Alla ricerca delle origini della vita

Il bacino del Sudbury in Canada è uno degli ultimi resti dei grandi bombardamenti cometari subiti dalla Terra nella sua infanzia di cui sia rimasta qualche traccia.  Il suo studio è quindi molto importante per capire cosa è davvero successo in quell’epoca così remota e come sia arrivato il nostro pianeta ad ospitare la Vita.

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Credit: NASA & MNDM

Credit: NASA & MNDM

Nella regione dell’Ontario (Canada) esiste un cratere, ormai quasi del tutto eroso dal tempo, vecchio di 1,8 miliardi di anni. Fu una cometa di circa dieci o quindici chilometri a provocarlo, più o meno quanto si pensa che fosse stato il terribile asteroide che si suppone pose fine al dominio dei dinosauri su questo pianeta 65 milioni di anni fa. Perché vi possiate rendere conto delle dimensioni, immaginatelo grande quanto Firenze o Deimos, una luna di Marte.
Un impatto di un corpo simile oggi contro la Terra è molto più remoto che in passato, se dovesse comunque accadere esso segnerebbe la fine della nostra civiltà e probabilmente anche della nostra specie. Ma impatti simili nei primi 500 milioni di anni della Terra quasi sicuramente hanno portato gli ingredienti necessari alla vita e creato le condizioni ambientali adatte perché questa potesse formarsi e prosperare.
La comparsa della vita sulla Terra avvenne circa 3,8 – 3,4 miliardi di anni fa, ossia appena 700 milioni – un miliardo di anni dopo la sua formazione, circa alla fine del periodo conosciuto come Intenso Bombardamento Tardivo. Un periodo forse fin troppo breve per spiegare la formazione di molecole complesse come la glicina, la β-alanina, gli acidi amminobutirrici etc. che si suppone siano state i precursori della vita sul nostro pianeta. Diversi studi [cite]http://www.acs.org/content/acs/en/pressroom/newsreleases/2012/march/new-evidence-that-comets-deposited-building-blocks-of-life-on-primordial-earth.html[/cite] svolti in passato mostrano come le molecole organiche più semplici che comunemente vengono osservate nelle nubi interstellari possono essere arrivate qui sulla Terra cavalcando le comete senza distruggersi nell’impatto ma altresì trovare in questo l’energia sufficiente per formare strutture organiche , peptidi, ancora più complesse [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/05/aminoacidi-astrostoppisti.html[/cite].

sudbury-impact1Da diverso tempo si sono sostituite le scariche elettriche dei fulmini e delle radiazioni ultraviolette delle teorie di Haldane e di Oparin con fonti energetiche più dolci e continue come le bocche idrotermali oceaniche. Lì metalli come ferro, zinco, zolfo disciolti in un ambiente acquatico ricco di energia non ionizzante, avrebbero avuto modo da fungere da catalizzatori per la creazione di molecole organiche complesse prebiotiche e, in seguito, per la vita. Le ricerche di laboratorio però mostrano che anche i luoghi di impatto cometario possono essere stati luoghi altrettanto interessanti.
Il bacino di Sudbury è ideale per verificare questa ipotesi: l’impatto cometario ha deformato la crosta fino a una profondità di ben sedici chilometri, permettendo così ai minerali di nichel, ferro e zinco di risalire dal mantello. Il cratere, inizialmente inondato dal mare subito dopo l’impatto, è poi rimasto isolato abbastanza a lungo da permettere la formazione di un sedimento spesso un chilometro e mezzo. Per i ricercatori che attualmente stanno studiando questo complesso [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0016703716301661[/cite] l’acqua raccolta nel cratere avrebbe quindi promosso i processi idrotermali non dissimili a quelli che vengono attualmente osservati nelle dorsali oceaniche.

Qui gli ingredienti per la creazione della vita ci sono tutti: molecole organiche semplici che vengono portate sulla Terra da una cometa e che si pensa che possano sopravvivere all’olocausto dell’impatto e trasformarsi in molecole anche più complesse; l’acqua trasportata dalla stessa cometa e dal mantello fessurato; energia prodotta dall’attività idrotermale indotta dall’impatto; metalli e solfuri pronti per fungere da catalizzatori per i processi organici immediatamente disponibili …
Insomma, un mix di condizioni ideali all’abiogenesi iniziale possono essersi create già nei primissimi milioni di anni di vita della Terra.

A caccia di mostri: nascita delle galassie più massicce dell’Universo.

La settimana scorsa, giovedì 21 agosto 2014, il Prof. Danilo Marchesini della Tuft University di Boston (potete vedere la cartina qui in basso) è stato ospite presso l’Università di Siena per una conferenza come dal titolo.  Non perdo tempo e vi lascio subito a questa visione.
Ringrazio l’Università di Siena e la persona di Alessandro Marchini per aver reso pubblico  il video dell’incontro.

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La caratterizzazione delle Super-Terre: Il ciclo geologico del carbonio

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Se credi che una certa cosa possa essere improbabile, almeno cerca di togliere l’impossibile e forse quello che ne rimane è potenzialmente vero.
Se un giorno riuscissimo a scoprire un’altra Terra, è altamente improbabile che questa presenti uno stadio evolutivo simile al nostro. La Terra è infatti ben lontana dall’essere un sistema statico fin dal momento della sua formazione avvenuta circa 4,6 miliardi di anni fa. Al contrario, per tutto questo tempo ha subito numerosi cambiamenti nella composizione atmosferica, nella temperatura, nella distribuzione dei continenti, senza parlare delle numerose e diverse forme di vita che l’hanno occupata. Tutti questi cambiamenti si sono riflessi nell’aspetto che potrebbe essere visto a distanze astronomiche. Ogni scenario ha avuto la sua firma caratteristica, e adesso saper riconoscere queste impronte in altri pianeti può aiutarci a capire se questi possono essere stati o esserlo nel futuro, potenzialmente abitabili.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Nel corso degli ultimi quattro anni è stato possibile scoprire parecchi pianeti nell’intervallo di massa tra 2 e 10 masse terrestri, quelli che vengono definiti  Super-Terre; alcuni di questi pianeti si vengono a trovare dentro oppure si trovano vicini alla zona di abitabilità della loro stella ospite. Recentemente sono stati annunciati nuovi pianeti delle dimensioni della nostra Terra e della nostra Luna, e questo numero sicuramente aumenterà in futuro.
Le prime statistiche hanno messo in evidenza che circa il 62% delle stelle della nostra Galassia potrebbero ospitare un pianeta delle dimensioni della nostra Terra mentre studi compiuti dalla missione Kepler della NASA indicano che circa il 16,5% delle stelle hanno almeno un pianeta delle dimensioni del nostro con periodi orbitali fino a 85 giorni.
Per poter caratterizzare queste esoterre scoperte dobbiamo prima di tutto dare uno sguardo al nostro Sistema Solare e ai suoi pianeti. La Terra è per ora l’unico pianeta conosciuto in cui esiste la vita; di conseguenza le osservazioni del nostro pianeta saranno una chiave fondamentale per lo studio e la ricerca della vita altrove.

Intanto, poter definire come un pianeta sia potenzialmente vivibile non è affatto facile, ci sono talmente tante condizioni al contorno da soddisfare che non è facile considerarle tutte. Una di queste impone che per sostenere la vita come la conosciamo, un pianeta debba permettere all’acqua di esistere allo stato liquido sulla sua superficie. Indicativamente, e forse in modo piuttosto semplicistico, spesso questa condizione viene identificata come la fascia – o zona – Goldilocks, quella zona né troppo lontana e né troppo vicina alla stella dove la radiazione consente all’acqua di esistere allo stato liquido su un pianeta. Quindi si tratta solo di un mero dato orbitale che ben poco ha a che vedere con la realtà: ad esempio, sulla Luna la presenza di ‘acqua allo stato liquido non è possibile anche se ne esiste una certa quantità allo stato solido (ghiaccio); eppure condivide con la Terra la stessa zona di abitabilità.

Quello che veramente occorre ad un pianeta perché possa essere considerato potenzialmente vivibile è un ambiente abbastanza stabile nel tempo che non sia soggetto a parossismi orbitali che periodicamente farebbero congelare o arrostire la sua superficie e un ambiente abbastanza ricco di energia da poter essere sfruttata dalle forme di vita. Se per risolvere il primo caso basta che l’eccentricità dell’orbita del pianeta sia prossima a zero, per il secondo caso il discorso si fa un attimino più complicato: occorre che la pressione ambientale consenta all’acqua di mantenere lo stato liquido in un ampio spettro di temperature e un meccanismo che garantisca che anche la temperatura sia più o meno stabile all’interno di questo intervallo 1 .

Il ciclo geologico del carbonio

Per la sua capacità di trattenere la radiazione infrarossa, l’anidride carbonica è un importante termoregolatore per la superficie di un pianeta 2.
Il modo in cui questa molecola riesce a passare dall’atmosfera al mare, al fondale marino e poi di nuovo all’atmosfera è affascinate, anche se richiede molto tempo e un prerequisito essenziale: la presenza di una tettonica a placche [cite] http://ilpoliedrico.com/2013/07/venere-e-terra-gemelli-diversi.html [/cite].

In questo ciclo alcune molecole di anidride carbonica ($CO_2$) atmosferica si disciolgono nell’acqua ($H_2O$) 3 formando acido carbonico .

\[
CO_2 + H_2O \rightleftharpoons H_2CO_3
\]

Un meccanismo molto efficace e che deve essere stato senz’altro presente fin dalle prime fasi della costituzione di una crosta solida è la pioggia. La pioggia ha anche un altro compito importante nell’evoluzione planetaria: desaturando un’atmosfera primordiale ricchissima di vapore acqueo 4 rafforza il processo di raffreddamento della superficie e facilita lo scorrimento delle prime zolle tettoniche necessarie per l’ultima fase del ciclo del carbonio.
Adesso l’acido carbonico disciolto nell’acqua è libero di dissolversi nelle rocce con cui viene a contatto, siano esse quelle esposte alle precipitazioni o i fondali marini. Una reazione che potrebbe essere piuttosto comune è la seguente, dove i silicati di calcio ($CaSiO_3$) svolgono un ruolo fondamentale nel ciclo:

\[
CaSiO_3 + 2H_2CO_3 \rightarrow Ca^{2+} + {2HCO_3}^{-} + H_2SiO_3
\]

tutti i membri di destra, gli ioni di calcio ($Ca^{2+}$), gli ioni  di idrogenocarbonato (${2HCO_3}^{-}$) 5 e l’acido silicico ($H_2 SiO_3$) sono ancora soluzioni acquose che potrebbero finire negli oceani.
Ben presto l’idrogenocarbonato viene a trovarsi in equilibrio con l’anidride carbonica disciolta nell’acqua secondo la seguente formula:

\[
{2HCO_3}^{-} \rightleftharpoons {CO_3}ì{2-} + H_2O + CO_2
\]

Quando la concentrazione di ioni carbonato (${CO_3}^{2-}$) aumenta, questi interagiscono con gli ioni di calcio visti prima e precipitano sotto forma di carbonato di calcio ($CaCO_3$) creando così minerari come la calcite e l’aragonite.
Questo è solo un esempio di come il carbonio atmosferico riesca a passare dalla forma gassosa nell’aria alla forma solida nella crosta planetaria. Il ruolo fondamentale di questo meccanismo è la presenza dell’acqua come solvente che ne consente il transito.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Il risultato di questo scambio sono minerali come la calcite che testimoniano la sottrazione del carbonio dall’atmosfera e che possono finire sepolti anche molto in profondità, al di sotto delle zolle tettoniche. Da qui poi, grazie all’attività vulcanica, il carbonio intrappolato nelle rocce potrebbe tornare di nuovo nell’atmosfera.
Se il meccanismo di sottrazione del carbonio dall’atmosfera dovesse venir meno per un calo eccessivo della temperatura globale, il naturale degassamento della crosta e del mantello tramite l’attività vulcanica dovrebbe far aumentare la concentrazione di $CO_2$ atmosferica e di conseguenza la temperatura. Altresì, un aumento eccessivo della temperatura dovrebbe permettere una maggior efficienza dei meccanismi di estrazione e quindi all’abbassamento di questa 6.
Il meccanismo del ciclo geologico del carbonio è complesso e comunque i suoi tempi di risposta sono piuttosto lunghi. Penso piuttosto a come l’equilibrio tra solvente (l’acqua del pianeta) e soluto (anidride carbonica) possa già di per sé portare ad una sottrazione dei due maggiori gas serra dall’atmosfera planetaria e alla stabilizzazione verso il basso della temperatura planetaria quando le condizioni ambientali consentono l’innescarsi di questo processo.

(continua …)


Note:

Il meccanismo di formazione delle code cometarie

I meccanismi di formazione delle code cometarie sono assai complessi. Infatti questi si intrecciano e si influenzano vicendevolmente producendo all’apparenza effetti contrastanti e privi di “buon senso”.

Coda di sodio (nella parte sinistra) e coda di polvere nella cometa Hale Bopp. Gabriele Cremonese, Osservatorio Astronomico di Padova.

Coda di sodio (nella parte sinistra) e coda di polvere nella cometa Hale Bopp. Gabriele Cremonese, Osservatorio Astronomico di Padova.

Il meccanismo principale nella produzione di una coda cometaria consiste nell’interazione tra i fotoni emessi dal Sole e le particelle rilasciate dal nucleo di una cometa. I fotoni esercitano sulle particelle una piccolissima pressione, detta pressione di radiazione, dovuta al trasferimento di parte dell’energia, in particolare del momento, veicolato dai fotoni alle particelle cometarie. L’efficienza di questo processo fisico diminuisce col quadrato della distanza dal Sole.
Questa pressione (stimata in 5 milionesimi di Pascal ad una distanza di 1 U.A.) influenza maggiormente le particelle di piccola massa rispetto a quelle di grande massa. Ciò fa si che le particelle più grandi, risentendo meno dell’effetto di Poynting-Robertson, vengano meno respinte, restando prossime al nucleo, a differenza di quelle più piccole che vengono sparate più velocemente nella coda. Queste ultime si allontanano con grande velocità dal nucleo e dall’orbita, disseminandosi in vaste regioni pressoché complanari con l’orbita stessa.

Quando una particella abbandona il nucleo può seguire due traiettorie diverse, entrambe influenzate dal contributo della pressione di radiazione incidente su di essa:
•  sincrone: le traiettorie sincrone si verificano quando le particelle rilasciate nello stesso istante formano curve poco evidenti;
•  sindinamiche: le traiettorie sindinamiche si verificano quando le particelle rilasciate in tempi diversi seguono percorsi molto curvi.

A causa dei molteplici effetti appena esposti possiamo affermare che le comete possiedono numerose “code”, diverse per composizione strutturale, forma e caratteristiche fisiche.

codeSino al 1997 si credeva che questi corpi potevano generare al massimo due code ben distinte, la coda di polvere e la coda di ioni, finché Gabriele Cremonese dell’Osservatorio Astronomico di Padova, analizzando le immagini della cometa Hale-Bopp, scoprì l’esistenza di una terza coda costituita da atomi di sodio neutro. Questa scoperta è stata ulteriormente ampliata da un’altra, avvenuta nel 2006, ad opera del satellite per osservazioni solari STEREO che ha evidenziato nella cometa McNaught la presenza di una debole coda di atomi di ferro neutri.

 Ciò porta il totale delle possibili “code” a quattro: coda di polveri, coda di ioni, coda di sodio e coda di ferro.

Ovviamente non tutte le comete sviluppano necessariamente tutte le code al passaggio al perielio in quanto esse sono strettamente legate alla composizione e alla grandezza del corpo.

L’indice Af[rho] delle comete

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C/2012 S1 (ISON)  fotografata dall'astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

C/2012 S1 (ISON) fotografata dall’astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

La luminosità di ogni cometa aumenta quanto più questa si avvicina al Sole in proporzione al degassamento e vaporizzazione dei suoi componenti volatili. Per questo seguendone l’evoluzione nel tempo e confrontandola con la sua orbita, si possono ragionevolmente stilare delle previsioni.

Per esempio si possono confrontare i dati attuali della C/2012 (ISON) con quelli di altre comete del passato e provare a fare delle inferenze circa il suo comportamento attuale e futuro. Per questo viene usato un indice molto particolare e sconosciuto ai più che consente di studiare meglio il comportamento e l’evoluzione nel tempo di una cometa.
Questo indice si chiama $Af\rho$, detto anche Af[rho] 1 e prende in considerazione l’albedo $A$ 2, il rapporto fra la superficie occupata dalle polveri e l’area di campo osservata detto fattore di riempimento (filling factor in inglese) $f$ 3 4 e $rho$ è semplicemente la distanza dal nucleo presa in considerazione sulla lastra (immagine) 5.

L’equazione completa è:

\[

Af\left [ \rho \right ]={\frac{\left(2\Delta R\right )^2}{\rho}}{\frac{F_{com}}{F_{sole}}}

\]
Afρ

Qui $\Delta$ è la distanza geocentrica della cometa in esame (di solito espressa in centimetri), R è la distanza eliocentrica della cometa(di solito espressa in unità astronomiche), $F_{com}$ è il flusso della luce riflessa dalla cometa e $F_{sole}$ è il flusso di radiazione solare a 1 UA 6.
In pratica la quantità $Af\rho$ definisce l’altezza di un cilindro di superficie di base equivalente alla proiezione dell’apertura fotometrica riempita con i grani di polvere. Un valore di $Af\rho$ di 100 centimetri equivale più o meno a 100 chilogrammi di polvere prodotta per secondo.


Note:

Il Canto delle Stelle

“Quid?, hic – inquam – quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?” “Hic est – inquit – ille, qui intervallis coinunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent. (Somnium Scipionis, 18)
“Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?” “È il suono”, rispose, “che sull’accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l’una, acuti l’altra”.

Nella teoria pitagorica, il tessuto dell’Universo era composto da ritmi, numeri e proporzioni. Secondo il filosofo GiamblicoPitagora possedeva il dono di udire l’armonia musicale 1 degli astri 2. Pitagora fu colpito dalla proporzionalità matematica delle note emesse da una corda in vibrazione e la sua lunghezza 3, e si convinse che la stessa armonia governava le leggi cosmiche. Fino alla rivoluzione copernicana, filosofi e scienziati hanno speculato sulle proprietà matematiche dei sette pianeti allora conosciuti 4 associando ad essi una diversa nota musicale 5.

Con l’avvento della scienza moderna, la rivoluzione copernicana e il Metodo Sperimentale di Galileo, tutte le elucubrazioni filosofiche sulla musica delle sfere finirono. Finalmente fu compresa la reale natura del suono 6 e leggi della sua propagazione.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore (li costruivo a 14 anni).  Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore radio (li costruivo a 14 anni). Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

E con Maxwell e l’elettromagnetismo si scoprì che alcuni fenomeni piuttosto comuni (la luce, il magnetismo e l’elettricità) erano diversi aspetti di un’unica cosa: la radiazione elettromagnetica. Questo aprì la strada alle invenzioni che avrebbero cambiato gli ultimi cento anni: il telefono e la radio. Queste invenzioni si basano sulla capacità di trasportare informazioni a bassa frequenza (audio e/o video) su un segnale elettromagnetico ad alta frequenza che si propaga a grande distanza senza un qualsiasi mezzo apparente che ne faccia da tramite 7.

Nel 1930 l’ingegnere della Bell Telephone Company Karl Jansky scoprì le emissioni radio provenienti dal centro della Via Lattea e in seguito molti altri continuarono le sue ricerche. A parte l’intervallo della Seconda Guerra Mondiale che assorbì quasi tutte le risorse economiche e molti scienziati nella guerra, le ricerche sui segnali radio extraterrestri continuarono. Anzi, molte scoperte e invenzioni fatte proprio durante il conflitto (il radar, i computer e l’ingegneria elettronica) furono fondamentali per lo sviluppo della nuova branca scientifica chiamata radioastronomia.

Adesso finalmente riusciamo a sentire il Canto delle Stelle.


Note:

Addio Margherita Hack, L’ Amica delle Stelle

Ho avuto modo di vedere Margherita Hack solo una volta, ad una conferenza organizzata dal locale circolo astrofilo (Unione Astrofili Senesi) sulla genesi stellare molti anni fa.
Sotto la semplicità della sua persona e l”inconfondibile accento toscano che le faceva da contorno, mi colpì il suo intelletto, capace di esporre argomenti difficilissimi con parole semplici, proprio come lei.
Non ho proprio parole per esprimere il vuoto che mi lascia dentro, così prendo in prestito le parole che Sabrina Masiero ha appena pubblicato sul suo Blog TuttiDentro.

Umberto Genovese

Margherita Hack

Margherita Hack, la grande astrofisica italiana, ci ha lasciati questa notte. Fonte Wise Society: http://wisesociety.it/wise-people/margherita-hack/

Doloroso per me scrivere questo addio ad una Grande Donna, Grande Scienziata, Grande protagonista della ricerca italiana degli ultimi settant’anni. Per me non è un vero Addio, è soltanto un GRAZIE PROFONDO PER QUANTO HA ISPIRATO LA MIA VITA E QUELLA DI MIGLIAIA E MIGLIAIA DI PERSONE.

Margherita, così voleva essere chiamata. Semplicemente Margherita. Anche se non sono mai riuscita a chiamarla così. Mi sfuggiva il Professoressa, per rispetto, per sincera ammirazione e grande orgoglio personale.

Il primo libro dove capii che il nostro Sole era una stella, la più vicina a noi, fu da un suo libro. Avevo una decina di anni. E così, dalle sue parole iniziai a sognare anch’io mondi lontani fino a trasformare quella passione in vero e proprio lavoro.

Sono stata fortunata ad incontrarla e a stare in sua compagnia per qualche ora al di là delle telecamere, al di là degli eventi pubblici. Diceva:

«Il compito della scienza è cercare di capire quali siano le leggi che regolano l’Universo senza ricorrere a Dio. Altrimenti sarebbe come se Dio ci desse da fare le parole crociate che tanto poi, se non si fanno, ce le spiega lui. »

Margherita Hack

Margherita Tino ed io

Margherita Hack firma autografi alla fine della Conferenza tenuta a Santa Maria di Sala il 13 marzo 2010 organizzata dal Gruppo Astrofili Salese Galileo Galilei di S. Maria di Sala, Venezia in occasione della XIII Mostra di Astronomia. Alla sinistra, il Presidente del Gruppo Astrofili, Tino Testolina, alla destra la sottoscritta. E’ stato un incontro indimenticabile per me. Crediti: S. Masiero.

Margherita Hack e il ciclismo

Margherita Hack e il suo grande amore per la bicicletta.
Crediti :http://bicisnob.wordpress.com/tag/margherita-hack/
Fonte immagine:http://bicisnob.files.wordpress.com/2012/02/hack-salvaiclisti.jpg?w=1014 .

Riguardo alle opportunità che ha avuto nella vita, se ha avuto le stesse oppurtunità di un uomo o meno, Margherita risponde:

Margherita Hack 2

Citazione di Margherita Hack e fotografia tratte da Venity Fair. Crediti: VanityFair.it –http://www.vanityfair.it/news/italia/12/10/30/margherita-hack-per-fortuna-sono-stata-choosy .

«Io problemi non ne ho mai avuti. Molto dipende anche dalle donne, che spesso sono complessate. Sono state educate fin da bambine a considerarsi diverse dagli uomini. Conosco parecchie coppie in ambito scientifico, marito e moglie che lavorano insieme. Spesso la donna è l’elemento trainante, ma quando si tratta di presentare un lavoro a un congresso mandano avanti lui. Sono poco combattive. A me ha aiutato lo sport. Impari a voler vincere». 

Margherita Hack.

Margherita_Hack

Fonte AfNews: http://www.afnews.info/wordpress/category/afnewskids/page/11/ . Fumetto-intervista di Valentina Camerini, pubblicata su Topolino 2854, disegnata da Paolo Mottura. Sito web: http://www.afnews.info/wordpress/2010/08/lalieno-casalingo-di-margherita-hack/

Nell’arte, vi suggerisco questo link dove potete trovare un olio su tela meraviglioso realizzato da Mauro Baroncini:  http://maurobaronciniarte.blogspot.it/2013/01/io-e-le-stelle-margherita-hack-olio-su.html .

Margherita ha ispirato tutti gli ambiti del sapere umano. Ci lascia un grande patrimonio culturale e una grande umiltà.

MargheritaHack_1

Margherita Kack a Padova, RadioOndaUno trasmette la diretta http://tuttidentro.wordpress.com/2012/08/02/margherita-hack-a-padova-radioondauno-trasmette-la-diretta/

Questo è stata l’ultima occasione in cui ho potuto parlare con Margherita. Intervenuta ad una conferenza tra Scienza e Fede, la sua dolcezza e il suo grande pensiero sono stati  strepitosi. 7 giugno 2012, Padova, Caffè Pedrocchi. Ringrazio Massimo Lombardi di RadioOndaUno per aver mandato in onda la diretta della presentazione e per avermi invitata.

Grazie, Margherita.

 


Altre informazioni disponibili su TuttiDentro dedicate a Margherita Hack:

Margherita, la stella più luminosa del nostro cielo:http://tuttidentro.wordpress.com/2010/03/14/margherita-la-stella-piu-luminosa-del-nostro-cielo/

Così parlano le stelle, così parla Margherita Hack:http://tuttidentro.wordpress.com/2010/03/12/cosi-parlano-le-stelle-cosi-parla-margherita-hack/

Margherita Hack al Caffè Pedrocchi a Padova:http://tuttidentro.wordpress.com/2012/06/07/margherita-hack-al-caffe-pedrocchi-di-padova/

Post inizialmente apparso su http://tuttidentro.wordpress.com/2013/06/29/addio-margherita-hack-l-amica-delle-stelle/

La genesi delle atmosfere planetarie

Nello scorso articolo ho mostrato come lo spessore di una atmosfera planetaria sia sostanzialmente il risultato di un compromesso tra due forze opposte: la velocità di fuga e la velocità molecolare dei gas che la compongono. Ma per comprendere questa componente essenziale di un pianeta occorre capire come si forma.

In questa immagine del 2007 ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale si può vedere un riflesso del Sole sull'Oceano Pacifico. Questo è quello che gli astronomi tentano di rilevare. Credit: NASA

Questa immagine è stata ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale nel 2007 e mostra parte dell’Oceano Pacifico. Le nubi e l’acqua liquida rendono questo pianeta perfetto per ospitare la vita. Credit: NASA

Una atmosfera planetaria è governata principalmente da due forze contrapposte. Il risultato finale è una stratificazione dei gas che la compongono: gli elementi più pesanti e lenti occupano gli strati inferiori, contribuendo così in maniera determinante alla composizione chimica dell’atmosfera al suolo mentre quelli più leggeri – e veloci – determinano la chimica degli strati superiori.

Però purtroppo questi indizi di per sé importanti non dicono poi molto sulla composizione chimica finale che dovremmo aspettarci in un pianeta. Per quello, per ora, l’unico modo che abbiamo per cercare di capire la composizione di un’atmosfera è quella di rifarsi alla storia del nostro Sistema Solare e alle teorie più accreditate sulla formazione dei sistemi planetari 1.

La cattura nebulare

I pianeti rocciosi del nostro Sistema Solare si formarono in una zona densa e calda (circa 700-1000 Kelvin) del disco protoplanetario 2, ricca di elementi chimici pesanti – ne è la prova la densità media dei pianeti stessi – e piuttosto povera di quelli più leggeri 3. Questo significa che di elementi e composti gassosi sopravvissuti alla fase di formazione planetaria ce n’erano davvero ben pochi e le primitive atmosfere composte prevalentemente da idrogeno scomparvero appena il Sole iniziò a brillare quasi 5 miliardi di anni fa. Queste tenui atmosfere vennero spazzate via dal vento stellare che ripulì – e raffreddò – l’appena nato sistema planetario, mentre i precursori degli attuali pianeti continuarono a raccogliere i grumi di materia ormai solida che incontravano durante la loro orbita. Quei grumi, conosciuti come materiale asteroidale, ogni tanto giungono ancora oggi sulla Terra e li chiamiamo meteoriti.

Il degasaggio durante l’accrezione

Questo meccanismo è una via di mezzo tra la cattura nebulare e il degassamento tettonico. La cattura dei corpi minori che si erano solidificati dopo l’accensione della stella da parte dei protopianeti maggiori, continuò per svariati milioni di anni, seppur in maniera decrescente con l’andar del tempo 4.
Molti di questi corpi avevano incorporato e protetto dalla radiazione stellare parte del gas nebulare, altri avevano incorporato alcuni composti particolarmente volatili come ioni ossidrili (OH), acqua, carbonio, zolfo e cloro nella loro struttura chimica, altri ancora potevano aver intrappolato i composti volatili con entrambi questi metodi.
Questi corpi una volta catturati dai protopianeti avrebbero potuto liberare parte o tutto il materiale più volatile in loro possesso dando luogo a una primitiva atmosfera.

Il degassamento tettonico

I pianeti appena formati erano molto caldi, oltre il punto di fusione delle rocce. Questo era dovuto principalmente sia al continuo impatto dei corpi minori sulla loro superficie, che ai fenomeni di decadimento radioattivo degli isotopi pesanti che i pianeti avevano catturato durante il loro processo di formazione. Iniziò quindi un processo di differenziazione planetaria che portò alla separazione degli elementi chimici più pesanti da quelli più leggeri 5 e all’avvio di imponenti fenomeni tettonici che liberarono enormi quantità di gas come vapore acqueo, anidride carbonica, idrogeno, acido cloridrico, ossido di carbonio, zolfo e azoto, molto simili ai gas che ancora oggi i vulcani terrestri ancora emettono.

Nel Sistema Solare

Diagramma di fase dell'acqua. La possibilità dell'acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali. Fonte dell'immagine: Wikipedia.

Diagramma di fase dell’acqua.
La possibilità dell’acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali.
Fonte dell’immagine: Wikipedia.

Restando all’interno del Sistema Solare, Mercurio, che oltre ad essere il più piccolo pianeta roccioso del sistema, è anche il più vicino al Sole e ha la densità più alta di tutti: 5,43 g/c3. Non possiede una  atmosfera imponente come Venere e Terra, ma neppure come Marte che, nonostante sia il doppio come dimensioni, ha una gravità superficiale – e quindi una velocità di fuga – molto simile. Infatti la pressione superficiale al suolo di Mercurio è appena 10-15 bar, mentre quella di Marte è ben più importante: 0,006 bar!
Venere e Terra sono molto simili come dimensioni, massa e densità. Eppure Venere ha una gigantesca atmosfera ipersatura di anidride carbonica mentre la Terra, fortunatamente per noi ora, no. Venere è più vicina al Sole e il suo periodo di rotazione è ora di oltre 116 giorni terrestri. Sicuramente questo non è stato sempre così, la possente atmosfera e l’azione mareale del Sole su di essa hanno agito da freno sul pianeta. Su Venere l’acqua che veniva rilasciata dai fenomeni tettonici e quella catturata dalle comete non è riuscita a liquefarsi e a catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera facendola precipitare come carbonato sul fondo degli oceani. Niente acqua liquida alla superficie vuol dire che anche l’attività di subduzione si è progressivamente fermata. Questo significa che anche il ciclo di trasporto del carbonio nel mantello del pianeta si è fermato e il calore interno adesso viene trasportato solo da fenomeni parossistici di vulcanismo che rilascia ancora ingenti quantità di altri gas serra come anidride carbonica e vapore acqueo rimasti intrappolati nel mantello dal tempo della sua formazione. Ecco perché Venere ha una atmosfera composta perlopiù da anidride carbonica (il 95%) all’incredibile pressione di 92 bar e a circa 730 Kelvin di temperatura al suolo!
Per la Terra non ho molto da dire, ho già descritto la storia della sua atmosfera in passato 6, senonché la maggiore distanza dal Sole ha permesso qui all’acqua di liquefarsi e di sottrarre l’anidride carbonica dall’aria. L’acqua liquida è arrivata fino alla parte superiore del mantello dove ha così potuto mantenere attiva la dinamica della tettonica a zolle che ha dissipato buona parte dell’energia dovuta al calore interno del pianeta che così non è finita ad alimentare un grande vulcanismo come quello venusiano. In più non dimentichiamo l’importante ruolo che ha svolto la Luna sull’evoluzione della nostra atmosfera. Infatti la Terra è l’unico pianeta roccioso del Sistema Solare ad avere un imponente satellite – Phobos e Deimos di Marte sono solo due asteroidi catturati dal Pianeta Rosso per caso. La Luna ha stabilizzato il piano di rotazione della Terra come se l’intero sistema Terra-Luna fosse un enorme giroscopio, impedendo così all’azione mareale del Sole di dominare la rotazione del nostro pianeta  – come è invece successo a Venere – e al contempo ha sottratto tanta atmosfera proprio con le sua forza di marea. Il risultato è stata una atmosfera un po’ più sottile, una rotazione più stabile e anche il meccanismo della tettonica a zolle si è giovato della forza mareale lunare. Che dalla Sorella Luna forse sia dipesa l’abitabilità – per noi terrestri -di questo mondo probabilmente è un dato di fatto.

Su Marte e la sua atmosfera ho parlato qualche giorno fa, quindi ho poco altro da aggiungere. Marte è troppo piccolo per trattenere una atmosfera apprezzabile, appena 6 millesimi di bar al suolo. Forse però in passato grazie alla sua primordiale attività geologica che ci ha lasciato imponenti edifici vulcani ha potuto pompare abbastanza gas serra per mantenere per un breve periodo – forse qualche centinaio di milioni di anni – l’acqua allo stato liquido. Forse questo breve periodo ha visto nascere la Vita sul Pianeta Rosso, o forse no. Sulla Terra sono passati almeno 600 milioni o forse più prima che le prime forme di vita procariotiche si sviluppassero; e la Terra aveva sicuramente qualche carta in più da giocare rispetto a Marte.

Adesso sappiamo anche come si forma l’atmosfera di un pianeta roccioso, manca ancora cosa aspettarci a grandi linee sulla sua composizione, ma di questo ne parlerò prossimamente. Restate all’erta!


Lo spessore delle atmosfere planetarie

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In questi giorni sto ricevendo un sacco di complimenti e messaggi di incoraggiamento per questo Blog. Purtroppo adesso ho pochissimo tempo da dedicare alla ricerca e allo studio, e rispondere alla decine dei vostri messaggi richiede proprio quello che non ho. 
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La gravità è importante per trattenere una atmosfera. Per contro la temperatura svolge un ruolo altrettanto importante nel senso opposto. Credit: Il Poliedrico

La gravità è importante per trattenere una atmosfera. Per contro la temperatura svolge un ruolo altrettanto importante nel senso opposto.
Credit: Il Poliedrico

Quando si parla di esopianeti, di possibili altre forme di Vita e così via, diamo spesso per scontato troppe cose, come una atmosfera, che invece copre un ruolo molto importante nella dinamica di un pianeta.
Questa infatti offre scudo alle radiazioni ionizzanti provenienti dalla stella, protegge il suolo dai meteoriti più piccoli e infine modella la superficie del pianeta. Ma è anche un eccellente termoregolatore e la sua pressione al suolo favorisce o meno la presenza di acqua allo stato liquido 1.

Lo spessore di una atmosfera è deciso fondamentalmente dall’equilibrio tra la velocità di fuga di un pianeta e la sua temperatura. Un piccolo pianeta – come ad esempio è Marte – non possiede una gravità così alta da mantenere una atmosfera così spessa come la Terra.
La temperatura media dell’atmosfera stabilisce la velocità delle sue molecole: più sale la temperatura e più queste sono veloci. Se la velocità di una molecola supera la velocità di fuga, questa si disperderà nello spazio, mentre una più bassa temperatura dell’atmosfera tratterrà più molecole.
La regola – empirica – generale è che  se la velocità media di un gas è inferiore a 2 decimi della velocità di fuga almeno la metà sarà ancora trattenuto dal pianeta dopo un miliardo di anni, mentre se la velocità media supera questo valore almeno la metà abbandonerà il pianeta entro lo stesso arco di tempo 2.

Velocità  di fuga

La velocità di fuga 3 di un pianeta è abbastanza semplice da calcolarsi: $v_{fuga} = \sqrt {\frac{2Gm_{pianeta}}{distanza}}$, dove G è la Costante di Gravitazione Universale di Newton e la distanza è intesa come la distanza di un corpo dal centro di massa del pianeta. Per questo una molecola a 10 chilometri di quota potrà disporre di una velocità di fuga lievemente più bassa di una al livello del suolo.  Può sembrare poco ma a volte anche questo è significativo.

Temperatura

La velocità molecolare è funzione della loro temperatura. Credit: Il Poliedrico

La velocità molecolare è funzione della loro temperatura come conseguenza delle Leggi di Moto di Newton.
Credit: Il Poliedrico

La temperatura di un qualsiasi corpo non è altro che la misura del movimento – energia cinetica – delle sue molecole. Le molecole di un gas caldo si muovono più velocemente dello stesso gas freddo. Se questo gas viene raffreddato ulteriormente, acquista prima forma liquida e poi solida – transizione di fase. Allo stesso modo, un corpo solido se riscaldato a sufficienza diviene liquido e poi gas.
La relazione che lega la velocità molecolare con la temperatura è: $t=\frac{\left(m_{molecola} \cdot \bar{v}_{molecola}\right)^2}{3k_B}$, dove $k_B$ è la costante di Boltzmann 4, che vale $1,38 \cdot{10^{-23}} JK^{-1}$.
La velocità media di una molecola – o di un atomo – a una certa temperatura $t$ quindi è: $\bar{v}=\sqrt {\frac {3k_B \cdot t}{m_{molecola}}}$.
Ecco spiegato perché le molecole più pesanti a parità di temperatura si muovono più lentamente. Tra l’altro questa informazione aiuta a interpretare la composizione chimica di una atmosfera in base alla massa del pianeta e la sua distanza dalla stella: ad esempio un piccolo pianeta vicino alla sua stella -come Mercurio – potrà trattenere solo le molecole e gli atomi più pesanti 5, mentre pianeti più massicci e distanti possono trattenere un’atmosfera più spessa e composta da elementi più leggeri.


La Zona Circumstellare Abitabile delle altre stelle

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Umby

Abbiamo visto nello scorso articolo 1 come si quantifica in linea di massima la Zona Circumstellare Abitabile del Sole, un passaggio importante, se non obbligato, per comprenderne il significato.  Ma come si stima una Zona Goldilocks attorno ad un’altra stella?
In realtà è molto più semplice di quanto si pensi, bastano le quattro operazioni elementari, sapere cosa siano la radice quadrata di un numero e un logaritmo, e un po’ di pazienza.

Innanzitutto occorre stimare quanta energia emette una stella, cosa non poi così difficile come può sembrare.
Si parte calcolando la magnitudine assoluta 2 della stella in esame.
L’equazione nuda e cruda che lega la luminosità apparente e la luminosità assoluta è questa:
\[

M_v = m_v – 5 * \log{\left(\frac{D}{10}\right)}

\]

dove $M_v$ e $m_v$ sono le magnitudini visuali, cioè come sono percepite le luminosità dall’occhio umano 3, mentre D è la distanza espressa in parsec (3,26 anni luce).
Detta così dice poco, ma per fare un esempio prendiamo il nostro Sole, la cui magnitudine apparente è di -26,75 e distante 0,000004848137 parsec:
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,000004848137/10\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * \log{\left(0,00004848137\right)}
\]
\[
Mv = -26,75 – 5 * -6,31442
\]
\[
Mv = -26,75 –31,57212
\]
\[
Mv = 4,82212
\]

mica è difficile!

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Ma purtroppo la magnitudine assoluta calcolata si riferisce solo alla luce visibile così come noi la percepiamo, mentre le stelle emettono energia in uno spettro infinitamente più ampio che dipende dalla loro temperatura superficiale 4.
Allora perché si riesca a tenere conto di tutta l’energia emessa da una stella occorre correggere il dato visuale di conseguenza. Il primo passo consiste nell’applicare la Correzione Bolometrica ($BC$) da cui poi si giunge alla luminosità assoluta:
\[
M_{bol} = M_v + BC
\]

Dove $M_{bol}$ è la magnitudine bolometrica assoluta, $M_v$ come sopra e $BC$ la costante di correzione bolometrica (in linea di massima possiamo usare i valori della tabella qui accanto).
Sempre riferendosi alla nostra stella il valore di $BC$ è -0,08, per cui sviluppando l’equazione precedente abbiamo:
\[
M_{bol} = 4,82 + -0,08 = 4,74
\]

che è appunto la magnitudine bolometrica assoluta del Sole.
Ora trasformiamo la magnitudine bolometrica assoluta ricavata sopra  in unità solari per maggiore praticità e comprensione. In questo modo la Fascia Goldilocks ci verrà restituita in unità astronomiche.
\[
\frac{L_{Stella}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{M_{bolStella} – M_{bolSole}}{-5}\right]}
\]

Per il Sole questo rapporto è ovviamente 1 , ma vedremo presto come si applica alle altre stelle.
Un ottimo metodo di calcolo della CHZ fu messo a punto da Daniel Whitmire, James Kasting e Ray Reynolds nel 1992 e poi rivisto negli anni successivi. Questo studio tiene conto di diversi parametri come la chimica atmosferica, l’albedo etc., si riassume in due costanti che, usate ai denominatori di queste equazioni, restituiscono una stima abbastanza affidabile delle dimensioni della Zona Goldilocks per le varie stelle espresse in UA:

\[

r_{i} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{1,1}}  \Longleftrightarrow r_{o} =\sqrt {\frac{L_{stella}}{0,53}}

\]

Il raggio limite interno che rappresenta il confine più caldo è dato dalla prima equazione nel valore di $r_i$, mentre il limite più esterno e più freddo è dato dalla seconda in $r_o$.
Se provassimo ad applicarlo per il Sistema Solare, allora avremmo $r_i=\sqrt{1/1,1}=0,95$ e $r_o=\sqrt{1/0,53}=1,37$, un po’ diversi da quelli del precedente articolo che non teneva assolutamente conto dell’albedo e dell’atmosfera, ma non poi così tanto.

Adesso proviamo un esempio pratico. è notizia di questi giorni che sia stato trovato un sistema planetario attorno alla stella $\tau$ Ceti 5, una delle stelle a noi più più vicine, solo 11,89 anni luce e di $m_v$ 3,50 6.

\[
M_v=3,5 -5 * log{\left(\frac{\left(11,89/3,26\right)}{10}\right)} = 3,5 – -2,19 = 5,69
\]
\[
M_{bol}=5,69+(BC=-0,21) = 5,48
\]
\[
\frac{L_{\tau Ceti}}{L_{Sole}} = 100^{\left[\frac{5,48 – 4,79}{-5}\right]}\approx {0,529}
\]
\[
r_{i_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{1,1}}=0,694   \Longleftrightarrow r_{o_\tau Ceti} =\sqrt {\frac{0,529}{0,53}} =0,999
\]

Anche se questi numeri sono solo indicativi, è interessante vedere come non sia poi così difficile cercare di quantificare una fascia abitabile intorno a una stella. La CHZ per $\tau$ Ceti si estende quindi tra le 0,7 e 1 unità astronomica. Chissà, probabilmente aveva ragione Isaac Asimov, il cielo di Aurora è un più aranciato del nostro.

Riferimenti:
Whitmire, Daniel; Reynolds, Ray, (1996). Circumstellar habitable zones: astronomical considerations. In: Doyle, Laurence (ed.). Circumstellar Habitable Zones, 117-142. Travis House Publications, Menlo Park.