Come il V2H può cambiare l’Italia (parte prima)

L’autonomia energetica non è solo un sogno. È una scelta tecnica, culturale e personale. Da un paio di anni vivo in una casa alimentata da un impianto fotovoltaico da 8 kWp, con 15 kWh di accumulo e una gestione intelligente orchestrata da intelligenza artificiale. Risultato? La mia ultima bolletta bimestrale è di 48 €, di cui 16 € sono il canone TV. Il resto è energia. E anche quella, è tutta mia.

Ho dovuto, malvolentieri, suddividere l’articolo i due tronconi: ci sono troppe cose da dire rispetto al tempo di attenzione di un lettore medio. Questa m’è parsa la soluzione migliore per tutti, e ne varrà la pena aspettare qualche giorno affinché l’importanza di un veicolo elettrico V2G e del fotovoltaico casalingo con accumulo venga compresa al meglio dal lettore.
Nel prossimo, le considerazioni finali.

L’auto come batteria: il concetto di V2H/V2G

Con l’arrivo della mobilità elettrica, le auto non sono più solo mezzi di trasporto. Sono accumulatori mobili da 60–100 kWh, parcheggiati per il 90% del tempo. Il V2H (Vehicle-to-Home) permette di scaricare energia dalla batteria dell’auto per alimentare la casa. Il V2G (Vehicle-to-Grid) consente di immettere energia nella rete nazionale, contribuendo alla stabilità e ricevendo compensi.

 

Simulazione: un milione di auto elettriche V2G

ParametroValore stimatoNote / fonte
Numero di auto V2G1.000.000
Plausibile al 2028-2030 (oggi ~334k EV totali, proiezione PNIEC: 6,5M al 2030).
Percentuale attiva contemporanea50% → 500.000 autoBasato su soste medie (notte/lavoro), ~50% connesse in orari di picco.
Capacità media batteria60 kWh (conservativa)Media attuale 53 kWh; sale con nuovi modelli.
Energia disponibile per V2G50% della batteria → 30 kWh/autoLimite per non intaccare mobilità; ciclo round-trip 80%.
Totale energia disponibile500.000 × 24 kWh = 12 GWhUtile per ~1-2 ore di scarica di picco.
Potenza media erogabile/auto3 - 7 kW (scarica controllata, non massima)Conservativo; fino a 7 kW domestico, 22 kW aziendale.
Potenza istantanea totale1.5 - 3,5 GWDipende da aggregazione; es. 500k × 3-7 kW.
Impatto sulla rete nazionale
12 GWh di energia immediata disponibile → sufficiente a coprire:
Il fabbisogno giornaliero di 2 milioni di abitazioni (media 6 kWh/giorno/abitazione)
1.5 - 3.5 GW di potenza istantanea → pari a
circa una grande centrale nucleare.
O il 10–15% del picco serale medio italiano in inverno

 

La rete italiana (gestita da Terna) ha un picco di domanda attuale di circa 56 GW (luglio 2025), con consumi medi giornalieri di circa 800 GWh. Un parco V2G come immaginato nella simulazione agirebbe come una batteria distribuita mobile: essa assorbe senza sforzo gli eccessi rinnovabili (ex. il solare diurno) e rilascia in picchi serali, stabilizzando la rete senza bisogno di storage stazionario costoso. Ecco l’impatto stimato, in termini percentuali e benefici:

  1. Su Picchi di Domanda (Peak Shaving)
    • Riduzione potenziale: 1.5-3.5 GW, ovvero il 2.7-6.2% del picco nazionale (56 GW).
    • Esempio locale: A Roma, stime Areti indicano circa 400 MW solo con lo smart charging più il V2G iniziale; su scala nazionale si potrebbe arrivare a 2-4 GW con un milione di auto.
    • Beneficio: Eviterebbe blackout o investimenti di rete per un risparmio di circa 1-2 miliardi di euro fino al 2030.
  2. Su Energia Totale e Integrazione Rinnovabili
    • 12 GWh netti equivalgono a circa l’1.5% del consumo giornaliero, stimati oggi 800 GWh, ma concentrati tutti in 2-4 ore di picco; questo scenario dimezzerebbe i vuoti serali, integrando il surplus del 10-15% di solare/eolico (oggi al 42% della domanda energetica).
    • Al 2030, con 6.5 milioni di veicoli elettrici V2G (stimati) si otterrebbe un potenziale accumulo totale pari a 300 GWh (pari alla produzione giornaliera di 12 centrali nucleari da 1000 MW), riducendo le emissioni CO2 di 200-300 mila tonnellate all’anno (valore economico 0.8-4.8 €/kWh evitato).
  3. Benefici Economici e Ambientali
    • Economici: Almeno 700-800 milioni di euro all’anno per il sistema (riduzione costi dispacciamento del 40%); mentre gli utenti guadagnerebbero intorno ai 100 €/auto/anno vendendo il surplus di energia.
    • Ambientali: Maggiore quota di rinnovabili significa meno emissioni (la doppia vita delle batterie ridurrebbe il bisogno di litio); il degrado extra batteria <1% in 10 anni con gestione smart.
    • Rischi: Congestioni locali se non aggregati bene, ma mitigabili con le Unità Virtuali Abilitate Miste (UVAM) da 1 MW [1]

Sala tecnica operativa di Terna (RM)

Secondo Motus-E e ARERA [2] il V2G potrebbe diventare una delle leve principali per la transizione energetica italiana, con incentivi fino a 600 €/anno per utente e un significativo – come abbiamo visto — impatto strutturale sulla bilancia energetica nazionale.
In pratica, se anche solo metà delle auto elettriche italiane diventassero V2G-ready, potremmo trasformare il parco circolante in un gigantesco UPS nazionale, capace di assorbire e restituire energia in modo intelligente.

Un esempio molto simile è il californiano V2G Curbside [3] dell’aprile 2025. Il California Energy Commission ha finanziato un progetto da 1.1 milioni di dollari per sviluppare il primo sistema V2G curbside al mondo 1. È stato pensato in collaborazione con UC Berkeley e University of Delaware per creare colonnine bidirezionali installabili sui marciapiedi urbani, dove milioni di auto sono parcheggiate ogni giorno, con l’obiettivo di trasformare le auto elettriche in sosta in risorse energetiche attive, capaci di scaricare energia nella rete durante i picchi e ridurre la pressione sulle infrastrutture elettriche.
Solo in California, si parla di 7 milioni di veicoli leggeri parcheggiati quotidianamente. Se anche solo il 10% di questi fosse V2G-ready, si otterrebbero 21 GWh di energia disponibile in caso di necessità. Il progetto include lo sviluppo del J3068 Active Cable [4], un cavo intelligente che gestisce comunicazione, autenticazione e flussi bidirezionali.

24 Giugno 2025, California. Un Modello Perfetto

il 24 giugno 2025, la California ha vissuto un momento storico. Durante una fascia critica tra le 19:00 e le 21:00, la rete elettrica era sull’orlo del blackout a causa di un picco di richiesta e una produzione rinnovabile in calo (picco +15-20% rispetto alla richiesta prevista). Ed è lì che è entrata in gioco la Virtual Power Plant (VPP) di Tesla e Sunrun: una rete di 25.000 Powerwall domestici aggregati e gestiti in tempo reale.
Sunrun ha dispacciato oltre 340 MW prelevate dalle batterie domestiche in serata, mentre Tesla ha testato un evento con migliaia di Powerwall, iniettando potenza extra durante le ore critiche e evitando blackout diffusi. Si è trattato di un salvataggio da 100 MWh in un colpo solo, simile a una centrale termoelettrica di medie dimensioni ma distribuito e scalabile. E il sistema ha risposto in modo sincrono, stabile e distribuito, evitando il collasso della rete. Il modello  californiano, con la sua straordinaria capacità di adattamento — domanda di picco intorno ai 50 GW, ha tagliato i costi emergenziali per centinaia di milioni di dollari e integrato un 15% di surplus di energia rinnovabile senza ricorrere a nuovi impianti centrali.

In Italia, con i nostri picchi estivi (tipo +7% consumi a giugno 2025), un setup VPP da un milione di auto e accumuli casalinghi potrebbe replicarlo alla scala nazionale, coprendo 1-3 GW extra senza muovere nemmeno un mattone.
L’esperienza californiana dimostra che l’energia decentralizzata è affidabile e che l’applicazione concreta dell’intelligenza artificiale nella gestione della rete elettrica distribuita è in grado di coordinare migliaia di dispositivi privati senza sforzo. E questo è un modello perfettamente replicabile in Italia grazie all’integrazione del modello casa-auto elettrica tramite il V2H/V2G.

28 aprile 2025. Caos nella Penisola Iberica

Il blackout del 28 aprile 2025 in Spagna e Portogallo è stato un campanello d’allarme per tutta l’Europa [5]. In pochi secondi, 15 GW di potenza sono spariti dalla rete iberica, causando oltre 10 ore di interruzione in molte zone e gravi disagi nei trasporti, telecomunicazioni e servizi essenziali. E tutto questo, paradossalmente, in un momento di alta produzione rinnovabile.
Non è stata la sovrapproduzione delle fonti rinnovabili, come qualche incauto il giorno dopo azzardò a proporre, ma una rete non sufficientemente flessibile per gestire sbilanciamenti improvvisi. Più precisamente fu proprio l’assenza di sistemi di bilanciamento del carico elettrico nazionale come sistemi di accumulo distribuito configurati in una VPP attiva a far crollare il sistema o, almeno, questa soluzione avrebbe ridotto di almeno un 40/50% le probabilità di un blackout estremo come quello che si è verificato dando il tempo necessario ai gestori di riallineare gli impianti tradizionali.

28 settembre 2003: Blackout italiano

L’Italia vista dallo spazio la notte del blackout nazionale del 2003

Dopo il blackout del 28 settembre 2003 [6], l’Italia ha invece investito pesantemente in reti intelligenti (le smart grid) con sistemi di protezione e riaccensione automatica, e interconnessioni europee più robuste coi paesi europei più vicini (Francia, Svizzera, Slovenia). Anche i sistemi di accumulo stazionario e fotovoltaico residenziale sono in crescita costante.
L’adozione della normativa CEI 0-21 che ora include anche il V2G [7] consentirà alla rete elettrica nazionale italiana di essere ancor più resiliente di quanto sia oggi.

Ora, immaginiamo di adattare l’ipotesi di cui sopra di un parco di un milione di auto elettriche V2G, esteso magari anche alle batterie domestiche per chi ha il fotovoltaico: con ARERA che promuove le Unità Virtuali Miste (UVAM [8]) regolamentate dal Testo  Integrato del Dispaccciamento Elettrico (TIDE [9]) dal 2025, è fattibile: aggregatori come Enel X o nuovi player potrebbero coordinare via app, pagando 0.10-0.20 €/kWh per scarica.
Ecco l’impatto stimato da questo scenario:

  1. Sul picco italiano del 28 giugno scorso  (eccesso di rchiesta di energia intorno a 1-2 GW):
    • La VPP coprirebbe il 75-175% dell’extra domanda: 1.5-3.5 GW iniettati nelle 2-4 ore serali di picco dimezzerebbero il calo del fotovoltaico, evitando così onerose importazioni lampo da Francia e Austria (+20% nei prezzi spot).
    • Beneficio: Risparmio rete di circa 100-200 milioni di euro a evento senza emissioni di gas extra,  grazie al surplus  fotovoltaico (Italia al 10% quota, sale al 25% con VPP).
  2. Rispettto al blackout spagnolo (un distacco generale causato dalla perdita di 30-36 GW):
    • Scala nazionale: La rete italiana (picco 56 GW) è simile; una VPP da un milione di auto V2G mitigherebbe  del 5-6% un guasto simile (appoggiandosi comunque anche alla rete europea). Con espansione a 2-3 milioni di auto V2G al 2027,  si raggiungerebbero i 4-7 GW. Abbastanza per tamponare un 10-20% di caduta, dando tempo a Terna per reindirizzare il sistema.
    • Scenario ottimista: In picco di domanda dovuta a un’ondata di caldo anomalo imprevisto,tipo il caso californiano, o un guasto alla rete , nel caso spagnolo, una VPP e le smart grid ridurrebbero i rischi di blackout totale del 40-50%, come in CA.
    • Economicamente: Gli utenti guadagnerebbero per il loro surplus 100-200 €/auto/anno; il sistema nazionale risparmierebbe intorno ai 500-1 miliardo di euro all’anno in investimenti di stoccaggio.

 

Le responsabilità umane nel riscaldamento globale e i rischi finanziari ad esso collegati.

Negare che periodi ed epoche passate sian stati ancora più caldi o molto più freddi di oggi è stupido ma rinnegare per questo le attuali gravi responsabilità umane nel processo di riscaldamento del pianeta trovo che sia semplicemente criminale. Ritengo che il Riscaldamento Globale sia un problema reale e che vada discusso — almeno per la sua parte antropogenica — molto più seriamente di quanto politici e governi di tutto il mondo facciano o abbiano fatto finora. I vari accordi internazionali sul tema, come anche il tanto osannato ultimo di Parigi, sono soltanto acqua fresca, specie se paragonato all’accordo di Montreal del 1994 che mise al bando totale i clorofluorocarburi (CFC) responsabili della distruzione del vitale scudo di ozono. Questo confronto mostra che se esistesse una reale volontà politica mondiale, anche il Riscaldamento Antropogenico Globale potrebbe essere risolto.

Il ciclo del carbonio atmosferico in sintesi. La riga di centro indica i principali serbatoi naturali di carbonio. In verde sono descritti i principali processi che sottraggono il carbonio nella forma di CO2 dall’atmosfera. In rosso tutti gli altri, che cioè rilasciano carbonio. Credit: Il Poliedrico

La composizione chimica della nostra atmosfera è nota. La percentuale di anidride carbonica (CO2), ormai circa 407 parti per milione, lo è altrettanto. Essa è continuamente monitorata dal NOAA, che ha una sua stazione di rilevamento globale sul Mauna Loa, nelle Isole Hawaii. Perché quel posto così lontano? Semplice, esso è abbastanza lontano da qualsiasi grande emissione di natura antropica che potrebbe falsare il risultato, anche se poi la media locale e stagionale viene studiata principalmente grazie ai satelliti.
Esiste un modo assai semplice per risalire all’origine del carbonio atmosferico. È un metodo ben conosciuto e accurato, usato di solito per stabilire l’età di un qualsiasi artefatto biologico; si chiama Metodo del Carbonio-14.
In natura esistono elementi chimici che possiedono una massa diversa rispetto ad un altro atomo dello stesso elemento; nel qual caso i due diversi atomi, detti isotopi, hanno lo stesso numero di protoni che determina le caratteristiche dell’atomo in sé, chiamato numero atomico, ma un diverso numero di neutroni che ne determina la massa finale. Nello specifico caso del carbonio, esso ha sempre 6 protoni, ma un numero che può variare da 2 a 8 di neutroni. Questi isotopi sono altamente instabili 1, solo il 12C e il 13C sono stabili. L’altro isotopo, il 14C, è prodotto in natura dai raggi cosmici, il cui flusso è abbastanza costante nel tempo 2.
Chiamato anche radiocarbonio, questo isotopo ha un’emivita di 5715 anni. Esso è assorbito come ogni altro atomo di carbonio nel naturale processo biologico, pertanto non c’è differenza tra la proporzione di radiocarbonio presente naturalmente nell’atmosfera e quella presente in un organismo biologico vivente. Quando però quest’ultimo cessa di vivere, cessa anche ogni scambio gassoso e cessa quindi di assorbire il radiocarbonio dall’atmosfera. La differenza tra la percentuale di 14C presente nell’organismo morto, che sia un tizzone di brace, un osso, oppure un coprolito, permette di risalire a quanto tempo è passato da quando tale organismo era vivo 3.

I numeri in gioco

Ora la storia si fa interessante. Quando bruciamo un legno o brucia una intera foresta, la quantità di radiocarbonio nell’atmosfera rimane pressoché invariata; non è trascorso abbastanza tempo per registrare un decadimento isotopico importante. Tanta CO2 era stata sottratta dall’atmosfera dalle piante e tanta è stata restituita all’atmosfera. Il bilancio totale finale è in pareggio. Non dico che questo sia irrilevante, perché comunque — e questo è l’aspetto più pernicioso del rilascio incontrollato di carbonio nell’atmosfera — un incendio impiega ore, se non minuti, a rilasciare tanto carbonio quanto la natura aveva messo anni e decine di anni a sequestrare dall’atmosfera.
Una fonte importante di anidride carbonica nell’atmosfera proviene dai vulcani, circa 200 milioni di tonnellate per anno (circa 55 milioni di tonnellate di carbonio). Spesso — a sproposito — i negazionisti del Global Warming la citano come l’unica fonte importante di carbonio atmosferico capace di alterare il clima. Peccato che anch’essa sia abbastanza costante nel tempo e continuamente monitorizzata. Nelle emissioni di natura geologica del carbonio il radioisotopo 14C è totalmente assente, esso decade del tutto nel giro di circa 50 mila anni, dati i tempi, geologici, del ciclo [10]. L’altra fonte è da cercarsi nella combustione dei combustibili fossili. Anche questa è esclusivamente composta dalla forma stabile del carbonio-12.
Misurando quindi le percentuali isotopiche del carbonio atmosferico è possibile notare come esso provenga per la maggior parte dall’azione antropica. Il risultato è impietoso: ogni anno vengono aggiunti circa 29 miliardi di CO2 all’atmosfera (quasi 8 miliardi di tonnellate di carbonio-12), più di 100 volte di quello prodotto dalla sola azione vulcanica. Questa è la dimostrazione definitiva della responsabilità umana nell’aumento della CO2  atmosferica.

Coralli morti per effetto dell’innalzamento della temperatura e dell’acidità delle acque superficiali a Lizard Island (Australia) sulla Grande Barriera Corallina tra il marzo e il maggio 2016. Prima arriva lo sbiancamento, indice della morte dei minuscoli organismi e poi la fioritura di alghe (a destra) completa l’opera di distruzione. Credit: XL Catlin Seaview Survey

Certo che 29 miliardi messi al confronto coi 700 miliardi di anidride carbonica contenuti naturalmente nell’atmosfera e i circa 750 che partecipano ogni anno al ciclo naturale del carbonio paiono certo ben poca cosa, ma attualmente tutti gli oceani contribuiscono a stoccare appena circa 6 miliardi di CO2 all’anno e il dato in verità è in diminuzione a causa dell’aumento della loro temperatura [cite]10.1038/nature21068[/cite]. La distruzione della Grande Barriera Corallina, l’unica struttura biologica vivente visibile dallo spazio, ne è la prova. Il meccanismo è ovvio: un aumento di temperatura dell’acqua diminuisce allo stesso modo le sue capacità di assorbire la CO2, mentre la comunque maggiore quantità ancora assorbita ne aumenta l’acidità danneggiando irreparabilmente gli organismi più delicati e inibendo ad altri, come i foraminiferi, la capacità di creare strutture di carbonato di calcio, come per esempio i loro gusci, che catturano in modo definitivo una parte importante del carbonio assorbito dagli oceani.
Sulla terraferma il discorso generale non è poi così diverso. È vero, ogni anno circa 11 miliardi di anidride carbonica sono sequestrate dall’atmosfera dalle piante, ma il disboscamento industriale e l’agricoltura intensiva riducono significativamente questa capacità. Inoltre, una temperatura mediamente più alta comporta un aumento del rilascio del carbonio ancora intrappolato nel suolo, principalmente per effetto della decomposizione dei resti organici e per il dilavamento del suolo dalla pioggia resa più acida dall’aumento della CO2 atmosferica.
Il risultato è che almeno il 40%, circa 12 miliardi di tonnellate all’anno, delle 29 prodotte dall’uomo, sono continuamente riversate nell’atmosfera, contribuendo a ridurre le capacità del pianeta di continuare ad assorbirle.
Non sono bruscolini, anche se per alcuni sembrano esserlo. Gli oceani non possono oltre un certo grado assorbire più anidride carbonica dall’atmosfera senza creare danni ambientali gravissimi e l’anossia delle acque più superficiali. È vero, potrebbe aumentare momentaneamente la quantità di alghe verdi-azzurre che potrebbero, ancora momentaneamente, assorbire una parte del carbonio atmosferico,  ma questo andrebbe a discapito di tutta la catena alimentare ittica e umana. In più, Ogni incremento della temperatura degli oceani limita la capacità di questi di sequestrare altra anidride carbonica dall’aria.
In effetti il timore, anche espresso da Stephen Hawking [11] con molta enfasi — lui se lo può permettere, di un effetto domino con conseguenze incontrollabili non è poi così remoto.

Se trascurato, il Global Warming potrebbe essere un disastro economico

[video_lightbox_youtube video_id=”WJ2j0npyJv4&rel=false” auto_thumb=”1″ width=”800″ height=”450″ auto_thumb=”1″]

Checché ne dicano i negazionisti — e sono molti di più di quanto si creda — il rapido riscaldamento del pianeta pone due serie minacce legate al sistema finanziario. La prima è legata al  costo dei danni fisici inflitti dal Riscaldamento Globale, un prezzo già alto e che comunque tende ad aumentare coi sempre più frequenti parossismi meteorologici. 

Per esempio, la celebre compagnia assicurativa, i Lloyd di Londra, ha prodotto uno studio che prova a stimare il maggior costo dei premi assicurativi in risposta alle perdite legate al cambiamento climatico, come lo fu in seguito all’uragano Sandy [12]. Un aumento della frequenza e dei costi dei risarcimenti per i danni legati al mutamento climatico, come per le inondazioni, siccità straordinarie e altri fenomeni meteorologici estremi sta già causando miliardi di dollari di perdite per le economie delle nazioni colpite.
Ma non solo, provate a immaginare quanti turisti si recavano a visitare la Grande Barriera Corallina prima del disastro ecologico e la vastità dell’intera filiera economica locale che essa alimentava. Provate a immaginare se tutti i ghiacciai alpini diventassero un ricordo, quale danno sarebbe per le comunità montane che adesso vivono di turismo. E lo stesso discorso varrebbe per le Isole Maldive, gli splendidi atolli polinesiani oppure le nostre meravigliose città costiere, Venezia, Napoli o Genova che rischiano di cedere al mare parte del loro territorio a causa dell’innalzamento delle acque.
I costi assicurativi potrebbero salire così tanto che soltanto poche compagnie potrebbero decidere di coprirle aumentando di molto il costo dei premi mentre altre potrebbero fallire per pagare i risarcimenti dovuti. Intanto le proprietà non assicurate o inassicurabili vedrebbero crollare il loro valore espellendole dal mercato mentre gli investimenti nelle aree a rischio crollerebbero. Lo scenario economico che potrebbe profilarsi col Riscaldamento Globale incontrollato è spaventoso.

Il cambiamento Climatico è uno dei cambiamenti più importanti che [oggi] la società sta affrontando. la […] è una multinazionale che si sta impegnando attivamente nel cercare soluzioni rivolte alla mitigazione e l’adattamento verso il Cambiamento Climatico. Riteniamo che una migliore divulgazione delle informazioni sui rischi e sulle opportunità legate al clima sia di stimolo per i nostri sforzi verso un mondo sostenibile.

La seconda minaccia, più subdola, è rappresentata dagli ancora pesanti investimenti sui combustibili fossili e le tecnologie ad essi collegate. Sulla carta si tratta di investimenti di migliaia di miliardi di dollari, ma essi in fondo dipendono esclusivamente dalla fiducia degli investitori. Ma se questa fiducia dovesse venire meno, la bolla dei subprime del 2007 sembrerà lo scoppio di una miccetta paragonato a una atomica.
Già oggi alcune compagnie finanziarie e le banche nazionali [13][14] si stanno chiedendo se il loro portafoglio sia in grado di sopportare i rischi derivati dal cambiamento climatico e se sia possibile mantenere una certa stabilità finanziaria nel più fosco degli scenari possibili.
Allo scopo di studiare e prevenire le vulnerabilità finanziarie legate al mutamento climatico, nel 2015 il Financial Stability Board diede il via alla Task Force on Climate-related Financial Disclosures. Questa iniziativa ha trovato l’appoggio di grandi banche d’affari come Morgan Stanley e Barclays e di grandi multinazionali come la PepsiCo (quella della Pepsi Cola e della Seven Up) che muovono cifre di migliaia di miliardi di dollari all’anno.

Le grandi contraddizioni della finanza

Anche se apparentemente i rischi legati al mutamento climatico attirano l’attenzione del mondo finanziario globale, sono ancora molte le banche d’affari che sostengono i progetti più estremi di estrazione dei combustibili fossili (carbone, olio da sabbie bituminose e trivellazioni nell’Artico) per una cifra di circa 100 miliardi di dollari all’anno [15].
In fondo il loro mestiere è quello di finanziare i progetti più appetibili in termini di ritorno finanziario e le compagnie petrolifere finora sono ancora quelle che propongono un ritorno quasi sicuro per i prossimi 50 anni.
Ma se questo dovesse cambiare per una mutata volontà politica globale, magari in seguito a un serio incidente ecologico o un grosso scandalo, sarebbe un dramma sia per le compagnie petrolifere che per le banche d’affari che vi hanno investito su. Per questo sia, ovviamente, le compagnie petrolifere che buona parte della finanza globale mirano a mantenere lo status quo.
Mentre la finanza globale sta cercando di trovare il modo di staccarsi da questo intreccio perverso, le compagnie petrolifere cercano in ogni modo di nascondere le loro esposizioni nel timore che si scateni quel panico finanziario che potrebbe annientarle.
Intanto la Shell ha dovuto rinunciare alle trivellazioni artiche e su altri progetti che prevedevano lo sfruttamento di giacimenti bituminosi, mentre la Cina sta mostrando chiari segnali di ripensamento della sua politica energetica  basata sul carbone [16].

Conclusioni

Potrei parlare per intere ore sui tanti aspetti, rischi e prospettive legate al Global Warming. Ripeto che è da stupidi negare le naturali ciclicità — ancora non ben comprese — del clima terrestre, ma lo è altrettanto il negare le gravi responsabilità umane nell’andamento attuale. E se è su questo che abbiamo colpa, allora abbiamo anche il dovere di intervenire. Anche se fosse solo per il più semplice Principio di Precauzione. 
Segnali importanti li abbiamo avuti, curiosamente, dalla crisi economica del 2007. Negli anni immediatamente successivi si è registrato un minore apporto di carbonio nell’atmosfera, per poi riprendere quando quella crisi si è risolta.
Lo sviluppo sempre più importante di fonti energetiche rinnovabili, anche se esse sono ancora un goccia nell’oceano, inizia timidamente a farsi sentire. I prezzi dell’energia da loro prodotta sta spingendo verso il basso anche quella generata dalle fonti tradizionali, buttando fuori mercato le centrali più obsolete ed inquinanti e obbligando al ripensamento dell’intera filiera energetica.
Compagnie automobilistiche come la Volvo stanno studiando come trasferire la loro industria automobilistica verso la trazione elettrica entro 20-30 anni. L’Audi già dal prossimo anno ha deciso di partecipare attivamente nel Campionato Mondiale di Formula E, il campionato riservato alle auto da corsa elettriche. In Formula 1 sono ormai anni che vengono studiati e impiegati i KERS, sistemi di recupero dell’energia cinetica. Queste tecnologie sono impiegate oggi anche nelle normali auto ibride per il recupero dell’energia in frenata che altrimenti andrebbe persa in calore.
Sono piccoli segnali è vero, ma importanti. Anche se piccole e ottuse menti ricordano che ancora per i prossimi anni dovremmo ricorrere ai combustibili fossili per generare l’elettricità necessaria al funzionamento dei nuovi veicoli elettrici, essi non comprendono che è più semplice, immediato e sicuro sequestrare la CO2  [17] da poche unità centralizzate piuttosto che da una miriade di veicoli sparsi in ogni dove, e che questi sarebbero indipendenti dai metodi usati per produrre la loro energia. Energia che potrebbe provenire anche dalle fonti alternative ai combustibili fossili più disparate, riducendo al contempo una importante fonte di inquinamento ambientale vagante.
Città più pulite, meno rumore, meno malattie indotte dall’inquinamento e dalle polveri sottili: questi sarebbero già notevoli risultati collaterali che potremmo già presto raggiungere durante la lotta alla componente antropica del cambiamento climatico.
Alcune case automobilistiche stanno guardando a questo come una grande opportunità, alcune banche di affari e grandi assicurazioni stanno studiando il fenomeno e ne iniziano a comprendere la gravità. Ora resta da convincere i governi, le istituzioni politiche e quelle sindacali, ancora troppo timide e legate al consenso transitorio e le irrazionali paure sociali.