Illusioni marziane

Ancora una volta sono qui per commentare l’adagio: c’è vita su Marte? L’unica mia risposta è che no lo so, ma sono estremamente scettico sul fatto che il Pianeta Rosso abbia mai ospitato forme di vita. Rimango possibilista verso l’ipotesi di vita procariotica all’inizio della storia marziana, ma anche su questo nutro dubbi. Perché Marte è piccolo, troppo piccolo per aver mai avuto un’atmosfera abbastanza spessa da mantenere l’acqua allo stato liquido per il tempo necessario a sviluppare forme di vita più complesse. 

Il professor William Romoser dell’Università dell’Ohio suggerisce che questa immagine, scattata da un rover su Marte, sia un forma di vita marziana. Per me è semplicemente un caso di pareidolia, . (Credit: William Romoser)

Nell’estate del 1964, poco prima del lancio della missione Mariner 4 (la prima sonda interplanetaria che ci descrisse la realtà marziana) un istituto sponsorizzato dall’ente spaziale americano NASA, organizzò un simposio per tentare di descrivere cosa avrebbe potuto scoprire la sonda nella peggiore delle ipotesi. Ancora nel 1964 si sapeva poco e niente di Marte, della sua atmosfera, del suo suolo ricco di perossidi, della sua abitabilità: tant’è che si speculava persino dell’esistenza di forme di vita complesse delle dimensioni di un orso polare[1].
Oggi, grazie ai numerosi rover e laboratori automatici inviati sul Pianeta Rosso, sappiamo che non è così. 
Ogni giorno Marte si rivela un incredibile laboratorio dove testare le più ardite teorie dell’esobiologia: i pennacchi di metano stagionali[2] e ora di ossigeno[3], spingono i meno informati a immaginare che su Marte, dopotutto, ci sia qualche forma di vita, forse anche abbastanza evoluta. 
Infatti, ancora esistono sacche di pensiero che resistono a quanto si è scoperto in quest’ultimo mezzo secolo su Marte.
L’entomologo americano William Romoser ha presentato, il 19 novembre scorso, un documento al convegno[4] dell’Entomological Society of America tenutosi a St. Louis, nel Missouri.
Romoser sostiene di aver identificato forme di vita complesse, sia fossili che viventi, in diverse immagini scattate dai rover marziani. Le altre immagini, che sono pubblicate nel suo documento,  suggeriscono teste di serpenti fossili, insetti in volo, e così via.
A mio parere, e ringrazio l’amico Stefano che mi ha comunicato la notizia, è semplicemente l’ennesimo caso di pareidolia, dettato in questo caso dall’attitudine mentale di chi è abituato a vedere insetti ovunque: un entomologo, appunto.

Il Volto di Cydonia, conosciuto anche come Sfinge di … , è il più noto caso di pareidolia legato a Marte. Credi: NASA/JPL

Non è la prima volta, e non sarà neanche l’ultima, che nella frastagliata superficie di Marte vengono scorte immagini bizzarre e giochi di luce che si prestano a eccentriche interpretazioni  riconoscendovi cose a noi più familiari: il volto della Sfinge di Cydonia è uno dei più noti, ma c’è chi giura di aver scorto anche piramidi, cupole, resti di statue e cinte murarie. 

Nel 1958, lo psichiatra tedesco Klaus Conrad descrisse un fenomeno chiamato apofenia. L’apofenia indica la tendenza a percepire erroneamente le connessioni e il significato tra cose non correlate. Conrad la legò principalmente alla schizofrenia, ma in realtà nella sua forma non patologica, l’apofenia è qualcosa di molto più profondo. Quando i primi esseri umani si avviavano a conquistare la Terra la capacità di trovare schemi nell’ambiente circostante e ragionare su di essi era essenziale alla sopravvivenza della specie. Questa tendenza la si riscopre oggi in tutte le attività umane: dalla finanza al gioco d’azzardo, dalla ricerca scientifica alla statistica. Possiamo tutti sperimentarlo quando scorgiamo una figura a noi familiare in un sistema caotico, come ad esempio la figura di un animale scolpito dalle nuvole (pareidolia) o quando tentiamo a cercare di evidenziare ed esaltare fatti che confermino le proprie convinzioni (bias di conferma).
Per questo diventa semplice per chi ha dedicato la vita a studiare insetti, vedere un bacarozzo dove altri vedono semplicemente un sasso. 

Ma quando ci si propone di fare della scienza, è assai importante attenersi anche alle pregresse scoperte e dati.
Ad esempio, l’evoluzione verso i metazoi1 avvenne nel periodo Ediacarano fra i 645 e i 542 milioni di anni fa, quando l’ossigeno atmosferico accumulatosi nell’atmosfera della Terra diede origine allo strato di ozono. Questo, su Marte non sembra mai essere accaduto, perché lì non sembra esserci mai stata un’atmosfera abbastanza ricca di quell’elemento.

Per ricavare una certa quota partendo da una data pressione (espressa in millibar) si può far riferimento a questa formula empirica (vale solo per il caso terrestre): $$h_{alt}= \left (1- \left ( \frac{P_{sito}}{1013.25} \right )^{0.190284} \right ) \times 44307.69$$

Poi, altro esempio, è la pressione atmosferica marziana: per frenare la discesa dei robot su Marte servono paracadute giganteschi rispetto a quelli che servono per la discesa sulla Terra. Infatti, la pressione atmosferica media di Marte è di 6,3 millibar, la stessa che ritroviamo sulla Terra a 27 mila metri di quota: 3 volte la quota di un normale aereo di linea. Un ipotetico insetto volante immaginato da Romoser dovrebbe possedere ali come un gabbiano per sostenersi in volo.

Mentre scrivo, scopro che il lavoro dell’entomologo è stato intanto ritirato (infatti il link nei riferimenti non è più funzionante).
E probabilmente è un bene, perché esistono molti scienziati che stanno davvero cercando di rispondere alla domanda principe Esistono altre forme di vita fuori dalla Terra?
Le persone che non conoscono i meccanismi di produzione abiotica del metano e dell’ossigeno, le reali condizioni ambientali di Marte e che quando sentono parlare di chimica organica evocano subito qualcosa di biologico, fanno presto a tirare le somme e immaginare che su Marte ci sia la Vita.
Senza contare i numerosi bischeri che inondano Internet con immagini artefatte e spiritate ipotesi di antiche civiltà marziane e alieni tenuti nella formaldeide, che non fanno che lucrare sul complottismo scientifico che tutto è fuorché scienza.
Al contrario, il ritiro affrettato del lavoro di Romoser potrebbe invece alimentare le medesime illazioni complottarde che potrebbero avere mano facile nell’affermare che la scoperta di insetti marziani ad opera di un emerito entomologo (Romoser) è stata nascosta e messa a tacere dai poteri forti della NASA che vorrebbero tenerci tutti all’oscuro della realtà marziana.

Per questo da sempre dico che l’unica soluzione è studiare, studiare e studiare. E siccome a nessuno di noi è stato concesso il dono dell’onniscenza, magari un pizzico di umiltà nel saper accogliere il giudizio di chi è più preparato su un particolare argomento, è fondamentale.

Cieli sereni

Molecole organiche su Marte (prima parte)

Quando mi è stato concesso, ho sempre cercato di osservare le cose nel modo più ampio possibile e a cercare di stabilire dei collegamenti logici tra tutte le informazioni che mi sarebbero state utili per cercare di descriverle. Spesso è difficile star dietro al mio modo di ragionare, ma questo genere di approccio mi è sempre stato di aiuto per comprendere meglio ciò che in quel momento era alla mia attenzione. E forse anche per questo che sono sempre stato moderatamente scettico sul passato biologico marziano. È vero, ci sono stati i controversi risultati del Labeled Released Experiment [5] e sono state indicate alcune similitudini tra le microbialiti terrestri (ex. le stromatoliti) e le strutture osservate nei depositi argillosi su Marte [6], ma diciamocelo: finora non è mai stata accertata la presenza di vita ora o nel passato di Marte.
Affermare l’opposto o velatamente ammiccare alla scoperta della Vita su Marte come molti — anche autorevoli — siti e testate giornalistiche stanno facendo in queste ore è falso.

La ciclicità del metano

Andamento stagionale delle emissioni di metano nell’atmosfera di Marte in parti per miliardo correlati alla pressione atmosferica e alla posizione del pianeta nella sua orbita (longitudine solare). Le stagioni marziane sono analoghe a quelle terrestri ma molto più lunghe: un anno marziano corrisponde a 686,96 giorni terrestri. Credit: Christopher R. Webster, NASA/JPL — Edit: Il Poliedrico

Se avete seguito in questi anni questo blog, saprete senz’altro che la presenza sporadica di metano nell’atmosfera marziana era nota da anni: dal 2003 per la precisione [7]. In assenza di prove della presenza di organismi biologici per la metanogenesi (principalmente archaea) su Marte, è ovvio rivolgersi verso i meccanismi abiotici di produzione del metano [8][9], che qui sulla Terra sono responsabili di circa il 10% della produzione annua di questo gas rilasciato nell’atmosfera. Finora non erano note esattamente le cause della presenza del metano nell’atmosfera di Marte: si era creduto a una sporadicità magari derivata da un qualche impatto cometario  passato inosservato. Ma a causa dell’ambiente continuamente bombardato dalle radiazioni ultraviolette del Sole, il metano marziano rilasciato nell’atmosfera non potrebbe esistere per più di 100-300 anni, in contrasto quindi con quanto viene registrato fin dall’anno della scoperta della sua presenza (si tratta pur sempre di una manciata di molecole per miliardo vista la tenuità dell’atmosfera marziana) e soprattutto in seguito quando vennero scoperti dei rilasci altamente localizzati di metano ritenuti allora sporadici.
Per questi si era teorizzata una qualche forma di attività geotermica ancora esistente ma si sa anche che Marte ha cesaato ogni sua attività vulcanica importante da miliardi di anni. 
La scoperta della ciclicità stagionale del metano atmosferico marziano è la notizia. Questa è la conferma che l’ambiente marziano risente del cambiamento stagionale ben più di quanto finora era stato supposto. Qui i principali indiziati potrebbero essere i clarati 1 intrappolati nel sottosuolo che per effetto del mutare delle condizioni di insolazione e temperatura stagionali possono venire decomposti. l’acqua così liberata potrebbe anche avviare i processi di serpentinizzazione del basalto arricchendo così le quantità di metano rilasciato nell’atmosfera.

Questa scoperta è illustrata meglio nell’articolo di Science e nei suoi allegati che vi invito a leggere [10] nell’attesa che scriva anche la seconda parte.
Cieli sereni.

Marte e Terra: quella sottile linea rossa

Agli inizi della sua storia, il Sistema Solare fu teatro di episodi infinitamente più violenti anche del noto meteorite che 65 milioni di anni fa sterminò i due terzi di ogni forma di vita sul nostro pianeta. Lo scontro della Terra primigenia con un corpo grande quanto Marte (Theia) generò —per nostra fortuna — la Luna [11]. Poco dopo, un’altra collisione violenta tra Marte e un corpo grande quasi quanto la Luna fu probabilmente causa della peculiare orografia del Pianeta Rosso, e anche una delle conseguenze dell’Intenso Bombardamento Tardivo suggerito dalle esplorazioni Apollo.

L’altimetria di Marte rispetto a una mediana arbitraria. l’emisfero settentrionale appare come una enorme depressione.

Da quasi mezzo secolo ormai, la topografia di Marte è più o meno altrettanto nota di quella terrestre. Infatti sono del 1965 le prime immagini riprese dall’orbita marziana dal Mariner 4 a cui seguirono con discreto successo altre sonde, rover e satelliti.Tenendo conto di una media delle diverse altezze della superficie del pianeta, vien fuori che l’emisfero settentrionale è decisamente più basso dell’emisfero opposto, tanto che è stato supposto che 3,5 miliardi di anni fa potesse essere un unico vasto ma poco profondo oceano [12].

La dicotomia marziana

Questa è nota come la Dicotomia Marziana, e fin dalla sua scoperta ha tolto il sonno dei tanti planetologi che cercavano di spiegarla. Nel 1984 venne elaborata una teoria che prevedeva un unico grande impatto con un grande corpo celeste delle dimensioni comprese tra i 1500 e i 2700 chilometri (ossia tra le dimensioni di Plutone e quelle della Luna) proprio sull’emisfero settentrionale [13] [14] con un angolo compreso fra i 30 e i 60 gradi, circa 4 – 4,5 miliardi di anni fa. Come conseguenza del cataclisma, Marte avrebbe perso anche una buona parte della sua prima atmosfera.
Tesi interessante: ma l’impatto avrebbe dovuto rilasciare abbastanza calore nel mantello superiore da generare una catena di vulcani. Quattro miliardi di anni di erosione potrebbero spiegare la scomparsa dei segni dell’impatto come i bordi e il materiale piroclastico, ma non l’assenza di vulcani, che invece sono abbondanti nell’emisfero australe. 

Nel 2014 si affacciò una curiosa variante di quella stessa teoria, senonché l’impatto con il corpo celeste potrebbe essere avvenuto nell’emisfero opposto [15][16].
In questa nuova espressione, l’impatto dette origine a un oceano di magma emisferico che raffreddandosi dette origine ai noti altopiani meridionali e alla conseguente dicotomia marziana. Inoltre esso avrebbe arricchito il nucleo marziano di una notevole quantità di ferro. La conseguente anomalia termica profonda sarebbe all’origine del vulcanismo negli altopiani meridionali e nella fascia equatoriale del pianeta. 
Se da un lato l’eccesso di attività vulcanica avrebbe avuto il pregevole effetto di restituire al pianeta una consistente atmosfera, da l’altra un minore gradiente termico tra mantello e nucleo provocato da questa anomalia termica avrebbe finito per raffreddare e far solidificare quest’ultimo, provocando quindi la scomparsa del campo magnetico planetario [17] ed esposto la nuova atmosfera appena rigenerata dall’attività vulcanica alla tremenda erosione del vento solare che di fatto l’ha cancellata. 

L’intenso bombardamento tardivo

Tra il 1969 e il 1972 le missioni Apollo portarono sulla Terra molti campioni di suolo lunare. Dall’analisi di questi si scoprì che la Luna, e di conseguenza deve esserlo stato anche il Sistema Solare Interno, fu interessata da un massiccio bombardamento asteroidale tra i 2,5 e i 3,9 miliardi di anni fa [18][19].  Questo cataclisma oggi è conosciuto come Intenso Bombardamento Tardivo. La distribuzione delle dimensioni e la frequenza degli impatti sulla Luna suggeriscono che tale fenomeno sia stato così imponente da interessare anche il pianeta Mercurio.  Ci sono diverse teorie che cercano di spiegare l’IBT: dalla migrazione di Giove alla sua attuale orbita causata da una risonanza orbitale con Saturno di 2:1 fino alla formazione tardiva dei due pianeti giganti esterni che avrebbero scombussolato le orbite di oggetti transnettuniani accelerandoli in orbite più eccentriche. Altre teorie chiamano in causa un ipotetico quinto pianeta — che sarebbe poi finito nel Sole — dopo aver portato scompiglio nella fascia di asteroidi  principale.
Io credo che la prima sia la migliore: la stragrande maggioranza dei corpi transnettuniani non possiedono significative quantità di elementi pesanti e sono composti perlopiù da ghiaccio d’acqua e metano;  sono in sostanza delle comete e nessuna di queste avrebbe potuto arrivare a spegnere il debole nucleo fuso di Marte come in effetti pare sia avvenuto. Inoltre Marte potrebbe essersi formato molto più in là e solo dopo la migrazione (10^5 anni) di un Giove — più piccolo di oggi — attraverso il Sistema Solare [cite]https://arxiv.org/abs/1602.06573[/cite] avrebbe spostato Marte verso orbite più interne e dato origine all’odierna fascia di asteroidi ricca di silicati e ferro; zona da cui più probabilmente poi sarebbe provenuto l’asteroide che ha colpito Marte.

Conclusioni

In un sistema dinamico complesso come un sistema planetario non è possibile immaginare che un singolo evento da qualche sua parte non sia legato a qualcos’altro da qualche altra parte. La formazione del sistema Terra-Luna, la Dicotomia Marziana, l’acqua sulla Terra e tanti altri eventi e situazioni oggi date per scontate, hanno tutte un motivo per essere come le osserviamo.  La linea temporale che descrive gli eventi del primo Sistema Solare è piuttosto complessa e merita un articolo tutto per sé, per questo vi dico che la narrazione di questa storia non termina qui.

Il mio contributo su Coelum di questo mese: Quando Marte parlava a Guglielmo Marconi.

Anche stavolta sono stato ospite della rivista Coelum Astronomia con il riadattamento di un mio vecchio articolo [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/quando-marte-parlava-a-guglielmo-marconi.html[/cite] sul celebre Premio Nobel italiano Guglielmo Marconi. 
Sono felice per questo ma sento che gran parte del mio merito va a Voi Lettori che da anni leggete queste pagine. Quindi grazie e buona lettura anche stavolta.
Cieli sereni

Curiosity conferma le emissioni sporadiche di metano su Marte

Mille indizi non fanno una prova. In giurisprudenza questo è vero, in fondo è meglio un colpevole libero che un innocente in galera. Ma a vedere i dati che che le sonde automatiche su Marte restituiscono ogni giorno fanno credere che forse una prova definitiva sulla presenza o meno di forme di vita sul pianeta non è tanto lontana da essere scoperta.

 

Le misure del metano atmosferico di Marte rilevate dallo spettrografo del Curiosity.

Le misure del metano atmosferico di Marte rilevate dallo spettrometro TLS del Curiosity.

È notizia del dicembre scorso che lo strumento Tunable Laser Spectrometer (TLS) (che fa parte della schiera del laboratorio automatico Sample Analysis at Mars (SAM)) a bordo della Mars Science Laboratory Rover (Curiosity) [1. Il Tunable Laser Spectrometer è  stato progettato per  misurare gli isotopi del carbonio nell’anidride carbonica (CO2) e nel metano (CH4) dell’atmosfera marziana.] ha mostrato nell’arco di 605 sol (i giorni marziani) corrispondenti a quasi un anno marziano, segnali di almeno un importante cambiamento episodico nella concentrazione di metano atmosferico [cite]http://www.jpl.nasa.gov/news/news.php?release=2014-432[/cite] che è passato da 0,7 ppbv a circa 7 ppbv per un periodo di circa 60 sol per poi ridiscendere ai valori precedenti.
L’origine di questo improvviso aumento di metano, ma soprattutto la sua repentina discesa, non è semplice da spiegare; come del resto la quasi costante presenza di metano sul Pianeta Rosso.

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Come dimostra la tabella qui a fianco, su Marte c’è pochissimo metano persistente nell’atmosfera ma c’è. Le radiazioni solari ultraviolette che arrivano fino al suolo marziano indisturbate, dissociano queste molecole [cite]http://goo.gl/7OD3x8[/cite] in tempi piuttosto brevi, circa 300 – 350 anni o giù di lì. Questo significa che comunque una o più fonti rilasciano più o meno continuamente metano nell’atmosfera marziana [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/07/le-misteriose-origini-del-metano-marziano.html[/cite] contribuendo a mantenere la debolissima ma costante presenza di questo gas.
Finora i risultati dei satelliti come il Mars Express e il Mars Global Surveyor e le osservazioni da Terra 1 avevano mostrato risultati abbastanza contraddittori che potevano essere scambiati come cattiva interpretazione dei dati, tant’è che lo stesso Curiosity fino al 2013 non aveva mai mostrato che tenui tracce del discusso gas [cite]http://goo.gl/NOgZba[/cite] facendo così pensare che su Marte non vi fosse alcuna attività metanogena importante in atto.
Ora però i nuovi dati, che sono stati oggetto di studio anche di un team guidato da Francisco Javier Martín-Torres, dell’Istituto andaluso di Scienze della Terra (CSIC-UGR) [cite]http://goo.gl/tD3Z1X[/cite], mostrano che invece una qualche attività sporadica metanogenica su Marte esiste.
Adesso che l’esistenza di questi pennacchi è stata confermata da strumenti presenti sulla superficie, ora resta da capirne le origini. Il confronto con i dati meteorologici raccolti dallo stesso Curiosity nello stesso arco di tempo potrà far luce se si tratta di fenomeni stagionali o meno; un altro passettino in avanti per carpire i misteri del Pianeta Rosso.


Note:

 

Una colorita foresta (di bufale) su Marte

Foreste marziane

Credit:  NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Credit: NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Nonostante che siano passati ben 12 anni da quando il Mars Global Surveyor non risponde più ai comandi da Terra e la missione sia ufficialmente terminata,  in giro ci sono persone che ancora credono che il satellite abbia fotografato una foresta di alberi su Marte e che, nonostante questa evidenza, la NASA abbia messo tutto a tacere.
Questa qui accanto è una immagine ripresa il 19 ottobre 1999 dal MOC (l’originale potete trovarlo qui) e che ho dovuto tagliare  per ragioni di spazio. Qui vediamo delle strutture abbastanza regolari che ricordano sicuramente un po’ la chioma degli alberi, ma che sono oltremodo gigantesche per esserlo, almeno un chilometro di diametro, quanto 95 campi di calcio!
Le immagini che si trovano in giro sono …. verdi, nello spiacevole senso che sono artatamente ritoccate proprio per far credere che il MOC abbia ripreso della vera vegetazione 1, cosa tra l’altro impossibile visto che la camera ad alta risoluzione del MOC era in bianco e nero mentre le altre due, a bassa risoluzione, riprendevano una nel rosso e l’altra nel blu.

Ma cosa sono allora quelle cose che il Mars Global Surveyor ha mostrato?

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Semplice: sbuffi di anidride carbonica provenienti dal permafrost ghiacciato di Marte.
Marte è sostanzialmente un pianeta polveroso. i venti marziani in eoni di perenne siccità hanno eroso l’intera superficie del pianeta ricoprendolo di sabbia. Quando il MOC riprese queste immagini era metà ottobre, in piena primavera nell’emisfero sud marziano; la temperatura in quel momento era salita abbastanza da far sublimare il ghiaccio secco  intrappolato nel permafrost sotto un sottile stato di sabbia.
Il risultato è uno sbuffo di sabbia che s’innalza dal suolo e che ricade per un raggio di diverse centinaia di metri come l’artista Ron Miller ha magistralmente illustrato nel suo disegno.

 Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell'articolo.  di una zona 1,2 km di larghezza. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter copre una zona 1,2 km di larghezza e mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell’articolo. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

A maggior conferma di questi geysers di polvere è il fatto che nell’arco di poche ore essi sono  già estinti e lasciano sul terreno dei giganteschi arabeschi che con molta fantasia possono sembrare chiome di alberi spogli o ragni adagiati al suolo, oppure più semplicemente dei cumuli effimeri di polvere non ancora spazzati via da qualche tempesta di sabbia.

Il cielo marziano

Un altro teorema che coinvolge il Pianeta Rosso 2 è il colore del cielo che le immagini dal suolo riprese dalle varie sonde -Viking, Sojourner, Opportunity e Curiosity, tanto per citarne alcune – e diffuse dai centri di controllo missione appare ocra, giallastro o grigio e mai blu come sulla Terra 3 . Il motivo è assai semplice e un po’ si riallaccia con quanto ho detto sopra: Marte è un pianeta polveroso e la sua atmosfera è impregnata di questa polvere tanto da conferire questa tipica colorazione al cielo, un po’ come quando si segue una gara di rally su terra battuta e osserviamo il panorama attraverso le nuvole di polvere alzate dalle macchine. Questo perché la polvere diffonde la luce in maniera alquanto diversa dalle molecole dell’atmosfera dove comunque vale lo Scattering di Rayleigh 4.

Il cielo vicino al Sole sembra più blu nelle immagini da Marte, perché la polvere in "forward-scatter" luce blu aria, in altre parole ci vuole la luce blu dal Sole e si concentra più verso la macchina fotografica. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Luce che si riflette sulle rocce possono anche soffrire di tutti i tipi di squilibri colore troppo. Credit: Wikipedia

Su Marte Il cielo vicino al Sole appare un po’ più blu perché la polvere diffonde la luce blu dell’aria. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Queste luci influenzano i colori percepiti nell’ambiente marziano.
Credit: Wikipedia

Per le particelle le cui dimensioni sono paragonabili o superiori alla lunghezza d’onda incidente vale lo Scattering di Mie 5, che diffonde in egual misura tutte le lunghezze d’onda della luce incidente.
Questo fenomeno altera e appiattisce tutti i colori 6, mentre le immagini che ormai siamo abituati a vedere sono frutto del sapiente bilanciamento delle varie riprese con filtri diversi che, a seconda dello scopo per cui sono progettate le varie fotocamere, spaziano dal violetto all’infrarosso.
Per questo i colori, che sono comunque il più vicino possibile ai colori reali 7 appaiono comunque sempre un po’ alieni. Dopotutto Marte è pur sempre un pianeta ancora a noi alieno!


Note:

L’antico oceano di Marte

Nell’attesa che il rover Curiosity – sbarcato su Marte soltanto ieri l’altro – inizi il suo prezioso lavoro sul campo, vorrei ricordare l’ipotesi della presenza di un antico oceano sul Pianeta Rosso.

La Terra senz’acqua. Eppure da una analisi altimetrica dedurre dov’erano gli oceani non è difficile. Credit: Il Poliedrico

Provate ad immaginare che tutta l’acqua della Terra scompaia improvvisamente. Il favoloso Puntino Blu del cosmo ridotto a una insignificante palla polverosa.
Eppure nonostante tutto, per un osservatore attento non è impossibile ricostruire – con un certo margine di incertezza è ovvio – l’antico aspetto del pianeta.
In fondo non è difficile il concetto di fondo: tutti le foci dei corsi d’acqua terminano più o meno alla medesima quota con uno scarto di poche decine di metri, mentre una mappa altimetrica mostra tutte le aree al di sopra e al di sotto di tale limite.
Riassumendo, il Rio delle Amazzoni e il Gange, la Senna e il Tamigi, oppure lo Huáng Hé (Fiume Giallo) e il Mississippi hanno tutti una cosa in comune: sboccano tutti in diversi oceani comunicanti tra loro. Di conseguenza la quota delle loro foci, con lo scarto di pochi metri, è la stessa.
Una volta stabilito dalle analisi dei depositi di origine alluvionale e dalle tracce minerali che sul sasso polveroso una volta esisteva l’acqua allo stato liquido, immaginare l’esistenza di vaste distese d’acqua al di sotto della quota limite è il passo logico successivo; l’isoipsa 1 che congiunge tutte le foci rappresenta quello che adesso noi chiamiamo livello del mare.

Una rappresentazione artistica di come sarebbe potuto apparire Marte durante il Noachiano, 3,5 miliardi di anni fa. – Credit Wikipedia

Per nostra fortuna ancora la Terra non ha perso la sua acqua, lo farà fra diversi miliardi di anni se tutto va bene, ma c’è un posto dove si può verificare questo schema: Marte.
In un lavoro apparso nel 2010 su Nature Geoscience 2   i geologi planetari Gaetano D’Achille e Brian M. Hynek, all’epoca in organico all’Università del Colorado,  hanno analizzato i dati delle missioni NASA ed ESA a partire dal 2001 e hanno identificato almeno 56 strutture naturali che appaiono come antichissimi corsi d’acqua e le loro foci, identificandone almeno 29 che hanno in comune la stessa quota.
La superficie equipotenziale risultante pare essere un bacino che copre circa il 36% della superficie 3 marziana, che se fosse riempito d’acqua corrisponderebbe a circa 124 milioni di chilometri cubi distribuiti sull’emisfero settentrionale.
L’emisfero settentrionale di Marte è noto per avere una quota media notevolmente inferiore rispetto al resto del pianeta. Le pianure settentrionali conosciute con il nome di Vastitas Borealis si trovano 4-5 km al di sotto del raggio medio del pianeta; questa curiosa caratteristica di Marte è conosciuta come Dicotomia Marziana, scoperta nel 1972 dalla sonda Mariner 9.
Quindi la famosa dicotomia marziana avrebbe un significato ancora più preciso: circa 3,5 miliardi di anni fa il nord del pianeta occupato da un vasto e poco profondo oceano su cui spiccavano i coni di enormi vulcani. A sud una terra asciutta e solcata da fiumi che sfociavano a nord e una piccola calotta polare.

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L’estensione di Oceanus Borealis su Marte.
Credit: Università del Colorado

Comunque oggi è difficile immaginare Marte con un oceano di acqua liquida.
Adesso la pressione atmosferica diurna (636 Pa) supera appena quella del punto triplo dell’acqua 4 alle quote più basse. Più in alto questa può esistere solo come ghiaccio o vapore. Anche la temperatura media su Marte è di  -65° C, troppo poca percé l’acqua diventi liquida.
Quindi 3,5 miliardi di anni fa, durante il Noachiano 5, le condizioni ambientali dovevano essere molto diverse.
All’inizio Marte possedeva una atmosfera simile a quella attuale come composizione, ma molto più spessa, tanto da garantire sul Pianeta Rosso all’incirca la stessa pressione che c’è ora sulla Terra.
Il Sole, più pallido e piccolo di quello attuale, permetteva però un discreto effetto serra, probabilmente accentuato da più alte concentrazioni di metano atmosferico e nubi di anidride carbonica. Tutto questo avrebbe potuto innalzare la temperatura marziana sopra il punto di congelamento dell’acqua e consentire l’esistenza di un ciclo idrologico simile a quello terrestre, con nubi di vapore acqueo che si formavano sull’oceano e che si scaricavano sulla terraferma formando fiumi e scavando profonde gole.
La mancanza però di un campo magnetico importante 6 ha permesso in seguito al vento solare di spogliare Marte di gran parte della sua atmosfera e fatto evaporare il suo oceano rendendolo la piccola e polverosa palla di adesso.


 

Come impacchettare un rover e mandarlo su Marte!

Credit: NASA/JPL

Razzo Atlas V - Credit: United Launch Alliance (ULA)

Volete vedere come si spedisce un rover su Marte?
Si impacchetta il rover in questione (in questo caso Curiosity), dopo aver verificato che tutto, ma proprio tutto, funzioni a dovere, nel suo bel guscio che somiglia tanto a certe sorpresine dell’Uovo di Pasqua che lo proteggerà fino alla sua destinazione su Marte. Poi si infila il tutto nell’ogiva di un razzo Atlas V.
Intanto si monta il razzo: prima il primo, poi il secondo stadio, poi i serbatoi di carburante etc. proprio come si dovesse costruire un razzo orbitale.
Infine, quando tutto è pronto, in cima al razzo ci si mette l’ogiva, che contiene il guscio della sorpresina che poi è il rover di prima.
E poi …. countdown! 😆

Quando Marte parlava a Guglielmo Marconi

 

 

 

Copyright: The New York Time

Guglielmo Marconi

Tempo fa trovai qui questo articolo in cui veniva commentato un vecchio articolo del New York Times che parlava di Guglielmo Marconi, l’inventore e fisico bolognese che per primo realizzò un sistema di comunicazione senza fili (oggi si direbbe wireless).

La cosa più mi colpì fu che Marconi si era convinto di ricevere segnali extraterrestri attribuendoli a fantastici abitanti di Marte che stavano comunicando, anche loro, per mezzo di un alfabeto composto da punti e linee come l’alfabeto Morse.
Marconi pensava che alcuni segnali spuri da lui ricevuti non fossero di origine terrestre e di questo ne nacque una discussione con gli altri scienziati impegnati nelle ricerche sulle radiotrasmissioni.

L’antenato del diodo al germanio: il coesore.

Uno di questi fu Edouard Branly, fisico francese che si era occupato dei miglioramenti dei sistemi di ricezione perfezionando il coesore, un tubetto di vetro dotato di elettrodi contenente polveri di nichel e argento e tracce di mercurio inventato da un altro fisico italiano: Temistocle Calzecchi Onesti 1.

Branly sosteneva che infatti i segnali Morse ricevuti da Marconi fossero di origine terrestre, prudentemente negando ogni ipotesi di origine  extraterrestre (esisteva un premio di 100.000 franchi francesi dell’epoca per chiunque fosse stato in grado di stabilire una comunicazione radio con altri mondi).
Altri scienziati come il direttore dell’Osservatorio di Parigi Edward Benjamin Baillaud dichiarandosi ignorante in materia affermò che le osservazioni radio svolte dalla Torre Eiffel non mostravano traccia di quei segnali.
Qualcun altro parlò di disturbi atmosferici, altri ipotizzarono una correlazione con l’attività solare, altri forse ci risero su pensando che forse questa vota il genio italiano l’aveva sparata troppo grossa 2.

Guglielmo Marconi si mosse quasi certamente dietro l’onda emotiva scatenata dalla scoperta dei canali di Marte da parte dell’astronomo Giovanni Schiaparelli che credeva di aver scorto sulla superficie del Pianeta Rosso una teoria di depressioni che chiamò canali nei suoi scritti, che, per un banale errore di traduzione in inglese, presero il nome di canals, ovvero strutture artificiali, trovando nell’astronomo americano Percival Lowell un fervente sostenitore.

Credo che invece Marconi ascoltò veramente dei segnali Morse provenienti dal cielo, ma che questi fossero di chiara origine terrestre, influenzati dall’attività solare e dal momento diurno: sono infatti convinto che Marconi stesse rivelando segnali Morse trasmessi da qualche parte sulla Terra e riflessi dalla ionosfera, scoperta solo qualche anno più tardi nel 1926 dal fisico scozzese Robert Watson-Watt, inventore del radar 3, e studiata dal fisico inglese Edward V. Appleton che gli valse il Premio Nobel.

Anche nelle storie più strampalate può esserci un pizzico di realtà.


 

Guglielmo Marconi

Guglielmo Marconi