Altre forme di vita

Il Moloch orridus o Drago Spinoso, è una lucertola dei deserti australiani. Le sue scaglie sono increspate per permettere all’animale di raccogliere l’acqua da ogni parte del suo corpo. Così quando hanno bisogno di bere, è sufficiente che tocchino l’acqua che per il principio di capillarità questa viene inviata alla bocca attraverso la pelle.

L’altro ieri su una pagina Facebook che frequento (Gruppo Locale Bar) è apparsa una domanda assai intrigante:
Date le estreme diversità nelle forme di vita apparse qui sulla Terra nel corso delle ere, dagli organismi microscopici unicellulari ai pachidermi del mesozoico come i titanosauri, quale potrebbe essere l’aspetto delle forme di vita animali in un mondo che è tre o quattro volte più grande della Terra? Ci sono limiti biologici o ambientali strutturali che condizionano l’evoluzione?

Le domande non sono mai banali

Rispondere a questa domanda non è affatto semplice. Noi non conosciamo alcuna forma di vita extraterrestre, per ora possiamo solo speculare con quello che finora oggi abbiamo imparato qui sulla Terra nella speranza che poi i fatti un giorno ci diano ragione.
Possiamo intuire che esistano dei limiti fisici oltre il quale un pianeta possa considerarsi inadatto ad ospitare qualsiasi forma di vita quale noi la conosciamo, l’indice ESI [cite]https://ilpoliedrico.com/2014/06/lindice-esi-earth-similarity-index.html[/cite] e una ecosfera favorevole all’acqua liquida [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/lampiezza-zona-goldilocks.html[/cite] possono aiutare a tracciare un quadro abbastanza ragionevole su dove cercare la vita extraterrestre.
Sulla Terra sperimentiamo le medesime leggi fisiche che vediamo operare in ogni angolo dell’Universo che scrutiamo: la stessa legge di gravità che fa qui cadere le foglie in autunno e che tengono la Luna in orbita attorno alla Terra, tiene insieme le stelle anche nelle galassie più lontane; la stessa chimica che governa qui, funziona con le stesse regole anche nelle nebulose più lontane della nostra galassia così come ai confini dell’Universo. Ma ancora non sappiamo se le stesse leggi biologiche terrestri – DNA, meccanismi biologici etc. – possono essere applicabili anche altrove.
Quindi è estremamente importante sapere – o immaginare – su quale biologia queste forme di vita aliena sono basate. Quasi sicuramente esse sono basate sul carbonio-acqua – idrogeno, ossigeno e carbonio sono gli atomi più diffusi dell’Universo – ma potrebbero avere una biologia, e quindi meccanismi di risposta ai processi cellulari, completamente dissimili dai nostri. DNA diversi, aminoacidi e proteine totalmente diverse da quanto noi abbiamo immaginato e supposto potrebbero influenzare i percorsi evolutivi in modi impensati. Basta guardare le creature che esistono, o sono esistite qui sulla Terra per rendersi conto che per ogni habitat esistono decine di risposte evolutive diverse della stessa biologia. E lo stesso ci si deve aspettare che debba accadere anche negli altri mondi. Della fisica e della chimica possiamo vederne e studiarne gli effetti e le interazioni anche nei più remoti angoli dell’Universo che riusciamo a raggiungere ma della biochimica e della biologia no; possiamo, per ora, prender per buono e, per il principio di mediocrità,  universalmente valido quello che osserviamo sulla Terra.

Riflessioni ad alta voce

Un esemplare di Bathynomus giganteus.
Questi crostacei abissali vivono negli oceani oltre i 170 metri di profondità, dove la pressione supera le 18 – 20 atmosfere.

Speculativamente, perché niente qui è certo fuorché l’incertezza, qui sulla Terra sono stati scoperti batteri che vivono nelle rocce compatte del sottosuolo, estremofili che sopportano 115-130 MPa di pressione, altri che vivono fino a 120° Celsius o nelle acque radioattive dei reattori nucleari. Niente sembra poter ostacolare la vita quando questa trova il modo di attecchire.
Su pianeti il doppio o il triplo della Terra le forme di vita multicellulari potrebbero essersi sviluppate di conseguenza al seguito del doppio o del triplo della gravità. Qui la maggior parte delle forme di vita animale superiore ha scelto quattro arti per la locomozione: un buon compromesso tra efficienza nella locomozione e la complessità del meccanismo di controllo. In un mondo ad alta gravità la stabilità nella locomozione potrebbe aver preso la via di più zampe e di un corpo più schiacciato e tozzo come quello degli isopodi terrestri. Un corpo dotato di corazza pensato più per prevenire i danni da caduta che per la difesa dagli attacchi di altri predatori, molte piccole zampe piuttosto che quattro semplici arti, e così via. Anche l’intero sistema vascolare sarebbe completamente diverso, dovendo rispondere ad una gravità più alta.
Oppure, nei pianeti più grandi potrebbero non essersi mai sviluppate grandi forme di vita animale o esistere solo quelle confinate nei mari e negli oceani di acqua liquida dove la spinta idrostatica mitiga la gravità, mentre sulla terraferma colonie batteriche o di microorganismi vegetali potrebbero estendersi per chilometri quadrati nutrendosi di elementi minerali prelevati dal suolo e di radiazioni solari.

Civiltà extraterrestri

Sono da sempre convinto che la Vita sia parte del processo evolutivo universale. Penso che essa sia la naturale conseguenza delle leggi fondamentali che regolano questo universo. È soltanto di pochi giorni fa la scoperta di nubi fredde di monossido di carbonio  (\(CO\)) a 10 miliardi di anni luce [cite]http://science.sciencemag.org/content/354/6316/1128[/cite], segno che la primissima generazione stellare era riuscita già a sintetizzare ed espellere ingenti quantità di ossigeno e carbonio già solo quasi quattro miliardi di anni dopo il Big Bang. In fondo quali elementi possono essere più significativi in una entità biologica se non idrogeno, carbonio, ossigeno, più una spruzzata di pochi altri elementi?
E credo che l’intelligenza intesa nella sua forma più semplice, cioè nella capacità di valutare e scegliere la migliore strategia di sopravvivenza, sia anch’essa altrettanto diffusa là dove è apparsa la Vita.
Ma pur partendo da queste premesse credo che ambienti adatti alla Vita siano rari nell’Universo. Non impossibili ma rari. La Terra è uno di questi luoghi. Una diversa orbita, una diversa densità o un diverso asse avrebbero certamente compromesso il delicato equilibrio di pressione, temperatura e insolazione che qui sono stati fondamentali per lo sviluppo di forme di vita superiori. Anche la stabilità del Sole e la favorevole orbita galattica hanno evitato che in questi quasi 5 miliardi di anni (che non sono poi così pochi, circa un terzo dell’età dell’Universo) il nostro pianeta venisse irrimediabilmente sterilizzato dai raggi ed eventi cosmici sfavorevoli. Sì certo, ci sono stati anche per la Terra dei periodi di crisi profonda, ma se questo indica che la Vita è veramente tenace ove attecchisce, dimostra anche che le forme di vita superiori possono essere molto rare e anche molto fragili.
Se non fosse stato per il meteorite di Chicxulub [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/la-gola-del-bottaccione.html[/cite] e le eruzioni del Deccan [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Trappi_del_Deccan[/cite] forse la specie umana non sarebbe mai esistita, mentre altri eventi cruciali nella nostra storia avrebbero potuto spingerci a non sviluppare mai una civiltà tecnologicamente avanzata.
Poi c’è anche un altro aspetto che spesso viene dimenticato: l’Universo è sì vasto da rendere anche l’evento più raro come potenzialmente ripetibile, ma è anche esteso nel tempo. Anche se decidessimo di considerare gli ultimi 8 – 10 miliardi di anni come potenzialmente adatti alla Vita nell’Universo, questo è un lasso di tempo enorme se paragonato ai 200 mila anni dell’uomo moderno e che da appena un centinaio di anni abbiamo imparato a capire cos’è veramente il Cosmo.

È difficile sperare che un’altra civiltà si sia sviluppata più o meno quando la nostra e che sia anche a portata di dialogo; è ben più probabile che io – noi  fossimo qui in questo luogo e momento l’unico angolo di Universo abbastanza evoluto da porsi delle domande sulla propria esistenza. Le domande non sono mai banali.

Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta, le altre proprietà

 Finisce qui il lungo capitolo “Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta“. Mi sono divertito un sacco a scriverlo come spero voi vi siate divertiti a leggerlo. È stato un argomento abbastanza impegnativo da trattare, dimostrare come un tenue affievolimento delle luce di una stella può sussurrare molte cose all’orecchio, o meglio all’occhio, di chi sa ascoltare e leggere il grande libro del cosmo. I metodi, le formule e i calcoli  da me illustrati non sono e non pretendono di essere esaustivi e precisi, ma vogliono essere semplicemente di stimolo alla curiosità del lettore. In fondo questo è lo scopo di questo Blog.

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exoplanetaUna volta scoperte le principali proprietà fisiche di un esopianeta, ossia raggio del pianeta, orbita, massa e temperatura di equilibrio, è possibile, in linea teorica risalire alle altre, come densità (questa è facile) struttura interna e in linea di massima pure la struttura dell’atmosfera, ovvero quali gas possono comporla dal punto di vista teorico.
Ovviamente non sarà mai possibile ottenere un quadro attendibile per questi ultimi due punti partendo dalla semplice osservazione dei transiti orbitali e basta, ma perlomeno così si ha un’indicazione su come proseguire nella ricerca.

Nel primo articolo [cite]http://ilpoliedrico.com/2014/07/come-ti-calcolo-le-proprieta-di-un-esopianeta-prima-parte.html[/cite] fu dimostrato come attorno ad una stella K7 orbitasse un pianeta grande quasi il doppio di Nettuno (42 000 km) a soli 44,6 milioni di chilometri dalla stella. e una temperatura di equilibrio di 263 °K.
La massa, finora indeterminata per via del metodo di rilevamento, viene infine stimata intorno alle 9,5 x 1026 kg,circa 159 volte la Terra.

La densità

Il calcolo della densità non è poi così difficile. Basta dividere la massa per il volume, ovvero:
\begin{equation}\label{eq:Densità}
\delta_{p}=\frac{m_{p}}{\frac{4\pi {r_{p}}^3}{3}}
\end{equation}

\[\rightarrow\]
\begin{equation}
\frac{9,5\times 10^{26}\; kg}{3,1 \times 10^{23} \; m^{3}}=3,06 \times 10^{3}\;
kg/m^{3}\end{equation}

La velocità di fuga e la gravità superficiale

Anche se è nota al grande pubblico soprattutto per la sua importanza nella balistica e nella missilistica, in realtà essa domina la struttura e la composizione delle atmosfere planetarie assieme al parametro della temperatura di equilibrio [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/05/lo-spessore-delle-atmosfere-planetarie.html[/cite]. La velocità di fuga si ha quando l’energia cinetica del corpo e il modulo della sua energia potenziale gravitazionale si equivalgono, e questo vale per un missile, un sasso, un atomo e un fotone, nel caso di un buco nero. Per un qualsiasi corpo, pianeta o stella che sia non è difficile da stabilire, basta conoscere la sua massa e il raggio.

\begin{equation}\label{eq:Velocità di fuga}
v_{f}=\sqrt{\frac{2GM}{R}}
\end{equation}

\[\rightarrow\]
\begin{equation}
\sqrt{\frac{2 \cdot 9,5\times 10^{26}\; kg \cdot \left ( 6,67 \cdot 10^{-11} \frac{m^3}{kg \cdot s^2}\right ) }{4,2\times10^7 \;m}}= 54,930\; km/s
\end{equation}
Lo stesso discorso vale anche per la gravità superficiale:
\begin{equation}\label{eq:Gravità superficiale}
g_{s}=G \frac{M}{R^2}
\end{equation}
\[\rightarrow\]
\begin{equation}
\left ( 6,67 \cdot 10^{-11} \frac{m^3}{kg \cdot s^2}\right ) \cdot \frac{9,5\times 10^{26}\; kg}{\left ( 4,2\times10^7 \;m\right )^2} = 35,921 \; m/s^2
\end{equation}

Così si scopre che questo ipotetico esopianeta ha una densità simile alla Luna ma con una velocità di fuga che  è di poco inferiore a quella di Giove mentre la gravità alla superficie è una volta e mezza quella del ben noto gigante gassoso. Probabilmente è un grande mondo di silicati e un nucleo ferroso avvolto da una densa atmosfera. Quasi altrettanto certamente non è un buon posto per cercarvi forme di vita di tipo terrestre.

Alla ricerca di altre forme di vita: i Ritmi Biologici

Un’ora vive la gialla farfalla ma il tempo ha che le basta.
Rabíndranáth Thákhur

Questa citazione viene attribuita al poeta indiano del XX secolo Rabindranath Tagore, ma probabilmente è più antica. Indica come la percezione del tempo intesa come scala temporale di vita di qualsiasi organismo è funzione unicamente del suo ciclo vitale. Di conseguenza ogni forma di vita ha i propri cicli vitali, molto diversi dagli altri e non sempre li percepiamo.

biological clockViene comune misurare ancora il tempo in generazioni umane, ossia l’intervallo temporale che c’è tra la nascita dei genitori e i loro figli, ma l’aspettativa di vita in questi 200 mila anni di homo sapiens è mutata tantissimo, da appena 15-20 di allora agli 80 di oggi, allungando di conseguenza l’intervallo generazionale da 10 anni della preistoria ai 25-30 di oggi.
Anche l’uso dell’intervallo di tempo che occorre alla Terra per compiere un’orbita, che chiamiamo anno, è abbastanza arbitrario: ad esempio se vivessi su Marte avrei solo 25 anni, mentre se  usassi l’anno venusiano avrei oltre 76 anni!
L’unica misura temporale veramente adatta per descrivere le funzioni degli esseri viventi è paradossalmente … (continua su Progetto Drake)

La Zona Circumstellare Abitabile delle altre stelle

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Umby

Abbiamo visto nello scorso articolo 1 come si quantifica in linea di massima la Zona Circumstellare Abitabile del Sole, un passaggio importante, se non obbligato, per comprenderne il significato.  Ma come si stima una Zona Goldilocks attorno ad un’altra stella?
In realtà è molto più semplice di quanto si pensi, bastano le quattro operazioni elementari, sapere cosa siano la radice quadrata di un numero e un logaritmo, e un po’ di pazienza.

Innanzitutto occorre stimare quanta energia emette una stella, cosa non poi così difficile come può sembrare.
Si parte calcolando la magnitudine assoluta 2 della stella in esame.
L’equazione nuda e cruda che lega la luminosità apparente e la luminosità assoluta è questa:
\[

M_v = m_v – 5 * \log{\left(\frac{D}{10}\right)}

\]

dove $M_v$ e $m_v$ sono le magnitudini visuali, cioè come sono percepite le luminosità dall’occhio umano 3, mentre D è la distanza espressa in parsec (3,26 anni luce).
Detta così dice poco, ma per fare un esempio prendiamo il nostro Sole, la cui magnitudine apparente è di -26,75 e distante 0,000004848137 parsec:
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,000004848137/10\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,00004848137\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * -6,31442
\]
\[
Mv = -26,75 –31,57212
\]
\[
Mv = 4,82212
\]

mica è difficile!

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Ma purtroppo la magnitudine assoluta calcolata si riferisce solo alla luce visibile così come noi la percepiamo, mentre le stelle emettono energia in uno spettro infinitamente più ampio che dipende dalla loro temperatura superficiale 4.
Allora perché si riesca a tenere conto di tutta l’energia emessa da una stella occorre correggere il dato visuale di conseguenza. Il primo passo consiste nell’applicare la Correzione Bolometrica ($BC$) da cui poi si giunge alla luminosità assoluta:
\[
M_{bol} = M_v + BC
\]

Dove $M_{bol}$ è la magnitudine bolometrica assoluta, $M_v$ come sopra e $BC$ la costante di correzione bolometrica (in linea di massima possiamo usare i valori della tabella qui accanto).
Sempre riferendosi alla nostra stella il valore di $BC$ è -0,08, per cui sviluppando l’equazione precedente abbiamo:
\[
M_{bol} = 4,82 + -0,08 = 4,74
\]

che è appunto la magnitudine bolometrica assoluta del Sole.
Ora trasformiamo la magnitudine bolometrica assoluta ricavata sopra  in unità solari per maggiore praticità e comprensione. In questo modo la Fascia Goldilocks ci verrà restituita in unità astronomiche.
\[
\frac{L_{Stella}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{M_{bolStella} – M_{bolSole}}{-5}\right]}
\]

Per il Sole questo rapporto è ovviamente 1 , ma vedremo presto come si applica alle altre stelle.
Un ottimo metodo di calcolo della CHZ fu messo a punto da Daniel Whitmire, James Kasting e Ray Reynolds nel 1992 e poi rivisto negli anni successivi. Questo studio tiene conto di diversi parametri come la chimica atmosferica, l’albedo etc., si riassume in due costanti che, usate ai denominatori di queste equazioni, restituiscono una stima abbastanza affidabile delle dimensioni della Zona Goldilocks per le varie stelle espresse in UA:

\[

r_{i} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{1,1}}  \Longleftrightarrow r_{o} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{0,53}}

\]

Il raggio limite interno che rappresenta il confine più caldo è dato dalla prima equazione nel valore di $r_i$, mentre il limite più esterno e più freddo è dato dalla seconda in $r_o$.
Se provassimo ad applicarlo per il Sistema Solare, allora avremmo $r_i=\sqrt{1/1,1}=0,95$ e $r_o=\sqrt{1/0,53}=1,37$, un po’ diversi da quelli del precedente articolo che non teneva assolutamente conto dell’albedo e dell’atmosfera, ma non poi così tanto.

Adesso proviamo un esempio pratico. è notizia di questi giorni che sia stato trovato un sistema planetario attorno alla stella $\tau$ Ceti 5, una delle stelle a noi più più vicine, solo 11,89 anni luce e di $m_v$ 3,50 6.

\[
M_v=3,5 -5 * log{\left(\frac{\left(11,89/3,26\right)}{10}\right)} = 3,5 – -2,19 = 5,69
\]
\[
M_{bol}=5,69+(BC=-0,21) = 5,48
\]
\[
\frac{L_{\tau Ceti}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{5,48 – 4,79}{-5}\right]}\approx {0,529}
\]
\[
r_{i_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{1,1}}=0,694   \Longleftrightarrow r_{o_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{0,53}} =0,999
\]

Anche se questi numeri sono solo indicativi, è interessante vedere come non sia poi così difficile cercare di quantificare una fascia abitabile intorno a una stella. La CHZ per $\tau$ Ceti si estende quindi tra le 0,7 e 1 unità astronomica. Chissà, probabilmente aveva ragione Isaac Asimov, il cielo di Aurora è un più aranciato del nostro.

Riferimenti:
Whitmire, Daniel; Reynolds, Ray, (1996). Circumstellar habitable zones: astronomical considerations. In: Doyle, Laurence (ed.). Circumstellar Habitable Zones, 117-142. Travis House Publications, Menlo Park.


Pi, Einstein e altre storie

Nella giornata di oggi ricorre la nascita di uno dei più grandi geni dell’umanità: Albert Einstein, nato appunto il 14 marzo 1789 a Ulm in Germania.

Questo giorno poi è stato dedicato – non so bene da chi – al numero irrazionale più conosciuto nel mondo: Pi greco.
Sicuramente è per la notazione della data nel mondo anglosassone dove prima viene il mese e poi il giorno: 3.14 .
Certo è curioso come la data di nascita di Einstein sia uguale al 3 e 14 che ci insegnano a scuola 1 .
Pi greco è certamente la costante matematica più usata in quasi tutti i campi scientifici: dall’ingegneria alla chimica, dalla fisica particellare all’astrofisica, passando per l’elettronica e, ovviamente, la geometria.
Conosciuto da almeno  4500 anni – giorno più, giorno meno – dagli antichi egizi, e sviluppato concettualmente in forma più astratta e precisa dai greci 2, la rappresentazione decimale di pi greco troncata a 11 cifre decimali è abbastanza buona per valutare la circonferenza di un cerchio che si inserisce all’interno della Terra – che non è poi così tonda – con un errore di meno di un millimetro, mentre se si vuole essere più precisi, la rappresentazione decimale di pi greco troncata alle 39 cifre decimali è sufficiente per stimare la circonferenza di un cerchio che si inserisce nell’universo osservabile con precisione paragonabile al raggio di un atomo di idrogeno.
A cosa serve quindi una maggiore precisione nella conoscenza di pi greco?
Praticamente forse a niente, in teoria serve a tutto, mantiene viva la nostra innata curiosità umana. Ricordiamoci che senza di essa oggi non saremmo qui ma penzoleremmo ancora da un ramo di qualche albero come le scimmie nostre antenate.

Buon Pi-Einstein day!


Il paradosso di Olbers e altre domande

Ci sono alcune domande che possono sembrare banali e scontate, ma che in realtà celano una complessità tale che le risposte non sono affatto semplici. Questo significa che non esistono quesiti ovvi, ma al più risposte ovvie.

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Credit: Il Poliedrico

Vi siete mai chiesti perché il cielo di notte è buio?
Banale, eh? Se rispondete perché il Sole è tramontato da un pezzo, me ne vado!
Pensateci bene. Se le stelle – in prima approssimazione possiamo prenderla così – sono distribuite uniformemente nello spazio, prima o poi con lo sguardo dovremmo incontrare la superficie di una stella, non importa quanto distante o quanto luminosa essa sia, ma ovunque volgessimo lo sguardo vedremmo la superficie di una stella e il cielo quindi splenderebbe ne più ne meno come la fotosfera del Sole.
Questo si chiama paradosso di Olbers 1, ma in realtà si posero la stessa domanda anche Keplero e Halley (solo per citarne alcuni) prima di lui.
Vediamo alcune risposte:

  • Le stelle più lontane sono oscurate dalla polvere.
  • L’Universo ha solo un numero finito di stelle.
  • La distribuzione delle stelle nel cosmo non è uniforme.
  • L’Universo è in espansione, la luce delle stelle più lontane è stirata dall’effetto Doppler verso il rosso in proporzione della distanza.
  • L’Universo è relativamente giovane. La luce delle stelle più distanti non ci ha ancora raggiunto.

 

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Verso il centro della Galassia

La prima risposta si può scartare subito: in un corpo nero, come lo è l’Universo, la polvere finirebbe per riscaldarsi e irradiare con la stessa intensità delle stelle che si nascondono dietro. È quindi sbagliata.
La seconda potrebbe essere quasi corretta, se non fosse che il numero di stelle dell’Universo pur essendo tecnicamente finito è cumunque abbastanza alto da illuminare comunque il cielo, come se fossse virtualmente infinito. Anche questa risposta non è convincente.
La terza pur descrivendo efficacemente la struttura reale dell’Universo su grande scala non può essere vera, altrimenti vedremmo il cielo solcato da linee luminose inframmezzato da piccole aree più scure di spazio vuoto, ma questo non si osserva: anche questa risposta è errata.
Solo le ultime due possono spiegare  perché il cielo è buio e sicuramente entrambe contribuiscono a questo effetto anche se in maniera diversa: l’effetto Doppler provocato dall’espansione dell’Universo provoca il progressivo stiramento delle lunghezze d’onda della radiazione stellare così che non riusciamo a vedere nel dominio ottico le stelle più lontane, ma noi viviamo in un guscio sferico che  possiamo chiamare Universo Osservabile. Questa porzione di universo ha un raggio uguale alla vita dell’Universo, cioè circa 15 miliardi di anni luce, e la luce delle stelle più distanti di questo limite ancora non ci ha raggiunto e quando lo farà sarà troppo stirata per essere influente.

Lo so, parlare di scale così grandi fa venire il mal di testa, per questo invece voglio proporre un  quiz molto più semplice: Perché le stelle sembrano più brillanti in inverno?

  1. Perché è più freddo.
  2. Perché guardiamo in una direzione dove le stelle sono più brillanti.
  3. Perchè l’aria è più rarefatta.
  4. Perché guardiamo verso il centro della Via Lattea.

Come al solito la risposta la avrete fra 15 giorni ….