Mars

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Trailer della mini serie Mars di Ron Howard e Brian Grazer

A me non piace parlare di qualcosa che non conosco. Dopo aver visto questa mini serie – sei puntate di 47 minuti ciascuna – sento fortissimamente invece il bisogno di dire anch’io la mia.
Fantastica. Non possono esserci altre parole che questa per descriverla.
Anche se la storia principale è ambientata nel futuro (2033 – 2037), non trovo che il termine descrittivo fantascienza le si possa attribuire. È più una proiezione romanzata e piuttosto realistica di cosa dovrebbero aspettarsi i primi futuri esploratori umani di Marte.
In mezzo a questo plausibile scenario spezzoni di registrazioni di archivio, interviste e istantanee sullo stato attuale della ricerca per l’esplorazione umana del cosmo, trasformano la mini serie in un film documentario  molto ben fatto.
Mars non fa sconti. Tragedie umane, errori e incidenti vengono dipinti nella loro cruda realtà. Ma anche affetto, spirito di sacrificio e volontà sovrumane vengono evidenziate con altrettanta chiarezza.

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Il prequel di Mars in lingua originale

Ed è proprio su questi punti che vi invito a riflettere.
Marte è solo il principio. Se volessimo individuare un trampolino di lancio per il grande tuffo nell’Oceano Cosmico, solo Marte potrebbe esserlo. Nonostante possa essere strategicamente importante per l’esplorazione umana del cosmo, la Luna è ancora troppo vicina alla madre Terra perché possa esserlo. Un insediamento umano permanente sulla Luna potrebbe essere essenziale per conquistare Marte, ma non potremmo mai considerarci una specie interplanetaria finché non avremmo colonizzato Marte.
E colonizzare Marte significa creare un insediamento umano autosufficiente. I futuri coloni avranno davanti a sé un mondo ostile, senz’aria e sterile. Questi non potranno contare sui rifornimenti da casa, dovranno arrangiarsi con le scorte iniziali e quel poco che il Pianeta Rosso potrà loro offrire in quel momento. Le sfide ingegneristiche saranno enormi, ma niente che non sia già alla portata della tecnologia attuale o di quella che si svilupperà nel giro dei prossimi cinquant’anni.
Ma la sfida più grande sarà tutta umana. Fino alla prima metà del XX secolo le esplorazioni erano tutte ad alto rischio di perdite di vite umane. Cercate le storie di Roald Amudsen che nel 1911 raggiunse il Polo Sud e quelle di Frederick Cook per il Polo Nord. La conquista dei poli richiese il grande sacrificio di uomini, mezzi e capitale. Cercate la tragedia del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile [cite]http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/la-spedizione-del-dirigibile-italia/1127/default.aspx[/cite] e capirete cosa intendo. Allora non c’erano satelliti guida, aerei e altri mezzi di soccorso e anche domani i pionieri di Marte saranno soli.
Eppure quello è inevitabilmente il futuro della specie umana se non ci avviteremo in una spirale di odio alimentata dai tanti manicheismi odierni.
Diventare una specie interplanetaria sarebbe il salto evolutivo più importante del genere Homo dalla comparsa dell’Homo Sapiens. Il bello è che questa volta potremmo essere noi a decidere il futuro evolutivo della nostra specie.
Come giustamente viene fatto notare nell’ultima puntata 1, l’incidente dell’Apollo 13 – e l’esoso costo del conflitto in Vietnam – spinse gli Stati Uniti a rivedere le sue priorità nella ricerca spaziale; da una parte Von Braun che sosteneva un ambizioso programma spaziale rivolto verso Marte [1. Next, Mars and Beyond, 25 luglio 1969.
«Even as man prepared to take his first tentative extraterrestrial steps, other celestial adventures beckoned him. The shape and scope of the post-Apollo manned space program remained hazy, and a great deal depends on the safe and successful outcome of Apollo 11. But well before the moon flight was launched, NASA was casting eyes on targets far beyond the moon. The most inviting: the earth’s close, and probably most hospitable, planetary neighbor. Given the same energy and dedication that took them to the moon, says Wernher von Braun, Americans could land on Mars as early as 1982.».] e dall’altra il Presidente Richard Nixon che non era mai stato un grande sostenitore dell’esplorazione spaziale. Alla fine vinse il programma meno costoso e meno ambizioso, quello dello Space Shuttle. Non che lo Shuttle non servisse, anzi, ci ha dato la prima vera stazione spaziale internazionale ISS e tanto altro, ma per quasi cinquant’anni ci siamo fermati ai margini del conosciuto. Più in là abbiamo osato mandare solo piccoli robot e sonde automatiche. La strategia dei piccoli passi di Nixon quasi certamente ci ha resi più maturi e consapevoli di quanto lo fossimo stati nell’era pre-spaziale ai tempi del programma Gemini e di questo credo dovremmo essergli grati.

Ma adesso è giunto il momento di andare oltre, verso Marte.

Altre forme di vita

Il Moloch orridus o Drago Spinoso, è una lucertola dei deserti australiani. Le sue scaglie sono increspate per permettere all’animale di raccogliere l’acqua da ogni parte del suo corpo. Così quando hanno bisogno di bere, è sufficiente che tocchino l’acqua che per il principio di capillarità questa viene inviata alla bocca attraverso la pelle.

L’altro ieri su una pagina Facebook che frequento (Gruppo Locale Bar) è apparsa una domanda assai intrigante:
Date le estreme diversità nelle forme di vita apparse qui sulla Terra nel corso delle ere, dagli organismi microscopici unicellulari ai pachidermi del mesozoico come i titanosauri, quale potrebbe essere l’aspetto delle forme di vita animali in un mondo che è tre o quattro volte più grande della Terra? Ci sono limiti biologici o ambientali strutturali che condizionano l’evoluzione?

Le domande non sono mai banali

Rispondere a questa domanda non è affatto semplice. Noi non conosciamo alcuna forma di vita extraterrestre, per ora possiamo solo speculare con quello che finora oggi abbiamo imparato qui sulla Terra nella speranza che poi i fatti un giorno ci diano ragione.
Possiamo intuire che esistano dei limiti fisici oltre il quale un pianeta possa considerarsi inadatto ad ospitare qualsiasi forma di vita quale noi la conosciamo, l’indice ESI [cite]https://ilpoliedrico.com/2014/06/lindice-esi-earth-similarity-index.html[/cite] e una ecosfera favorevole all’acqua liquida [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/lampiezza-zona-goldilocks.html[/cite] possono aiutare a tracciare un quadro abbastanza ragionevole su dove cercare la vita extraterrestre.
Sulla Terra sperimentiamo le medesime leggi fisiche che vediamo operare in ogni angolo dell’Universo che scrutiamo: la stessa legge di gravità che fa qui cadere le foglie in autunno e che tengono la Luna in orbita attorno alla Terra, tiene insieme le stelle anche nelle galassie più lontane; la stessa chimica che governa qui, funziona con le stesse regole anche nelle nebulose più lontane della nostra galassia così come ai confini dell’Universo. Ma ancora non sappiamo se le stesse leggi biologiche terrestri – DNA, meccanismi biologici etc. – possono essere applicabili anche altrove.
Quindi è estremamente importante sapere – o immaginare – su quale biologia queste forme di vita aliena sono basate. Quasi sicuramente esse sono basate sul carbonio-acqua – idrogeno, ossigeno e carbonio sono gli atomi più diffusi dell’Universo – ma potrebbero avere una biologia, e quindi meccanismi di risposta ai processi cellulari, completamente dissimili dai nostri. DNA diversi, aminoacidi e proteine totalmente diverse da quanto noi abbiamo immaginato e supposto potrebbero influenzare i percorsi evolutivi in modi impensati. Basta guardare le creature che esistono, o sono esistite qui sulla Terra per rendersi conto che per ogni habitat esistono decine di risposte evolutive diverse della stessa biologia. E lo stesso ci si deve aspettare che debba accadere anche negli altri mondi. Della fisica e della chimica possiamo vederne e studiarne gli effetti e le interazioni anche nei più remoti angoli dell’Universo che riusciamo a raggiungere ma della biochimica e della biologia no; possiamo, per ora, prender per buono e, per il principio di mediocrità,  universalmente valido quello che osserviamo sulla Terra.

Riflessioni ad alta voce

Un esemplare di Bathynomus giganteus.
Questi crostacei abissali vivono negli oceani oltre i 170 metri di profondità, dove la pressione supera le 18 – 20 atmosfere.

Speculativamente, perché niente qui è certo fuorché l’incertezza, qui sulla Terra sono stati scoperti batteri che vivono nelle rocce compatte del sottosuolo, estremofili che sopportano 115-130 MPa di pressione, altri che vivono fino a 120° Celsius o nelle acque radioattive dei reattori nucleari. Niente sembra poter ostacolare la vita quando questa trova il modo di attecchire.
Su pianeti il doppio o il triplo della Terra le forme di vita multicellulari potrebbero essersi sviluppate di conseguenza al seguito del doppio o del triplo della gravità. Qui la maggior parte delle forme di vita animale superiore ha scelto quattro arti per la locomozione: un buon compromesso tra efficienza nella locomozione e la complessità del meccanismo di controllo. In un mondo ad alta gravità la stabilità nella locomozione potrebbe aver preso la via di più zampe e di un corpo più schiacciato e tozzo come quello degli isopodi terrestri. Un corpo dotato di corazza pensato più per prevenire i danni da caduta che per la difesa dagli attacchi di altri predatori, molte piccole zampe piuttosto che quattro semplici arti, e così via. Anche l’intero sistema vascolare sarebbe completamente diverso, dovendo rispondere ad una gravità più alta.
Oppure, nei pianeti più grandi potrebbero non essersi mai sviluppate grandi forme di vita animale o esistere solo quelle confinate nei mari e negli oceani di acqua liquida dove la spinta idrostatica mitiga la gravità, mentre sulla terraferma colonie batteriche o di microorganismi vegetali potrebbero estendersi per chilometri quadrati nutrendosi di elementi minerali prelevati dal suolo e di radiazioni solari.

Civiltà extraterrestri

Sono da sempre convinto che la Vita sia parte del processo evolutivo universale. Penso che essa sia la naturale conseguenza delle leggi fondamentali che regolano questo universo. È soltanto di pochi giorni fa la scoperta di nubi fredde di monossido di carbonio  (\(CO\)) a 10 miliardi di anni luce [cite]http://science.sciencemag.org/content/354/6316/1128[/cite], segno che la primissima generazione stellare era riuscita già a sintetizzare ed espellere ingenti quantità di ossigeno e carbonio già solo quasi quattro miliardi di anni dopo il Big Bang. In fondo quali elementi possono essere più significativi in una entità biologica se non idrogeno, carbonio, ossigeno, più una spruzzata di pochi altri elementi?
E credo che l’intelligenza intesa nella sua forma più semplice, cioè nella capacità di valutare e scegliere la migliore strategia di sopravvivenza, sia anch’essa altrettanto diffusa là dove è apparsa la Vita.
Ma pur partendo da queste premesse credo che ambienti adatti alla Vita siano rari nell’Universo. Non impossibili ma rari. La Terra è uno di questi luoghi. Una diversa orbita, una diversa densità o un diverso asse avrebbero certamente compromesso il delicato equilibrio di pressione, temperatura e insolazione che qui sono stati fondamentali per lo sviluppo di forme di vita superiori. Anche la stabilità del Sole e la favorevole orbita galattica hanno evitato che in questi quasi 5 miliardi di anni (che non sono poi così pochi, circa un terzo dell’età dell’Universo) il nostro pianeta venisse irrimediabilmente sterilizzato dai raggi ed eventi cosmici sfavorevoli. Sì certo, ci sono stati anche per la Terra dei periodi di crisi profonda, ma se questo indica che la Vita è veramente tenace ove attecchisce, dimostra anche che le forme di vita superiori possono essere molto rare e anche molto fragili.
Se non fosse stato per il meteorite di Chicxulub [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/la-gola-del-bottaccione.html[/cite] e le eruzioni del Deccan [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Trappi_del_Deccan[/cite] forse la specie umana non sarebbe mai esistita, mentre altri eventi cruciali nella nostra storia avrebbero potuto spingerci a non sviluppare mai una civiltà tecnologicamente avanzata.
Poi c’è anche un altro aspetto che spesso viene dimenticato: l’Universo è sì vasto da rendere anche l’evento più raro come potenzialmente ripetibile, ma è anche esteso nel tempo. Anche se decidessimo di considerare gli ultimi 8 – 10 miliardi di anni come potenzialmente adatti alla Vita nell’Universo, questo è un lasso di tempo enorme se paragonato ai 200 mila anni dell’uomo moderno e che da appena un centinaio di anni abbiamo imparato a capire cos’è veramente il Cosmo.

È difficile sperare che un’altra civiltà si sia sviluppata più o meno quando la nostra e che sia anche a portata di dialogo; è ben più probabile che io – noi  fossimo qui in questo luogo e momento l’unico angolo di Universo abbastanza evoluto da porsi delle domande sulla propria esistenza. Le domande non sono mai banali.

La leggenda di Tama Rereti

Nelle mie continue ricerche mi sono imbattuto sulla leggenda Maori che descrive la nascita della Via Lattea. L’ho trovata carina, e penso che sia una delle più belle leggende sulla creazione della nostra galassia abbia mai letto.
La cosa che più mi ha colpito è quando il Dio del Cielo chiede il permesso e consiglio a un semplice uomo mortale, cosa che nel pantheon greco-romano nessuno avrebbe mai pensato di fare. Ma non voglio rovinarvi la lettura.

 

Te Waka o Tama Rereti Credit: John Drummond

Te Waka o Tama Rereti Credit: John Drummond

Molto tempo fa, subito dopo le prime persone apparvero sulla Terra, non c’erano ancora le stelle nel cielo notturno. Era così buio che era impossibile vedere e muoversi di notte senza inciampare. Solo il Taniwha (lo spirito delle acque e custode della natura) era l’unica creatura che era in grado di muoversi nel buio. Qualsiasi cosa che si fosse mossa nell’oscurità rischiava di essere divorata dal Taniwha che durante il giorno riposava sul fondo dei laghi e dei fiumi.

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In quell’epoca viveva anche un grande e astuto guerriero di nome Tama Rereti. La sua casa era sulla sponda sud del grande lago Taupo.
Una mattina di primavera, Tama Rereti si svegliò nella sua capanna 1 e si scoprì molto molto affamato ma in casa non aveva più niente mangiare. Così, osservando le acque increspate del lago, decise di andare a pesca, per poter catturare qualche pesce per se stesso e la sua famiglia.
E così Tama Rereti raccolse le sue reti ele esche e le mise nella sua canoa 2, dopodiché issò la vela e uscì fuori sul lago. Quando giunse nel suo luogo di pesca preferito abbassò la vela e cominciò a pescare. Quando Tama Rereti ebbe preso qualche bel pesce decise di tornare al villaggio per mangiare.

Però purtroppo il vento era calato e fu bonaccia. Ma la giornata era mite e durante il lungo viaggio di ritorno Tama Rereti si concesse un sonnellino sdraiandosi sul fondo della canoa. Cullato dal dolce dondolio della barca e il suono delle onde si addormentò. Mentre Tama Rereti dormiva si alzò una dolce brezza che sospinse la canoa fino alla riva nord del grande lago.
mata-ora2009-urseanuQuando si svegliò vide con sua grande sorpresa che era dalla parte opposta del lago. Non c’era modo che potesse tornare a casa prima del tramonto. E sapeva che dopo il tramonto il Taniwha guardiano del lago, mangiava tutto ciò che si muoveva nel buio e che questa sorte sarebbe presto capitata anche a lui. Ma Tama Rereti era un valoroso guerriero. Non aveva paura di combattere con il Taniwha ma amava la sua famiglia ancora di più. Tutto quello che voleva era di tornare a casa da sua moglie e i figli, al sacro fuoco della sua famiglia 3.

Tama Rereti era anche saggio, sapeva che non vanno mai prese le decisioni importanti a stomaco vuoto, e lui aveva ora molta fame. Così si diresse con la sua canoa verso una spiaggetta di ghiaia lì vicino dove gettare l’ancora e mangiare il suo pesce.  Così accese  un piccolo falò e cosse il suo pesce; poi, seduto su un tronco caduto, se lo mangiò. Tama Rereti poi rimase lì seduto, ascoltando il canto del Tui 4, il  frangersi delle lievi onde del lago sui ciottoli della riva e lo stormir delle foglie degli alberi all’alitar della brezza. Era tutto così tranquillo e caldo davanti al piccolo falò quando  Tama Rereti vide che i ciottoli usati per costruire il falò erano diventati luminosi, ed ebbe un’idea per tornare a casa.
Allora caricò più sassi brillanti possibile sulla canoa e la spinse fuori nel lago e poi pensò: “Che succede se invece di attraversare il lago, navigo sul Grande Fiume del Cielo?”
E così Tama Rereti diresse la sua canoa verso quel punto in cui il sole scivola sotto l’orizzonte per far spazio alla notte e scoprì che la corrente del fiume era potente ma costante.

Come fu entrato nel Fiume del Cielo, Tama Rereti cominciò a spargere in tutte le direzioni tutti i suoi ciottoli luminosi mentre avanzava. La scia della canoa divenne la Via Lattea e i ciottoli le sue stelle. Per questo oggi abbiamo le stelle nel cielo.
Alle prime luci dell’alba Tama Rereti aveva  finito tutti i sassolini quando poté vedere il suo villaggio: egli aveva navigato nelle direzione giusta cavalcando il Grande Fiume del Cielo.
Era così stanco che dopo aver fissato la sua canoa a un grande ceppo, Tama Rereti si trascinò alla sua capanna e, proprio mentre il sole appariva sulle colline d’oriente,  si sdraiò sul giaciglio e si addormentò profondamente.

Quando il guerriero finalmente si svegliò nel mezzo del pomeriggio, Ranginui, il Dio del Cielo, era seduto fuori la capanna ad aspettarlo.
Tama Rereti pensò che Ranginui fosse arrabbiato con lui che aveva osato sporcargli il cielo con tutti quei ciottoli brillanti. E invece il dio del cielo era contento del risultato. Per la prima volta c’era abbastanza luce di notte da permettere alle persone di vedere cosa facevano e di muoversi in tutta sicurezza. Ranginui era felice della bellezza del nuovo cielo notturno.
E così perché la gente si ricordi come furono messe le stelle nel cielo e quanto questo sia così bello di notte, Ranginui chiese a Tama Rereti il permesso di ancorare per sempre tra le stelle la sua canoa e insieme scelsero il posto nel cielo. Là dove la scia è più brillante c’è la grande canoa di Tama Rereti che galleggia da quel giorno.

Stelle come polvere e polvere di stelle

Quasi tutte le galassie (quelle ellittiche ormai non più) mostrano segni evidenti di enormi sacche di polvere; La Via Lattea, la nostra galassia, non fa eccezione. Qui c’è un sacco di polvere, prodotta negli eoni da milioni di stelle ormai scomparse 1  tra enormi esplosioni di supernova e i deboli sospiri delle nebulose planetarie. Potete vederla nel riquadrino qui accanto, magari a schermo pieno, dove è mostrata solo una piccola porzione – tra le costellazioni del Sagittario, lo Scudo e Aquila – di quello che ci è possibile scorgere dalla Terra della Galassia, oppure seguendo questo link per l’immagine tradizionale.
Per noi è come cercare di intuire la forma e l’estensione di una foresta avendo le dimensioni di un tardigrado seduto su un sassolino. Per questo la vera  natura della Via Lattea è stata compresa solo negli ultimi novant’anni e ancora molti particolari ci sfuggono.

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Le aree rosse sono dovute all’idrogeno ionizzato [HII] dalla radiazione ultravioletta delle stelle. Le regioni verdastre sono invece nubi molecolari più fredde, ricche di monossido di carbonio [CO], carbonio [CI] e carbonio ionizzato una volta [CII], oltreché del classico idrogeno atomico in genere in proporzione di 10000 atomi per ogni atomo di carbonio.
Credit: Marco Lombardi et al. (A&A 535, A16, 2011) e rielaborazione Il Poliedrico.

Se è pur vero che quella regione di spazio mostrata dalla gigantografia è ben visibile nel periodo estivo, in questa stagione il cielo è dominato da una delle più celebri costellazioni conosciute: Orione. È inutile che vi sforziate di vedere ad occhio nudo l’Anello di Barnard (anche se qualcuno afferma di esserci riuscito ma ne dubito) e gli altri oggetti nebulari; essi sono visibili – a malapena – con telescopi e filtri ottici specifici e richiedono riprese fotografiche lunghissime sotto cieli scurissimi come ormai non se ne vedono quasi più in Italia.
Questa immensa bolla di idrogeno ionizzato è illuminata dalla luce ultravioletta delle tre stelle calde e luminosissime che compongono la cintura Alnitak, Alnilam e Mintaka che insieme ad altre stelle giganti blu danno origine al complesso Orion OB1.
Poco più in basso, al centro della spada, c’è l’ammasso globulare M 42, noto anche come la Nebulosa di Orione, che racchiude anch’esso un altro scrigno di inestimabili tesori. Distante appena 1260 anni luce, è il campo di formazione stellare più vicino a noi ed è l’unica nebulosa ben visibile ad occhio nudo.
Addirittura, pur non comprendendone ovviamente la natura, i Maya (sì, proprio quelli di cui molti parlano a vanvera) avevano intuito che quella non poteva essere una stella come le altre ma che la sua luce appariva decisamente ferma come quella dei pianeti pur rimanendo fissa nel cielo. Per loro era il fuoco (per altri studiosi il fumo) del braciere racchiuso tra le stelle Alnitak, Saiph e Rigel. Questo era il Triangolo della Creazione Celeste da cui era risorto il Dio del Mais (curiosamente erano a lui/lei – nella tradizione orale precolombiana la divinità era indicata di genere femminile perché aveva generato il mais da cui era nato a sua volta il genere umano – attribuite anche la scrittura e le arti) che poi si riposava nel luogo sacro identificato con la Cintura di Orione.
E in effetti M42 è una gigantesca incubatrice di stelle ora illuminata da un ammasso aperto estremamente giovane, non più di 3 o 500 mila anni,  di stelle noto come il Trapezio (\(\theta\) Orionis) grande circa 10 anni luce.

AE aurigae -> 40° μ Columbae -> 25° 53 Arietis -> 43° Queste sono le distanze apparenti sulla volta celeste delle tre stelle giganti azzurre dal loro punto d'origine all'interno di M 42 dopo 2,7 milioni di anni. Credit: Il Poliedrico

AE aurigae -> 40°
μ Columbae -> 25°
53 Arietis -> 43°
Queste sono le distanze apparenti sulla volta celeste delle tre stelle giganti azzurre dal loro punto d’origine all’interno di M 42 dopo 2,7 milioni di anni.
Credit: Il Poliedrico

2,7 milioni di anni fa (l’Uomo arcaico era appena apparso sulla Terra) in quella stessa regione di spazio un altro sistema stellare multiplo si frantumò forse per instabilità gravitazionale o forse per l’esplosione di una supernova vicina. il risultato è che tre stelle, tutte giganti azzurre, furono scagliate via da quel sistema e ora vagano nello spazio molto distanti dal loro luogo d’origine. In fondo questa non è una novità, se è pur vero che quasi tutte le stelle nascono in gruppi più o meno numerosi, ben presto ognuna di loro prende la sua strada indipendentemente dal percorso che le altre scelgono. Pensate che là fuori da qualche parte c’è o c’è stata una stella sorella del Sole, oggi impossibile rintracciarla tra miriadi di altre stelle con assoluta certezza.

Spesso si sente dire che la scienza e l’astronomia moderna hanno ucciso la poesia racchiusa nelle cose, che siano esse un falò sulla spiaggia o il cielo trapuntato di stelle non fa differenza.
Permettetemi di dissentire da questo pensiero malsano. Sapere cosa c’è dietro una fiamma, dietro l’ammiccamento perenne di una stella e di cosa la alimenta, di come nasce e poi muore, di polvere di stelle e di cosa siamo fatti noi e tutto ciò che ci circonda, mi fa meravigliare ancora di più del Creato. Sapere che Io, Noi, siamo qui ora a osservare e comprendere tutto questo mi scalda e mi eccita più di ogni altra cosa. Immaginate invece la tristezza e lo spreco se non ci fossero osservatori capaci di cogliere cotanta bellezza.
In fondo i Maya su una cosa avevano ragione da vendere: lassù c’è la Creazione, nostra e di ogni altra cosa. Loro la vedevano nella luce fissa di M 42, per me quello è solo un eccitante e meraviglioso esempio.
Ecco, non sforzarsi di comprendere tutto questo davvero uccide la poesia che impregna il Cosmo.

L’espansione dell’Universo sta accelerando oppure serve un nuovo modello?

Questa è davvero la celebre domanda da un milione di dollari o, se preferite visto che siamo in Europa, un milione di euro. Non è davvero facile rispondere, solo le prossime ricerche ci potranno dire da quale parte guardare. Ma il progresso scientifico va avanti così, per tentativi ed errori. Fra Premi Nobel dati per scoperte che domani potrebbero essere superate per il medesimo meccanismo di autorevisione che li aveva distribuiti.
Questo giusto per ricordarci quanto sia incerto il pensiero umano che si dedica alle scoperte del Cosmo dove l’unica certezza è sapere di non essere certi  di sapere abbastanza.

 Nel 2011 Brian P. Schmidt e Adam Riess vinsero il Premio Nobel per la Fisica per aver scoperto che l’Universo stava accelerando la sua espansione al contrario di quanto fino ad allora era stato creduto. Il perché questo accada non è mai stato chiarito del tutto ma finora tutto suggerisce che sia la conseguenza di una costante cosmologica, indicata con la lettera greca \(\Lambda\), capace di contrastare il collasso gravitazionale del contenuto dell’Universo. Già in passato mi sono cimentato nello spiegare per sommi capi come questa costante operi nel Modello Standard \(\Lambda CDM\) (Lambda Cold Dark Matter) [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/zenone-olbers-lenergia-oscura-terza-parte.html[/cite] e quindi non credo sia opportuno tornarci sopra, ma di fatto tutto indica che una condizione di universo accelerato sia legata anche allo stato di falso vuoto che permette l’esistenza stessa della materia e di conseguenza la nostra di osservatori.
Per comprendere meglio come si è arrivati a capire che l’espansione dell’Universo sta accelerando, prendiamo ad esempio una SNa che con le dovute correzioni del caso, mostri uno spostamento verso il rosso (redshift) \(z\) di circa 0.1, pari a circa il 10% dell’età dellUniverso (\(\approx\)1.38 miliardi di anni). Per una distanza così – relativamente – piccola la luminosità apparente osservata nelle SNe è in linea con il loro redshift e quanto prevede la normale Legge di Hubble. Per le distanze maggiori, supponiamo \(z \approx\)0.5 (\(\frac{2}{3}\) dell’età  dell’Universo) si osserva che la luminosità delle SNe 1a è più bassa del redshift indicato dal loro spettro. Questo indica che nel corso del tempo l’espansione dell’Universo è cambiata  e che pertanto l’affievolimento della luce delle SNe risulta più marcato e che devia dalla linearità della Legge di Hubble in funzione del tempo trascorso.  In soldoni, l’Universo si stava espandendo più lentamente in passato di quanto lo faccia oggi. La luce emessa quando l’Universo aveva \(\frac{2}{3}\) dell’età attuale ha dovuto percorrere più spazio per raggiungerci e quindi è più debole di quanto previsto dai modelli di universo senza alcuna costante cosmologica.

L’altro giorno però, uno studio apparso su Scentific Reports di Nature [cite]http://www.nature.com/articles/srep35596[/cite] sembrava rimettere in discussione che l’espansione dell’Universo stesse accelerando. In realtà non è proprio così, il senso dell’articolo a mio avviso non è stato compreso del tutto e di conseguenza anche la notizia è stata distorta.
In pratica gli autori della ricerca, tra cui figura anche l’italiano Alberto Guffanti dellUniversità di Torino, hanno suggerito che in base a un nuovo campione di 740 supernovae (SN) del tipo 1a  1 non possono esserci prove evidenti che l’espansione dell’Universo sta accelerando e che le nuove loro analisi sono consistenti piuttosto con un modello di espansione costante.

Gli altri studi che confermano l’attuale modello  \(\Lambda CBM\)

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Anisotropie di temperatura nella CMBR (± 200 microKelvin) rilevate dal satellite WMAP. Queste microvariazioni nella densità della materia sarebbero all’origine degli ammassi di galassie. La loro dimensione paragonata alle dimensioni degli ammassi di galassie successivi mostra che l’espansione dell’Universo sta accelerando.

Così, giusto per chiarire, che l’espansione dell’Universo stia accelerando non sono solo le misure fotometriche delle diverse supernovae a dirlo. Dall’anno della scoperta del fenomeno, il 1998, gli astronomi hanno cercato, e trovato, altre prove indipendenti a sostegno di questa tesi [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/0604051v2[/cite], mentre nuove misure e ricalibrazioni delle candele standard suggeriscono che l’accelerazione potrebbe essere ancora più accentuata [cite]https://arxiv.org/abs/1604.01424[/cite].
Spiegare nel  dettaglio ognuno di questi porterebbe troppo lontano. Una di queste fa riferimento alle dimensioni dell’impronta delle oscillazioni acustiche dei barioni rilevate nella radiazione cosmica di fondo (CMBR) 2 e alla distribuzione delle dimensioni degli ammassi di galassie nel corso del tempo [cite]http://iopscience.iop.org/article/10.1086/466512/[/cite].
Altre conferme dell’attuale modello \(\Lambda CBM\) provengono dalla distribuzione di massa degli ammassi di galassie e perfino dal calcolo dell’età del1l’Universo [cite]https://arxiv.org/abs/1204.5493[/cite] [cite]http://www.cambridge.org/it/academic/subjects/astronomy/cosmology-and-relativity/formation-structure-universe[/cite].

Il  nuovo studio

L'effettto Sachs-Wolfe integrato.Credit: Istituto di astronomia dell'Università delle Hawaii

L’effettto Sachs-Wolfe integrato. Questo meccanismo potrebbe essere invocato per spiegare l’arrossamento locale della luce per effetto della gravità.
Credit: Istituto di astronomia dell’Università delle Hawaii

In realtà i ricercatori affermano appunto che stando alle loro ricerche basate su un numero molto maggiore di SNe le analisi – interpretate col modello attuale, quindi quello di un universo descritto per comodità di calcolo come esattamente omogeneo e che si comporta come un gas ideale, tenetelo a mente – dei dati indicano che esse non potrebbero fornire una prova certa dell’attuale modello. Gli amanti della statistica potrebbero trovare interessante che la distribuzione delle probabilità descritte da questo studio che questo Universo si trovi in uno stato di espansione accelerata è \(\lesssim\) 3 \(\sigma\) (circa lo stesso o di poco minore ai 3 sigma).
Se questa ricerca fosse confermata, in proposito lo strumento CODEX presso l’European Extremely Large Telescope (E-ELT) dovrebbe poter presto indicare dove e cosa cercare, si aprirebbero nuove possibilità: come spiegare che le fluttuazioni acustiche dei barioni nella CMBR che riflettono quello che osserviamo oggi nell’Universo? E la distribuzione della massa degli ammassi di galassie? Un modello interessante per spiegare alternativamente quello che osserviamo nella luce delle SNe è l’effetto Sachs-Wolfe integrato [cite]https://ilpoliedrico.com/2012/09/energia-oscura-e-anisotropia-nella-radiazione-cosmica-di-fondo.html[/cite], un arrossamento della luce causato dalla curvatura locale dello spazio dovuta alla gravità.
Questa chiave di lettura porterebbe inevitabilmente al ripensamento dei modelli di universo non più intesi come oggetti esattamente omogenei  e isotropi ma più come spazio vuoto con un ruolo più marcato della componente massa/energia a livello locale. Gli autori della ricerca in fondo questo dicono: il modello a CDM corretto per tenere conto della componente repulsiva attribuita all’energia oscura e indicata come costante cosmologica \(\Lambda\) è vecchio e sorpassato dalle nuove scoperte e conoscenze. È ora che esso venga ripensato.

Antropocentrismo culturale e il principio di mediocrità

È indubbio che oggi la specie umana sia l’unica che attualmente abbia sviluppato una tecnologia avanzata. La famiglia Hominidae ha avuto origine nell’area del Rift Africano tra i 5 e i 6 milioni di anni fa. Essa appartiene all’ordine dei Primati, lo stesso delle scimmie che illustro qui sotto, un gruppo che si è evoluto circa una sessantina di milioni di anni fa ed è composto da circa 500 specie che vanno dall’Homo Sapiens fino ai lemuri che oggi rappresenta all’incirca il 5 per cento di tutti i mammiferi. Finora i termini cultura, tecnologia e civiltà sono limitati all’esperienza umana ma alla luce di alcune sorprendenti scoperte forse è il caso di rivedere il nostro antropocentrismo.

primates

Credit: Il Poliedrico

Uno studio apparso a luglio su Current Biology [cite]http://dx.doi.org/10.1016/j.cub.2016.05.046[/cite] mostra che una specie delle scimmie cappuccino, i Sapajus libidinosus (conosciuti anche come Cebus libidinosus (cebo striato)) fanno uso di strumenti litici, da loro prodotti, da almeno ben 700 anni.
Questa specie, che vive nel nordest brasiliano, è nota per organizzare zone di lavoro dedicate all’apertura dei frutti di anacardio, di cui è ghiotto, nei pressi degli stessi alberi 1. Queste scimmie cappuccino, o cebi (scimmie dalla coda lunga), hanno inventato una tecnica particolarmente efficace per estrarre l’endocarpio degli anacardi: esse usano due pietre ben distinte a questo scopo. Una, più dura, più grande e piatta come incudine e l’altra, più piccola, come martello. Partendo da questa sorprendente intuizione delle scimmie, i ricercatori si sono chiesti se questo procedimento era usato anche nel passato e scavando il terreno dei siti di lavorazione hanno scoperto molti altri strumenti simili a dimostrazione che la stessa tecnica di oggi era usata anche nel passato. Studi stratigrafici dimostrano che questa tecnica è usata da almeno 700 anni.

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 Dopo aver escluso ogni possibile traccia di contaminazione umana i ricercatori hanno concluso di aver trovato il sito archeologico non umano più antico esistente fuori dall’Africa.
Altre osservazioni suggeriscono che questi cebi sappiano estrarre le pietre a loro utili [cite]http://www.nature.com/news/one-sharp-edge-does-not-a-tool-make-1.20824[/cite]. Ora se tutto questo è voluto o è solo accidentale rimane un mistero ma è un fatto. Altri studi potranno chiarire se questa comunità di scimmie di Sierra Capivara stanno muovendo i loro primi passi verso una tecnologia litica o meno.

Infatti ricerche precedenti hanno dimostrato che una primitiva forma di tecnologia litica era usata anche dagli scimpanzé in Costa d’Avorio circa 4300 anni fa [cite]http://www.pnas.org/content/104/9/3043[/cite], nonché che l’uso di strumenti e di capacità verbali primitive che consentono una trasmissione orale intergenerazionale è presente in tante altre comunità di primati superiori finora studiate.

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Altri studi documentano la capacità degli scimpanzé di saper creare ed usare alcuni strumenti per catturare piccoli insetti [cite]http://ngm.nationalgeographic.com/2008/04/chimps-with-spears/mary-roach-text[/cite].

Verso la fine del XX secolo la scoperta dell’Australopithecus Garhi [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10213683[/cite] [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10213682[/cite] (“garhi” significa “sorpresa” nella lingua Afar) restituì forse l’anello mancante che univa il grande genere degli australopitechi all’uomo. Rinvenuto nel nord del Rift Africano, esso era un ominide probabilmente antenato dell’Homo Habilis  2 o di uno dei tanti rami evolutivi ormai scomparsi del genere Australopithecus comunque di quel periodo. Comunque, qualunque sia stato il suo ruolo nell’evoluzione della famiglia Hominidae, resta il fatto che negli stessi strati del rinvenimento dell’Au. Garhi furono scoperti anche utensili in pietra e strumenti da taglio appartenenti alla tradizione Oldowan, la più antica forma di tecnologia litica conosciuta, e ossa animali che ne testimoniano l’uso. Questo indica che la macellazione e la dieta a base di carne erano presenti nella cultura degli Au. Garhi.
Questo è un passaggio importante per lo sviluppo delle prime comunità ominidi: non dover dipendere da una dieta vegetale strettamente legata ad un particolare habitat destinato comunque a cambiare o a scomparire, la necessità di fare branco per la caccia (organizzazione sociale) 3 e inseguire le prede (spostamenti e migrazione geografica) hanno senz’altro favorito l’evoluzione da scimmie stanziali a culture proto-umane.

« La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società. »
(Tylor, 1871)

Definire cosa sia una cultura può non essere così facile come sembra. Una buona definizione, riportata nel riquadro qui accanto, la dette nel 1871 l’antropologo inglese Edward Burnett Tylor.
La definizione di Taylor è squisitamente pensata a misura umana ma semplificando potremmo definire la cultura come quell’insieme di regole sociali e conoscenze che possono essere tramandate attraverso le generazioni all’interno di una comunità. In questo modo diventa possibile provare a cercare quell’insieme di regole, tradizioni ed esperienze, che non possono essere – per il principio di mediocrità – prerogativa esclusiva della specie umana, anche in seno ad altre specie animali.
La perpetuazione delle conoscenze e delle regole sociali non richiede necessariamente una proprietà linguistica evoluta o una qualche forma di scrittura, ma soltanto la capacità di osservazione e di replica. Queste facoltà si possono individuare anche in molte specie animali non primati. Però è anche altrettanto chiaro che una cultura per rendersi manifesta deve poter lasciare qualche traccia visibile come ad esempio la capacità di manipolare l’habitat in maniera utilitaristica.

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Una scimmia cappuccino intenta a spaccare pietre. Sorprendente è il gesto chiaramente intenzionale. L’atto di leccare le pietre frantumate suggerisce che sia parte di una dieta che richiede integratori minerali (ex. sale) o muschi interstiziali [cite]http://dx.doi.org/10.1038/nature20112[/cite].

Le uniche specie attualmente dotate di un cervello abbastanza sviluppato e che hanno saputo mostrarsi capaci di manipolare scientemente l’ambiente appartengono quasi tutte all’ordine dei primati 4. Un indubbio vantaggio dei primati in questa attività è quasi sicuramente riconducibile alla presenza del pollice opponibile 5 che dà un grande vantaggio nell’afferrare e manipolare gli oggetti.  Per esempio qui sulla Terra esistono altre specie animali dotate di un cervello importante e che sono capaci di comunicare verbalmente tra loro, i delfini e le megattere sono alcune di queste; esse potrebbero aver sviluppato o essere potenzialmente capaci di sviluppare una cultura verbale, una civiltà di filosofi pensatori o di poeti ma che comunque sarebbe limitata dalla loro incapacità di manipolare l’ambiente e studiare l’ambiente. Però noi non potremmo mai scoprirla almeno finché non saremmo in grado di interpretare e capire il loro linguaggio perché questo tipo di civiltà non può fisicamente lasciare tracce tangibili e analizzabili.
Tutto questi esempi cozzano col nostro comune concetto di cultura. Comunità pre e proto umane che già almeno tre milioni di anni fa [cite]http://www.nature.com/uidfinder/10.1038/nature14464[/cite] avevano appreso le stesse tecniche che scopriamo oggi nei cebi e negli scimpanzé ci indicano che la cultura non è una prerogativa unica dell’Homo Sapiens e che dovremmo aspettarci di scoprire culture completamente dissimili dalla nostra esperienza ma altrettanto preziose.
Le diverse culture umane si sono evolute in un lunghissimo arco di tempo e attraverso infinite generazioni. Tentativi, sbagli e regressioni hanno spinto la presenza umana in ogni angolo del Globo. Le necessità di adattarsi alle diverse nicchie ecologiche hanno reso la specie umana unica. Solo 50 mila anni fa la nostra specie condivideva il pianeta con altri ominidi strettamente imparentati come l’uomo di Neanderthal, l’uomo di Denisova e altre specie arcaiche. Eppure, dopo appena 30 mila anni più tardi dei nostri cugini non ce n’era più traccia nonostante che ad esempio i Neanderthal sapessero usare e controllare il fuoco e le fibre vegetali altrettanto bene. Incroci interspecie resi possibili dalle tante affinità genetiche [cite]http://www.nature.com/nature/journal/v530/n7591/full/nature16544.html[/cite] hanno prodotto un’unica specie finale, l’Homo Sapiens moderno.
E insieme agli incroci sessuali con ogni probabilità vi furono anche fusioni culturali e di tecnologia. Questo significa che se anche ora l’accezione del termine cultura fa riferimento alle capacità di trasmettere conoscenze e regole sociali tra le diverse generazioni umane, sia giunto il momento che questa debba mutare per venire incontro ad esigenze descrittive e sensibilità più ampie.

L’antropocentrismo scientifico cadde con la Rivoluzione Copernicana e le successive scoperte mostrarono la reale dimensione umana svelandoci un universo immensamente più vasto e complesso di quanto avessimo mai immaginato. Ora però è giunto il momento che cada anche l’antropocentrismo culturale che, ahimè, ancora ci nasconde altrettante meraviglie.

La Notte Europea dei Ricercatori 2016

This European Researchers’ Night project is funded by the European Commission under the Marie Skłodowska-Curie actions

This European Researchers’ Night project is funded by the European Commission under the Marie Skłodowska-Curie actions

L’altro giorno Marcel Fratzscher, docente di macroeconomia all’Università di Humboldt di Berlino e presidente dell’importante istituto di ricerca tedesco Diw Berlin, suggeriva a margine del Forum The European House tenutosi a Cernobbio una via per rilanciare l’Europa in vista delle sfide dei prossimi decenni. <<Credo che la necessità sia ancora quella di riconoscere che la crescente disuguaglianza sociale non sia solo una sfida politica, ma anche una sfida economica che deve essere indirizzata attraverso migliori istituzioni, migliore educazione, accesso all’educazione; queste devono essere le chiavi importanti per l’Europa.>>
Difficile dar torto ad un simile pensiero: l’accesso a una migliore educazione è senz’altro il modo migliore e più efficace per avviare una reale redistribuzione della ricchezza nella società. Una migliore educazione non deve per forza limitarsi alla semplice scolastica. Servono programmi di ben più ampio respiro che comprendono l’educazione civica, il rispetto verso le altre culture e per gli altri, la divulgazione mediale e così via.
Si sente spesso – e a sproposito, secondo me – parlare di europeismo e di anti-europeismo. Lasciammo perdere per un attimo le logiche delle tifoserie partitiche e ricordiamoci per un attimo le tante entità politiche che dividevano il continente europeo fino alla II Guerra Mondiale: tanti Stati in guerra tra loro dai tempi della fine della Pax Romana. Quasi 2000 anni di guerre fratricide, di eterne lotte che variavano continuamente fronte, nome e improbabili alleanze ma sempre con lo stesso denominatore comune: la guerra. Alla fine fu chiaro che non  ci sarebbe mai stato un  vincitore mentre ogni singolo stato poteva aspirare a dominare gli altri con la forza come le dittature nazifasciste avevano dimostrato. Questo fu il motivo che spinse a concepire l’Unione Europea. Una unione democratica di Popoli e non di Stati, dove le risorse economiche e umane sarebbero state dedicate al benessere di tutti i sui cittadini e non alle guerre intestine. Per questo preferisco sentirmi Cittadino Europeo ancora prima che Italiano.
La Notte Europea dei Ricercatori è solo una piccolissima parte di questo lunghissimo percorso. 2000 anni di guerra hanno creato una diffidenza atavica tra le diverse culture europee che spesso non sono sono limitate neppure dai confini geografici delle nazioni. Per superare questa diffidenza occorrerà ben più che 70 anni di storia. Ma questo è già un piccolo e importante passo, una minuscola ma non insignificante tessera del mosaico europeo che dobbiamo faticosamente costruire giorno dopo giorno superando le barriere culturali e nazionali che ancora dividono i Popoli di questo continente.
Il contributo di Frascati Scienza al grande disegno europeo non è indifferente; sono anni che si cimenta nella preziosa opera di organizzazione delle manifestazioni scientifiche nazionali ed europee coinvolgendo in questo le varie entità di ricerca scientifica e università italiane , come dimostrano la prossima Settimana della Scienza (24 – 30 Settembre 2016) e la  Notte Europea dei Ricercatori 2016 (30 Settembre 2016).

È possibile scovare i diversi programmi e le manifestazioni più vicine seguendo questo link messo a disposizione dalla Commissione Europea, dove vengono indicati tutti gli eventi si svolgeranno simultaneamente il prossimo 30 Settembre in più di 250 città in Europa e nei Paesi limitrofi (Ucraina e Turchia, ad esempio), intitolati alla memoria delle opere di Maria Slodowska-Curie.

Gocce nel mare? Forse lo sono ma come dicevano i nostri antenati latini gutta cavat lapidem, ossia la goccia perfora la pietra. E a ben guardare, l’ostilità che più o meno artificiosamente è indotta da coloro che vedono come ostacolo l’Europa Unita è un macigno che deve essere sgretolato per il bene di tutti i Popoli Europei.

Made In Science: la settimana della scienza 2016

manifesto WEBCome è ormai consuetudine da diversi anni ormai, anche quest’anno si rinnova l’appuntamento, dal 24 al 30 settembre, con la settimana dedicata alla scienza e la ricerca europea Settimana della Scienza 2016, che culminerà come sempre con la Notte Europea dei Ricercatori – finanziata dall’Unione Europea  – il 30 settembre prossimo. 
Il titolo del tema scelto per quest’anno e per la successiva edizione del 2017, entrambe curate da Frascati Scienza, è Made In Science.
Ritengo che l’uso dell’inglese nella Terra di Dante spesso sia abusato e fuori luogo, ma in questo caso convengo col suo uso. Esso è il linguaggio universale che consente a tutti i ricercatori europei – e non – di comunicare al di là delle naturali barriere linguistiche. Usare una lingua comune risalta lo spirito europeo della settimana dedicata alla scienza.

Made in Science

Made in … è una espressione che comunemente troviamo nelle etichette di quasi tutti i prodotti con cui veniamo in contatto; indica semplicemente dove quel particolare articolo è stato prodotto o costruito. Ma significa anche altro: realizzato, concepito, etc. Science non ha bisogno di essere tradotto, significa scienza.
Purtroppo – e lo vediamo proprio in queste ore poco dopo il tragico terremoto che ha colpito ancora una volta il Centro Italia – sono tanti i casi di attacchi alla scienza legati alla sua incapacità di predire l’imprevedibile, come se questo sarebbe potuto bastare a scongiurare le perdite umane. Eppure la scienza e la sua ricerca possono fare molto nel campo della prevenzione, che è molto diverso dalla preveggenza, dal rischio sismico; quello che spesso manca in questo caso così attuale è la volontà di seguire le indicazioni che da sempre offre la scienza.
Lo stesso vale nella medicina, dove molto spesso ciarlatani e finti guaritori guadagnano gli onori di cronaca conducendo battaglie contro la medicina ufficiale (antivaccinisti, dietologi improvvisati e sciamani) finché come purtroppo sempre accade il conto è poi amaro.
Però, e questo va sempre sottolineato, la scienza da sola non basta. Occorre che tutte le sue scoperte e innovazioni siano conosciute e condivise; in altre parole, comunicate e fatte conoscere. Non basta la buona volontà dei singoli divulgatori o di poche -sempre troppo poche – testate editoriali che spesso pochi o nessuno legge, serve che la divulgazione scientifica non si fermi mai.
Quindi ben vengano iniziative come La Settimana della Scienza e il suo importante epilogo Notte Europea dei Ricercatori, curata per la parte italiana da Frascati Scienza insieme ai più importanti enti di ricerca nazionali (ASI, CNR, ENEA, ESA-ESRIN, INAF, INFN, INGV, ISS, CINECA, GARR, ISPRA, CREA, Sardegna Ricerche). Ben vengano le iniziative scolastiche, i seminari aperti al pubblico dei sempre più numerosi atenei italiani che parteciperanno a questo evento, consci però che tutto questo appena scalfisce il triste muro di gomma che i più vari ciarlatani cercano di frapporre continuamente tra la scienza e il pubblico. Esse non saranno mai abbastanza; le più diverse attività scientifiche e di ricerca non cesseranno dopo questi spettacolari eventi ma andranno avanti per promuovere e garantire negli umani limiti la sicurezza e il benessere di tutto il genere umano, occorre però anche un sano spirito critico e di apertura da parte del pubblico ogni volta che si parla di scienza.

E qui si torna al significato più profondo del titolo scelto come tema comune della settimana: Made in Science potremmo tradurlo in Realizzato nella Scienza o Concepito Scientificamente. Una garanzia che tutto quello che vi è presentato sotto questo marchio non è una stupidaggine.

Poco extra e molto terrestre il segnale del Ratan 600

Vi ricordate lo strano caso di KIC 8462852 [cite]http://ilpoliedrico.com/2015/11/la-curiosa-storia-della-curva-di-luce-di-kic8462852-alieni-non-credo.html[/cite] dove un’intensa e transiente variabilità suggeriva l’esistenza di una civiltà assai avanzata attorno a quella stella? Qui invece c’è un segnale che alcuni paragonano all’inspiegato WOW! [cite]http://tuttidentro.eu//?s=wow[/cite] ma che solleva qualche – legittima – perplessità.

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Come si può notare qui sopra, HD 164595 è una stella molto studiata per via della sua estrema somiglianza col nostro Sole; stessa età, stessa massa (un centesimo più piccola) e quasi la stessa metallicità [cite]http://arxiv.org/abs/1312.7571[/cite] 1. Scambiandolo con la nostra stella non noteremmo ad occhio nessuna differenza, senonché per il fatto che avremmo un Nettuno caldo (HD 164595b [cite]http://arxiv.org/abs/1506.07144[/cite]) in orbita molto stretta che ogni 40 giorni transita sul disco stellare e una debole stellina rossa che orbita su, da qualche parte del cielo, insieme a noi attorno alla stella principale del sistema, coi sui tempi.
Sì perché il sistema stellare HD 164595 è un sistema doppio, anche se la distanza della seconda componente sembra tale da non compromettere l’esistenza di un sistema planetario stabile nei pressi della zona abitabile (HZ) della stella, che essendo più o meno uguale al Sole anche l’HZ deve essere piuttosto simile.
L’unica cosa che ci si potrebbe chiedere è se il nettuniano caldo si sia formato lì o sia arrivato lì più recentemente dalle regioni più esterne; in tal caso potrebbe non esserci più un sistema planetario roccioso interno nei pressi dell’HZ.
Possono sembrare discussioni sulla lana caprina ma anche questo a mio avviso bisogna chiedersi quando si prova ad ipotizzare se qualche altra civiltà ha emesso, volutamente o per caso, un segnale abbastanza forte da essere rilevato a quasi 95 anni luce di distanza!

Il segnale ricevuto dal Ratan 600

CatturaIl 15 maggio 2015 alle 18:01 (ST) il radiotelescopio RATAN-600 a Zelenchukskaya, nella  Repubblica autonoma della Karačaj-Circassia, pare che abbia intercettato sulla frequenza di 11,10 GHz (2.7 cm) un segnale molto forte (750 mJy) proveniente dalle stesse coordinate celesti di HD 164595, un segnale molto forte, che se fosse stato unidirezionale sarebbe costato circa \(7 \times 10^{13}\) watt di potenza al trasmettitore.
Ora, se fosse stato emesso volutamente da una civiltà extraterrestre per far sapere al cosmo la sue esistenza, il messaggio sarebbe stato ripetuto uguale a sé stesso per diversi mesi per diverse ore al giorno, un po’ come avvenne per il Progetto Ozma voluto da Frank Drake nel 1960.
Sarebbe da stupidi non farlo, sparare 70 milioni di gigawatt verso una sola stella a quasi 100 anni luce per un paio di secondi e poi non ripetersi più, a meno che nell’intento non gli siano saltati tutti i fusibili e che non li potessero rimpiazzare …
E infatti, dal 2015 a oggi nessun segnale del genere da quelle coordinate celesti è stato mai più ricevuto. Un’altra caratteristica importante che un autentico segnale intelligente extraterrestre che si suppone debba avere per distinguersi dal naturale rumore di fondo è la larghezza di banda molto ridotta, molto più stretta di quanto possa essere prodotta dai comuni fenomeni astrofisici conosciuti, mentre il ciclopico sistema del Ratan 600 stava usando un ricevitore con una larghezza di banda da 1 GHz (sembra molto ma a quelle frequenze in realtà non lo è, è solo un paio di centinaia di volte più ampio di una normale trasmissione televisiva). Come ultimo ma non ultimo requisito richiesto ad un segnale SETI, ci si aspetta che esso presenti una deriva Doppler in frequenza imposta dai moti relativi del trasmettitore e del telescopio radio ricevente; per un pianeta in orbita attorno a una stella molto simile al Sole e quindi  a una distanza paragonabile a quella della Terra per rimanere dentro la sua HZ, questa deriva si può calcolare che sia compresa tra qualche chilometro al secondo fino a qualche decina. Anche questa caratteristica non è stato potuto essere rilevata nel segnale captato dal Ratan 600.

È indubbio che il radiotelescopio abbia ricevuto qualcosa, come anche i responsabili dell’osservatorio hanno confermato, ma non era quasi sicuramente di origine … extraterrestre.
Una – non esaustiva – analisi della zona in questione è stata fatta pochi giorni fa a seguito dello scalpore causato dalla notizia, dal SETI Institute utilizzando l’Allen Telescope Array in California mentre la Breakthrough Listen Initiative sta usando il Green Bank Telescope in Virgina per lo stesso scopo. Magari se questa ricerca fosse stata fatta immediatamente dopo la ricezione del segnale a quest’ora avremmo avuto una risposta più efficace, ma all’epoca gli scienziati russi non allertarono subito gli altri istituti di ricerca [cite]http://cosmicdiary.org/fmarchis/2016/08/29/lets-be-careful-about-this-seti-signal/[/cite] come prevedono i protocolli di Primo Contatto.
La non ripetitività del segnale (il Ratan 600 ha osservato altre 39 volte la stessa porzione di cielo senza ascoltare niente) fa pensare che possa essersi trattato di un fenomeno naturale transiente, come una curiosa espulsione di massa coronale delle stelle del sistema o di una sullo sfondo (quella è una zona abbastanza affollata del cielo). Anche un rigurgito di attività in un quasar di una qualche galassia lontana ma comunque compresa nell’area studiata o un occasionale guizzo nel plasma interstellare avrebbero potuto scatenare un segnale così importante anche se è assai improbabile.
Il problema è che oltre a un ricevitore a banda larga, il Ratan 600 a quelle frequenze (11 GHz) osserva contemporaneamente una discreta fascia di cielo che si estende per circa 20 arcosecondi per 2 arcominuti, il che dice poco anche sull’esatta direzione di ascolto; questo è dovuto alla sua particolare geometria. In sostanza, fare affidamento su un unico segnale ricevuto con uno strumento così particolare per affermare che sia avvenuto un contatto alieno è quantomeno un azzardo.

Conclusioni

Date le peculiarità del sistema di ricezione, il segnale captato nel 2015 può essere stato piuttosto un evento astrofisico transiente anche se le indagini di questi giorni tendono ad escluderlo dal punto di vista statistico [cite]https://seti.berkeley.edu/HD164595.pdf[/cite].
Rimane l’ipotesi terrestre – che secondo me – è anche la più probabile.
Un battimento armonico di una trasmissione a frequenze più basse o una spuria proveniente da un trasmettitore non ben filtrato di un aereo o un satellite artificiale che avesse attraversato in quel momento i lobi di ricezione del radiotelescopio  avrebbe potuto benissimo causare quel segnale.
Come adesso è evidente non c’è alcun bisogno di scomodare una civiltà extraterrestre per spiegare tutto questo trambusto.

ps. È notizia di queste ore che l’Osservatorio astrofisico speciale dell’Accademia russa delle scienze ha smentito l’ipotesi extraterrestre [cite]https://www.sao.ru/Doc-en/SciNews/2016/Sotnikova/[/cite]. Ecco anche spiegato anche perché nel 2015 gli scienziati russi non comunicarono quella che già a loro parve una non notizia.

LUCA il progenote

Il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre è un affresco di Michelangelo Buonarroti, dipinto attorno all'anno 1510 nella volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma,

Il Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre è un affresco di Michelangelo Buonarroti, dipinto attorno all’anno 1510 nella volta della Cappella Sistina, nei Musei Vaticani a Roma,

Nella Genesi biblica c’è un passo che reputo molto significativo: la cacciata dal Paradiso.
Eva, la figura mitologica della prima donna, spinta dalla’incarnazione del Male inteso come l’opposto del Divino, suggerì al suo compagno Adamo ad assaggiare il Frutto Proibito colto dall’Albero della Conoscenza. Fu allora che la coppia primigenia si accorse di essere nuda di fronte alla vastità del Paradiso e venne cacciata.
Amo pensare che il Frutto dell’Albero della Conoscenza sia l’allegoria della Curiosità. E come una di quelle varietà più piccanti di peperoncino che spinge i loro consumatori a ingerire liquidi nel vano sforzo di arginare il disagio, la Curiosità anima la sete di conoscenza che da sempre ci distingue dalle altre specie animali. In questa mia personale interpretazione il Peccato Originale non è altro che l’essenza del Frutto Proibito che si tramanda a tutte le generazioni del genere umano, così come la nudità della Cacciata dal Paradiso la vedo come la rivelazione dell’ignoranza dell’Uomo verso tutto ciò che lo circonda.
L’unico mantello che possa coprire l’umanità consiste nel placare la sua innata sete di conoscenza [1. Ovviamente la mia è solo una libera e personale interpretazione del mito, ma trovo che sia una chiave di lettura che merita attenzione e approfondimento.] e
 questo blog lo si può interpretare come il tentativo di espiare la mia parte di Peccato Originale.

Per i cristiani e gli ebrei il Libro della Genesi spiega come sia stato creato l’Universo e la Vita. Un passo particolare descrive la creazione dell’Uomo: «  Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. »   (Genesi 2,7)

La generazione spontanea

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Cavalier-Smith propone solo due grandi domini tassonomici: Eukaryota e Prokaryota. Il dominio prokaryota in realtà è l’unione dei due domini precedenti, che ora diventano regni, Bacteria e Archaea. Questo diagramma mostra i principali tipi di cellula del mondo vivente e la loro probabile evoluzione partendo da organismi ancestrali comuni. Credit: Cavalier-Smith, 2004

Questo è un chiaro esempio di come nell’antichità si cercasse di spiegare come sia sorta la Vita. Oggi parleremmo di abiogenesi (dal greco a-bio-genesis, “origini non biologiche”), ma esso non è un concetto moderno, bensì è antico quasi quanto l’uomo. Le culture abramitiche convergevano nell’indicare sia l’Uomo che tutti gli altri esseri superiori (cani, cavalli, uccelli ad esempio) fossero stati creati per intervento divino, mentre quelli inferiori (mosche, cimici, blatte etc.) traessero origine dallo sporco e dal sudore. Anche nell’antica Cina esistevano credenze analoghe, così come anche nella cultura babilonese, da cui discendono appunto le moderne religioni monoteiste.
Nel pensiero classico greco la vita era direttamente collegata alla materia. Essa appariva spontaneamente qualora le condizioni ambientali le fossero favorevoli, un pensiero che in astratto è molto più moderno di quanto di primo acchito si creda, come vedremo più avanti. Aperti sostenitori della teoria della generazione spontanea furono filosofi del calibro di Talete, Democrito ed Epicuro, ma fu Aristotele che ne fece una sintesi accurata che sopravvisse fin dopo il Rinascimento. Egli sosteneva che gli esseri viventi nascessero da altri organismi simili ma che talvolta avrebbero potuto anche generarsi spontaneamente dalla materia inerte 1. Perfino pensatori famosi come Newton, Cartesio e Bacone sostenevano l’idea della generazione spontanea della vita.

Dio plasmò […] dalla polvere e soffiò […] un alito di vita.

Però la rivoluzione del pensiero scientifico introdotta da Galileo Galilei non mancò di influenzare anche la biologia. L’aretino Francesco Redi fu uno dei primi naturalisti a sperimentare, e a confutare, la generazione spontanea della vita. Egli contestò l’idea che i vermi sorgessero spontaneamente dalla carne putrefatta. Ben conscio che le sue scoperte minavano la posizione aristotelica della Chiesa, Redi fu molto cauto nel divulgare le sue scoperte; quindi fece in modo che le sue interpretazioni fossero sempre basate su passi biblici, come ad esempio il famoso adagio: “Omne vivum ex vivo” (Tutta la vita viene dalla vita).
Il naturalista aretino non fu il solo, nei decenni successivi molti altri scienziati arrivarono alle stesse conclusioni dimostrando come il calore potesse rendere sterile una coltura. In questo campo furono importanti le ricerche del gesuita Lazzaro Spallanzani 2 nel 1757 e di Theodor Schwann nel 1836.
Nonostante tutto erano ancora molti i naturalisti ancora convinti della generazione spontanea della vita. Ma nel 1864 un esperimento del francese Louis Pasteur pose definitivamente fine all’antica visione. Egli sterilizzò un brodo di carne dentro una beuta col collo piegato prima verso il basso e poi verso l’alto senza chiuderlo. In questo modo l’aria sarebbe potuta entrare nel recipiente senza alcun ostacolo tranne che per le impurità dell’aria che si sarebbero depositate sul fondo della curva del collo della beuta; se l’aria effettivamente conteneva un qualsiasi calore vitale questo avrebbe contaminato il brodo. Invece la coltura non produsse microorganismi né altre forme di vita. Ma quando Pasteur ebbe rotto il collo della beuta i germi ricomparvero subito nel brodo.
Fu così dimostrato definitivamente che in assenza di contaminazione da parte di altra materia biologica non poteva esserci una generazione spontanea della vita come fino ad allora si era inteso; il concetto di generazione spontanea era sbagliato, semmai si doveva parlare di riproduzione spontanea. Il motto di Francesco Redi era salvo.

Il moderno concetto di abiogenesi

Zoonomia, Or, The Laws of Organic Life, in three parts (Erasmus Darwin, 1803)

« Would it be too bold to imagine that, in the great length of time since the earth began to exist, perhaps millions of ages before the commencement of the history of mankind would it be too bold to imagine that all warm-blooded animals have arisen from one living filament, which the great First Cause endued with animality, with the power of acquiring new parts, attended with new propensities, directed by irritations, sensations, volitions and associations, and thus possessing the faculty of continuing to improve by its own inherent activity, and of delivering down these improvements by generation to its posterity, world without end! »
« Sarebbe osare troppo immaginare che, nel lungo periodo di tempo da quando la terra ha cominciato la sua esistenza, forse milioni di secoli prima dell’inizio della storia dell’umanità, che tutti gli animali a sangue caldo siano cresciuti da un singolo filamento vivente, che la grande Causa Prima indusse alla vita, con la possibilità di acquisire nuove parti, migliorato da nuove propensioni, guidato da nuovi stimoli, sensazioni, volontà ed associazioni, e per cui capaci di continuare a migliorare per propria attività naturale, e di consegnare questi miglioramenti attraverso la riproduzione alla propria prole, ed al mondo, senza fine! »

Tutto mostrava che la vita potesse originarsi soltanto da altra vita, o come suggeriva Charles Darwin, da forme di vita più semplici preesistenti.
Charles Darwin, naturalista e geologo britannico, scrisse il suo più celebre saggio “L’origine delle specie” nel 1859, partendo dalle riflessioni e gli appunti di viaggio racccolti nei suoi celebri viaggi attorno al mondo col brigantino Beagle, che già erano apparsi in altri lavori minori del celebre scienziato.
Anche se è indubbiamente giusto ricordare Charles Darwin come il padre della teoria sull’evoluzione delle specie, è altrettanto opportuno ricordare l’humus culturale della sua formazione. Suo nonno, Erasmus Darwin, nel 1794 scrisse Zoonomia, un trattato di medicina che in sé suggeriva già alcune idee sulle teorie evolutive che poi sarebbero state fonte di ispirazione per il naturalista francese Jean-Baptiste de Lamarck. Il lamarckismo 3 è probabilmente la prima teoria evolutiva coerente, anche se oggi ampiamente confutata dalle esperienze scientifiche e di laboratorio, in cui si cerca di superare il concetto di immutabilità delle specie come era raccontato dai filosofi greci e dalla Bibbia.
L’idea di una primigenia forma di vita molto semplice riapre il dibattito su chi o cosa ci sia stato prima. Un po’ come il paradosso dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Per il misticismo religioso non ci sono dubbi: è tutto merito del divino del credo di appartenenza, per gli scettici qualcos’altro.
È così che l’abiogenesi, data per confutata dagli esperimenti di Pasteur, torna prepotentemente in auge col darwinismo per cercare di rispondere a cosa ci sia stato prima delle prime forme di vita.
Oggi ci riferiamo a questo organismo estremamente semplice chiamandolo LUCA (Last Universal Common Ancestor), un antenato comune a tutti i regni (eucaryota e prokaryota) e domini [cite]http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/15306349[/cite] e quindi comune a tutte le forme di vita esistenti sulla Terra. Il riferimento a questo essere animato è fin troppo evidente nel pensiero di Erasmus Darwin. Ma anche LUCA deve essere venuto da qualche parte, ci devono essere stato qualcos’altro prima di lui, qualcosa che prima era inanimato e che poi è diventato vita.
Possiamo attenderci che una serie di eventi chimici ed energetici abbia coinvolto atomi e molecole combinandoli poi in molecole via via più complesse finché esse non sono state in grado di autoreplicarsi 4 [cite]http://dx.doi.org/10.1063/1.4818538[/cite].
Anche la discussione tra origine autoctona o panspermia lascia sostanzialmente invariata la risposta, decidere se le molecole prebiotiche si siano sviluppate qui sulla Terra o se sono piovute dallo spazio grazie alle comete [cite]http://ilpoliedrico.com/2016/05/alla-ricerca-delle-origini-della-vita.html[/cite]. È come se di fronte a una sala superbamente arredata ci si chiedesse se l’arredatore abbia da sé abbattuto gli alberi e costruito i mobili o abbia usato le tavole dell’Ikea.

Il progenote

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Questo diagramma, sviluppato studiando l’rRNA comune a quasi tutti gli organismi del pianeta, mostra come i tre domini vita Archea, Bacteria e Eucaryota, siano in realtà imparentati fra loro tramite un ultimo antenato comune universale (il tronco nero nella parte inferiore della struttura). Si noti che la maggior parte dei modelli moderni ora pongono l’origine degli eucarioti all’interno della stirpe archaea. Credit: Wikimedia, CC BY-SA

All’incirca negli ultimi 30 anni sono stati compiuti grandi passi nello studio delle sequenze genetiche. Tale successo ha permesso di identificare e studiare sequenze genetiche comuni alla maggior parte delle specie viventi. Questo è risultato essere molto importante per capire i processi evolutivi di interi gruppi etnici e le loro secolari migrazioni (vedi ad esempio gli Etruschi), ma anche a livello di interspecie, proprio appunto per creare un quadro evolutivo coerente della vita sulla Terra. Lo studio tassonomico di sequenze comuni tra le diverse specie, dai batteri all’uomo per intenderci, ha permesso di scrivere alberi filogenetici come questo qui accanto.
L’analisi di oltre 6 milioni di geni codificanti proteine nel RNA ribosomiale 5 [cite]http://dx.doi.org/10.1038/nmicrobiol.2016.116[/cite], o rRNA, di organismi procariotici ha permesso di isolare un gruppo comune di proteine (355 su 286514, un po’ più dello 0,12%)  che potrebbero aiutare a capire l’ambiente ancestrale in cui il progenote deve aver vissuto.
Il mondo di questi organismi ancestrali comuni vissuti quasi tre miliardi e mezzo di anni fa [cite]http://ilpoliedrico.com/2015/01/sedimenti-naturali-e-strutture-fossili.html[/cite] era assai diverso dal nostro. Ancora non esisteva l’atmosfera attuale così ricca di ossigeno [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/07/lantica-storia-della-terra.html[/cite] come la conosciamo e da cui quasi tutti gli organismi pluricellulari attuali dipendono, Secondo le proteine sintetizzate dalla componente genetica comune l’ambiente più adatto al progenote era molto simile agli odierni camini idrotermali delle dorsali oceaniche [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/07/ce-vita-anche-laggiu.html[/cite]
Questo antenato comune avrebbe metabolizzato idrogeno, usato il biossido di carbonio e di azoto per replicarsi e il ferro come agente catalizzatore negli enzimi cellulari più o meno come ancora oggi fanno molti microbi termofili anaerobici come l’attuale Clostridium thermoaceticum [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/1900793[/cite].

Al di là quindi delle origini delle molecole organiche complesse, la vita pare essersi sviluppata in maniera autonoma su questo pianeta e in ambienti molto lontani dalla sola energia solare e da quella parossistica dell’atmosfera. Questa scoperta suggerisce che dopotutto anche mondi posti all’esterno di una zona Goldilocks, come ad esempio i satelliti più grandi dei pianeti esterni, potrebbero dare origine a processi biologici importanti e ospitare forme di vita elementare se fossero sede di fenomeni geotermali persistenti.
Niente fulmini, ma il lento cullar del respiro della terra che incontra il mare.