for you to be able to hear the response. That uncooperative limit set by the speed of light, remember.
Supplies, supplies, supplies. You’re using up your bullets on those pesky aborigines like water; better save some for a rainy day. (Rainy day in the jungle, now that you mention it, how about that. Not nice, no sirree.) Food, of course; the local fare is inedible when available at all.
So you can see the problem here. Unless the planet you’re bent on invading is a rather close duplicate of your own, chances are you’ll find the whole enterprise as charming as invading Hell. The local gravity field, for starters: Wells’ Martians had to resort to some serious technical props to move about in a world where they felt three times heavier, and conceivably didn’t have it any easier either when trying to sleep at night (imagine you’re wearing a full-body cast after an accident, say). It could be the other way around—a weaker gravity that initially will make you feel like a star athlete capable of the most astonishing feats until you start losing muscle and bone mass, and become irreversibly unable to set foot on your home world again.
And yes, the environment; temperature and such details. What liquid did you say plays the role of water in your home world? Ammonia? How nice—but no, it isn’t a liquid here; kind of too hot here on Earth for that. You might decide you’ll then forgo taking showers, but how about dying of thirst?
Oh well, is your home “water” instead a silicone fluid? Then I’m afraid this planet is a tad too cold for you—you’d need another one with a hotter mean temperature than a blast furnace.
Invading a planet with a totally alien biochemistry would have one advantage though—the local microbial fauna and flora conceivably wouldn’t be able to eat you alive, like they did Wells’ Martians. Only, of course, that might not be enough of an incentive to travel lightyears away from your home world, fight natives that outnumber you (and might have a trick or two up their technological sleeve) and, if you’re lucky, conquer a world you can’t live in unprotected.
A thought here: Even for a race so addicted to war and conquest as the human race, environment counts. All invasions here have taken place under the same gravity, with a similar atmospheric composition, and with an adequately edible fauna and flora. Also within the same mean temperature range—nobody has rushed to conquer Antarctica, or sent armored divisions to occupy that nicely dry Sahara Desert.
So that would then leave terraforming—or “alienforming,” if you will. You will conquer that alien, uninhabitable world, and then spend conceivably centuries trying to turn it into some place nicer where you can hope the grandkids of your grandkids may one day live. A case can be made for trying that with a world closer to yours though—preferably on your own star system, if you already have that kind of technology at hand.
Unless, of course, those aliens are so incurably aggressive.


(To be continued…)