Alla ricerca delle origini della vita

Il bacino del Sudbury in Canada è uno degli ultimi resti dei grandi bombardamenti cometari subiti dalla Terra nella sua infanzia di cui sia rimasta qualche traccia.  Il suo studio è quindi molto importante per capire cosa è davvero successo in quell’epoca così remota e come sia arrivato il nostro pianeta ad ospitare la Vita.

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Credit: NASA & MNDM

Credit: NASA & MNDM

Nella regione dell’Ontario (Canada) esiste un cratere, ormai quasi del tutto eroso dal tempo, vecchio di 1,8 miliardi di anni. Fu una cometa di circa dieci o quindici chilometri a provocarlo, più o meno quanto si pensa che fosse stato il terribile asteroide che si suppone pose fine al dominio dei dinosauri su questo pianeta 65 milioni di anni fa. Perché vi possiate rendere conto delle dimensioni, immaginatelo grande quanto Firenze o Deimos, una luna di Marte.
Un impatto di un corpo simile oggi contro la Terra è molto più remoto che in passato, se dovesse comunque accadere esso segnerebbe la fine della nostra civiltà e probabilmente anche della nostra specie. Ma impatti simili nei primi 500 milioni di anni della Terra quasi sicuramente hanno portato gli ingredienti necessari alla vita e creato le condizioni ambientali adatte perché questa potesse formarsi e prosperare.
La comparsa della vita sulla Terra avvenne circa 3,8 – 3,4 miliardi di anni fa, ossia appena 700 milioni – un miliardo di anni dopo la sua formazione, circa alla fine del periodo conosciuto come Intenso Bombardamento Tardivo. Un periodo forse fin troppo breve per spiegare la formazione di molecole complesse come la glicina, la β-alanina, gli acidi amminobutirrici etc. che si suppone siano state i precursori della vita sul nostro pianeta. Diversi studi [cite]http://www.acs.org/content/acs/en/pressroom/newsreleases/2012/march/new-evidence-that-comets-deposited-building-blocks-of-life-on-primordial-earth.html[/cite] svolti in passato mostrano come le molecole organiche più semplici che comunemente vengono osservate nelle nubi interstellari possono essere arrivate qui sulla Terra cavalcando le comete senza distruggersi nell’impatto ma altresì trovare in questo l’energia sufficiente per formare strutture organiche , peptidi, ancora più complesse [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/05/aminoacidi-astrostoppisti.html[/cite].

sudbury-impact1Da diverso tempo si sono sostituite le scariche elettriche dei fulmini e delle radiazioni ultraviolette delle teorie di Haldane e di Oparin con fonti energetiche più dolci e continue come le bocche idrotermali oceaniche. Lì metalli come ferro, zinco, zolfo disciolti in un ambiente acquatico ricco di energia non ionizzante, avrebbero avuto modo da fungere da catalizzatori per la creazione di molecole organiche complesse prebiotiche e, in seguito, per la vita. Le ricerche di laboratorio però mostrano che anche i luoghi di impatto cometario possono essere stati luoghi altrettanto interessanti.
Il bacino di Sudbury è ideale per verificare questa ipotesi: l’impatto cometario ha deformato la crosta fino a una profondità di ben sedici chilometri, permettendo così ai minerali di nichel, ferro e zinco di risalire dal mantello. Il cratere, inizialmente inondato dal mare subito dopo l’impatto, è poi rimasto isolato abbastanza a lungo da permettere la formazione di un sedimento spesso un chilometro e mezzo. Per i ricercatori che attualmente stanno studiando questo complesso [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0016703716301661[/cite] l’acqua raccolta nel cratere avrebbe quindi promosso i processi idrotermali non dissimili a quelli che vengono attualmente osservati nelle dorsali oceaniche.

Qui gli ingredienti per la creazione della vita ci sono tutti: molecole organiche semplici che vengono portate sulla Terra da una cometa e che si pensa che possano sopravvivere all’olocausto dell’impatto e trasformarsi in molecole anche più complesse; l’acqua trasportata dalla stessa cometa e dal mantello fessurato; energia prodotta dall’attività idrotermale indotta dall’impatto; metalli e solfuri pronti per fungere da catalizzatori per i processi organici immediatamente disponibili …
Insomma, un mix di condizioni ideali all’abiogenesi iniziale possono essersi create già nei primissimi milioni di anni di vita della Terra.

Alla ricerca di forme di vita evolute: i limiti del Principio di Mediocrità

La vita è poi così comune nell’Universo? Oppure l’Uomo – inteso come forma di vita evoluta – è veramente una rarità nel’infinito cosmo? Forse le risposte a queste domande sono entrambe vere.

16042016-2D68D8DD00000578-0-image-a-23_1459508636554Finora il Principio di Mediocrità scaturito dal pensiero copernicano ci ha aiutati a capire molto del cosmo che ci circonda. L’antico concetto che pone l’Uomo al centro dell’Universo – Principio Antropocentrico – ci ha fatto credere per molti secoli in cosmogonie completamente errate, dalla Terra piatta all’idea di essere al centro dell’Universo, dall’interpretazione del moto dei pianeti alla posizione del sistema solare nella Galassia (quest’ultimo ha resistito fino alla scoperta di Hubble sull’espansione dell’Universo).
Per questo è comprensibile e del tutto legittimo estendere il Principio di Mediocrità anche alla ricerca della vita extraterrestre. Dopotutto nulla vieta che al presentarsi di condizioni naturali favorevoli il fenomeno Vita possa ripetersi anche altrove: dalla chiralità molecolare [cite]http://ilpoliedrico.com/2014/10/omochiralita-quantistica-biologica-e-universalita-della-vita.html[/cite] ai meccanismi che regolano il  funzionamento cellulare sono governate da leggi fisiche che sappiamo essere universali.
Una delle principali premesse che ci si attende da un pianeta capace di sostenere la vita è quello che la sua orbita sia entro i confini della zona Goldilocks, un guscio sferico che circonda una stella (in genere è rappresentato come fascia ma è un concetto improprio) la cui temperatura di equilibrio di radiazione rientri tra il punto di ebollizione e quello di congelamento dell’acqua (273 – 373 Kelvin)  intorno ai 100 kiloPascal di pressione atmosferica; un semplice esempio lo si può trovare anche su questo sito [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/12/la-zona-circumstellare-abitabile-del-sole.html[/cite]. Ci sono anche altri vincoli [cite]http://ilpoliedrico.com/?s=+goldilocks[/cite] ma la presenza di acqua liquida pare essere fondamentale 1.
Anche se pur con tutti questi limiti il Principio di Mediocrità suggerisce che la biologia a base carbonio è estremamente diffusa nell’Universo, e questo non stento a crederlo. Stando alle migliori ipotesi le stelle che possono ospitare una qualche forma di sistema planetario potenzialmente adatto alla vita solo in questa galassia sono almeno 10 miliardi. Sembra un numero considerevole ma non dimentichiamo che la Via Lattea ospita circa 200 miliardi di stelle. quindi si tratta solo una stella su venti.
orologio geologicoMa se questa stima vi fa immaginare che là fuori ci sia una galassia affollata di specie senzienti alla Star Trek probabilmente siete nel torto: la vita per attecchire su un pianeta richiede tempo, molto tempo.
Sulla Terra occorsero almeno un miliardo e mezzo di anni prima che comparissero le prime forme di vita fotosintetiche e le prime forme di vita con nucleo cellulare differenziato dette eukaryoti – la base di quasi tutte le forme di vita più complessa conosciute – apparvero solo due miliardi di anni fa. Per trovare finalmente le forme di vita più complesse e una biodiversità simile all’attuale  sul pianeta Terra bisogna risalire a solo 542 milioni di anni fa, ben poca cosa se paragonati all’età della Terra e del Sistema Solare!

Però, probabilmente, il Principio di Mediocrità finisce qui. La Terra ha una cosa che è ben in evidenza in ogni momento e, forse proprio per questo, la sua importanza è spesso ignorata: la Luna.
Secondo recenti studi [cite]http://goo.gl/JWkxl1[/cite] la Luna è il motore della dinamo naturale che genera il campo magnetico terrestre. L’idea in realtà non è nuova, ha almeno cinquant’anni, però aiuta a comprendere il perché tra i pianeti rocciosi del Sistema Solare la Terra sia l’unico grande pianeta roccioso 2 ad avere un campo magnetico abbastanza potente da deflettere le particelle elettricamente cariche del vento solare e dei raggi cosmici. Questo piccolo particolare ha in realtà una grande influenza sulle condizioni di abitabilità sulla crosta perché ha consentito alla vita di uscire dall’acqua dove sarebbe stata più protetta dalle radiazioni ionizzanti, ha permesso che la crosta stessa fosse abbastanza sottile e fragile da permettere l’esistenza di zolle continentali in movimento – il che consente un efficace meccanismo di rimozione del carbonio dall’atmosfera [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/12/la-caratterizzazione-delle-super-terre-il-ciclo-geologico-del-carbonio.html[/cite][cite]http://ilpoliedrico.com/2013/07/venere-e-terra-gemelli-diversi.html[/cite] – e la stabilizzazione dell’asse terrestre.
In pratica la componente Terra Luna si comporta come Saturno con Encelado e, in misura forse minore, Giove con Europa.
Il gradiente gravitazionale prodotto dai due pianeti deforma i satelliti che così si riscaldano direttamente all’interno. Per questo Encelado mostra un vulcanismo attivo e Europa ha un oceano liquido al suo interno in cui si suppone possa esserci le condizioni ideali per supportare una qualche forma di vita. Nel nostro caso è l’importante massa della Luna che deforma e mantiene fuso il nucleo terrestre tanto da stabilizzare l’asse del pianeta, fargli generare un importante campo magnetico e possedere una tettonica attiva [cite]http://ilpoliedrico.com/2010/11/limportanza-di-un-nucleo-fuso.html[/cite].

Ora, se le nostre teorie sulla genesi lunare sono corrette 3, questo significa che una biologia così varia e complessa come quella sulla Terra è il prodotto di tutta una serie di eventi che inizia con la formazione del Sistema Solare e arriva fino all’Homo Sapiens passando attraverso la formazione del nostro curioso – e prezioso – satellite e le varie estinzioni di massa. Tutto questo la rende molto più rara di quanto suggerisca il Principio di Mediocrità. Beninteso, la Vita in sé è sicuramente un fenomeno abbastanza comune nell’Universo ma una vita biologicamente complessa da dare origine a una specie senziente capace di produrre una civiltà tecnologicamente attiva è probabilmente una vera rarità nel panorama cosmico.

Le quattro fasi che avrebbero portato la Terra ad avere un grande campo magnetico (MFI Moon-forming impact, Impatto che dette origine alla Luna)

Le quattro fasi che avrebbero portato la Terra ad avere un grande campo magnetico (MFI Moon-forming impact, Impatto che dette origine alla Luna)

Analizziamo per un attimo più da vicino il sistema Terra-Luna.
La distanza media tra il centro della Luna e il centro della Terra è di circa 384390 chilometri. Questo varia tra l’apogeo e il perigeo dell’orbita ma sostanzialmente questa è una cosa che non inficia il nostro conto.
Questo significa che nello stesso momento la parte più vicina alla Luna è distante 1,66% in meno della distanza Terra-Luna mentre la sua parte opposta lo è della stessa misura in più; tradotto in numeri la parte rivolta direttamente alla Luna dista dal suo centro 378032 km  mentre la parte più lontana 390774 km. Il 3,32% di discrepanza tra le due facce non pare poi molto, ma significa che se stabiliamo che la forza esercitata gravitazionale dal satellite sulla faccia più vicina fosse pari a 100, la forza esercitata sul lato opposto sarebbe solo del 96,74%. Il risultato è che la faccia rivolta verso la Luna è attratta da questa di più del centro del pianeta e la faccia più lontana ancora di meno, col risultato di deformare la Terra ad ogni rotazione..
Ma anche la Terra esercita la sua influenza sul suo satellite allo stesso modo. Ma essendo la Luna più piccola, anche la caduta gravitazionale tra le due facce è molto più piccola, circa 1,8%. Essendo solo un quarto della Terra ma anche 81 volte meno massiccia la forza di marea esercitata dalla Terra sulla Luna è circa 22 volte dell’opposto.
Mentre la Terra ruota si deforma di circa mezzo metro, la frizione interna spinge la crosta nel sollevarsi e ricadere e, per lo stesso meccanismo si ha produzione di calore nel nocciolo e nel mantello e il più evidente fenomeno di marea sulle grandi masse d’acqua del pianeta. Ma l’effetto mareale combinato con la rotazione terrestre fa in modo che la distribuzione delle masse sia leggermente in avanti rispetto all’asse ideale Terra-Luna. Questo anticipo disperde parte del momento angolare in cambio di un aumento della distanza media tra Terra e Luna. La durata del giorno aumenta così – attualmente – di 1,7 secondi ogni 100 000 anni mentre pian piano la Luna si allontana al ritmo di 3,8 centimetri ogni anno [cite]http://goo.gl/ALyU92[/cite], mentre la frizione mareale indotta restituisce parte del calore che sia il mantello che il nucleo disperdono naturalmente. Questo calore mantiene il nucleo ancora allo stato fuso dopo ben 4,5 miliardi di anni, permettendogli di generare ancora il campo magnetico che protegge la vita sulla superficie.
Ecco perché l’idea dell’unicità della Terra non è poi del tutto così peregrina. Non è un istinto puramente antropocentrico, quanto semmai la necessità di comprendere che la Terra e la Luna sono da studiarsi come parti di un unico un sistema che ha permesso che su questo pianeta emergessero tutte quelle condizioni favorevoli allo sviluppo di vita che poi si è concretizzata in una specie senziente. Queste condizioni avrebbero potuto crearsi altrove – e forse questo è anche avvenuto – invece che qui e allora noi non saremmo ora a parlarne. Ma è questo è quel che è successo e se questa ipotesi fosse vera farebbe di noi come specie senziente una rarità nel panorama cosmico.
Come ebbi a dire in passato, anche se il concetto non è del tutto nuovo, Noi siamo l’Universo che in questo angolo di cosmo ha preso coscienza di sé e che si interroga sulla sua esistenza. Forse questo angolo è più vasto di quanto si voglia pensare; il che ci rende ancora più unici.


Note:

Alla ricerca dei giusti marcatori nei pianeti extrasolari

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Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

L’esistenza di pianeti extrasolari è ormai accertata al di là di ogni ragionevole dubbio.
Strumenti come il satellite Kepler e la spettrometria doppler hanno mostrato che quasi ogni stella dalla classe G in giù [cite]http://ilpoliedrico.com/utility/classificazione-stellare[/cite] accoglie in sé un sistema planetario.
Anche se questa appare già come una grande scoperta dal punto di vista sia scientifico che filosofico, la domanda successiva è: quali di questi pianeti hanno le caratteristiche fisiche adatte per sostenere la vita?
Innanzitutto è necessario che la condizione primaria sia accertata, ovvero che il pianeta extrasolare  orbiti all’interno dell’ecosfera della sua stella (zona Goldilocks) e che quindi riceva la giusta quantità di energia per sostenere l’acqua liquida entro un arco abbastanza ampio di temperature. Questo significa che il pianeta non deve essere troppo piccolo, così da permettere la presenza di una atmosfera abbastanza stabile e densa da consentire la presenza costante di acqua liquida 1. A questo punto non c’è che da sperare di rilevare un pianeta che, avendo tutti i requisiti necessari, sia riuscito a sviluppare la Vita. Al di là del tentativo – per ora infruttuoso – di scovare segnali radio di altre civiltà extraterrestri, non resta che cercare altri segnali che indichino comunque la presenza di Vita. Prendendo l’unico esempio disponibile, cioè la Terra, le firme vitali più evidenti dallo spazio sono quelle d’acqua, dell’ossigeno gassoso nell’atmosfera e della clorofilla.

Confronto fra gli spettri della Terra e  di un gemello Terra convoluta per un dato spec- Risoluzione trale con una funzione di line-spread gaussiana. L'assorbimento di spicco O2  caratteristica a 0,76 micron diventa completamente mescolato con la vicina giochi d'acqua  per R    20, mentre la funzione O3 è ampio e poco profondo, e molto difficile da vedere.

Confronto fra lo spettro terrestre e quello previsto per un ipotetico pianeta gemello della Terra.  La riga di assorbimento dell’ossigeno biatomico (O2) a 0,76 micron viene quasi nascosta dal segnale dell’acqua finché la risoluzione spettrale è piuttosto bassa (R=20); mentre l’ozono (O3) rimane poco visibile a tutte le risoluzioni calcolate.

Timothy Brandt e David Spiegel dell’Institute for Advanced Study della Princeton University nel New Jersey. si sono posti questa domanda e hanno tentato di elaborare l’aspetto della firma biologica che la Vita potrebbe imprimere sullo spettro di un pianeta [cite]http://arxiv.org/abs/1404.5337[/cite].
Questo studio è necessario anche per poter ideare gli strumenti che poi saranno costruiti proprio per questo scopo. E infatti il loro studio ha dato risultati molto importanti.

La molecola di gran lunga più semplice da individuare è quella dell’acqua, anche se per i due ricercatori occorre ancora un potere di contrasto che solo un telescopio fuori dall’atmosfera può ottenere: $1$ su $10^{10}$.
Se il potere risolutivo 2 $R=20$ alle lunghezze d’onda inferiori a 760 nm (0,76 $\mu m$) è  già disponibile con la tecnologia attuale, una risoluzione maggiore (diciamo 700/5 $nm$) necessaria per distinguere correttamente il segnale dell’ossigeno molecolare è ancora al di là del limite strumentale attuale, anche se sicuramente verrà presto raggiunto dalle prossime generazioni di spettrografi. Frequenze assorbimento piante
Molto più difficile invece sarà rintracciare una qualche forma di clorofilla.
I ricercatori indicano una regione intorno a 700 $nm$ chiamata vegetation red edge (SRE), come indicatore importante della presenza di vegetazione. Osservando l’immagine qui a sinistra è evidente che (sulla Terra) tutta l’attività fotosintetica si interrompe bruscamente alla fine dello spettro visibile perché il livello di energia dei fotoni alle lunghezze d’onda più lunghe di circa 700 $nm$ non è più sufficiente per sintetizzare le molecole organiche 3. Qui la vegetazione diventa quasi trasparente nel vicino infrarosso. Questo repentino cambiamento della riflettività può essere stimato tra il 5% e il 50%  tra i 680 e i 730 $nm$.
Anche questo fenomeno, peraltro non riproducibile da nessun altro fenomeno fisico naturale, potrebbe essere un altro interessante indicatore per capire se una qualche forma di vita che faccia ricorso alla fotosintesi sia presente su un esopianeta [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0503302[/cite].

Se prendiamo le tre forme principali della clorofilla (clorofilla A e B, β carotene 4) vediamo che la capacità di assorbire la luce dove anche c’è il picco massimo di assorbimento, intorno ai 400 – 500 $nm$ 5, mentre solo una minuscola parte dello spettro rosso viene coinvolta nel ciclo della fotosintesi.  Nelle piante superiori i pigmenti sono per la maggior parte clorofilla del tipo A e del tipo B.
Le clorofille assorbono la luce rossa e blu e trasmettono e riflettono quella verde, da questo dipende la colorazione della maggior parte delle piante.
Le altre due che ho menzionato nell’immagine, la ficoeritrina 6 e la ficocianina 7 sono solo, come ho spiegato  nelle note, dei pigmenti accessori della Clorofilla A.
Questo fa sì che il meccanismo della fotosintesi, almeno sulla Terra, sia estremamente efficiente nell’intercettare e sfruttare ogni singolo joule di energia luminosa emesso dal Sole nello spettro visibile. Però non sappiamo se un meccanismo simile sia presente e come possa essere strutturato su un altro pianeta, ma è possibile – in linea di massima – immaginarlo.

spettro.coloreLa radiazione emessa da una stella (nel nostro caso il Sole) emette una radiazione approssimata di corpo nero il cui picco è centrato sulla banda visibile dello spettro elettromagnetico. Quindi c’è da aspettarsi che, piuttosto ragionevolmente, questo sia vero anche per le altre stelle.
E siccome il picco di corpo nero varia in funzione della temperatura superficiale della stella, è naturale pensare che su pianeti di altre stelle se mai si fosse sviluppata come la fotosintesi 8 [cite]http://pubs.rsc.org/en/content/articlelanding/2011/nj/c0nj00652a/[/cite], tale processo si sarà ottimizzato proprio per recepire il picco massimo della radiazione incidente alla superficie del pianeta 9  [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0701391[/cite].

A questo punto appare evidente che la ricerca di altre forme di vita su altri pianeti  non è così poi al di fuori della portata , anche strumentale, di quanto si possa credere. Anche le speculazioni, perfino sulle forme di certi processi biologici, su cosa cercare certo non mancano. Magari mi lascia perplesso l’impronta dell’ossigeno, ma questo sarà un tema che verrà affrontato prossimamente.


Note:

Alla ricerca del Santo Graal della fisica: la Gravità Quantistica

Oggi la scienza deve risolvere un grosso problema: esiste una teoria che descrive efficacemente il moto dei pianeti e delle stelle  chiamata Relatività Generale, ed una teoria che descrive altrettanto efficacemente il mondo microscopico chiamata Meccanica Quantistica. Entrambe nel loro raggio d’azione consentono di fare previsioni molto precise ma non possono essere usate contemporaneamente.

È tutta una questione di scala

L'Universo Viene descritto da due grandi teoremi apparentemente in contrasto tra loro. Eppure la sua isotropia e invarianza di scala dovrebbe darci la giusta chiave di lettura.

L’Universo Viene descritto da due grandi teoremi apparentemente in contrasto tra loro.
Eppure la sua isotropia e invarianza di scala dovrebbe darci la giusta chiave di lettura.

La relatività generale ci mostra uno spazio-tempo piatto e liscio, curvato  solo dalla massa e dall’energia degli oggetti che ospita. La meccanica quantistica ci mostra invece un Universo spumeggiante dominato dal Principio di Indeterminazione di Heisenberg. Quale è quindi la vera natura dell’Universo fra queste?
Possiamo immaginarci lo spazio-tempo come il mare visto da un aereo: liscio e piatto, disturbato solo dalle occasionali navi di passaggio. Ma se scendessimo sulla sua superficie, lo vedremmo mosso e spumeggiante, con un certo grado di indeterminazione che potremmo identificare col nostro stato di galleggiamento. Data la sua stazza, una nave non risente di questa incertezza, così come un oggetto macroscopico non risente della spinta indeterministica della meccanica quantistica nello spazio-tempo descritto dalla relatività. Quindi abbiamo due domini ugualmente veri che però non possiamo usare contemporaneamente per descrivere lo stesso fenomeno. Perché?
Occorre una fisica diversa, che sappia descrivere bene sia il macrocosmo relativistico dominato dalla gravità e dalla massa, che il microcosmo quantistico, dominato dal Principio di Indeterminazione. Siccome non avrebbe senso aggiungere incertezza a ciò che si è sempre finora dimostrato esatto, è necessario aggiungere la gravità alla meccanica quantistica.
Ormai è evidente a tutti che il semplice Modello Standard 1 – che non dimentichiamolo, ha saputo fin qui esprimere risultati eccellenti nella fisica delle particelle –  sta  mostrando tutti i suoi limiti alla luce delle nuove scoperte. Adesso è giunto il momento di andare oltre, di proporre una nuova teoria quantistica che aggiunga – e tenga conto – della gravità insieme alle altre tre forze di cui si era occupata finora la meccanica quantistica.

Per i fisici che studiano la materia condensata 2 è tutta una questione di dimensioni.  La descrizione che diamo di un sistema fisico dipende dalla scala in cui osserviamo. Come ho detto prima, da una quota molto alta descriveremmo il mare sotto di noi come una distesa piatta e liscia, mentre nei pressi della superficie magari staremmo assistendo ad un’onda di tsunami.
Il problema della rappresentazione di scala di solito viene risolto facendo uso di un notevole strumento matematico: il gruppo di rinormalizzazione. con questo strumento è possibile descrivere la realtà a diverse scale di interpretazione, un po’ come lo zoom di una fotocamera che permette di cogliere istantanee a scale diverse di ciò che si sta studiando.
Adesso molti ricercatori stanno tentando questa strada per vedere se attraverso i gruppi di rinormalizzazione riescono a includere una gravità coerente con la relatività generale nella meccanica quantistica.

Quella che adesso la relatività generale descrive come una distorsione spazio-temporale dovuta alla massa e che si propaga nello spazio come un’onda alla velocità della luce, forse presto sarà possibile descriverla anche con una teoria di campo che viene mediata da un bosone, proprio come le altre tre forze. Allora sarà un gran giorno per la scienza.


Note:

Gemini Planet Imager: alla ricerca di nuovi pianeti

light scattered by a disk of dust orbiting the young star HR4796A

L’immagine della “prima luce” del Gemini Planet Imager (GPI) della luce scatterata da un disco di polvere che orbita attorno alla giovane stella HR4796A. Si fa l’ipotesi che l’anello piu’ piccolo ed interno sia formato di polvere di origine asteroidale e cometaria durante la formazione planetaria, quelli che vengono definiti planetesimi. Alcuni scienziati hanno anche ipotizzato che il bordo ben definito dell’anerllo sia dato dalla presenza di un pianeta (ancora non individuato). L’immagine di sinistra (1,9-2,1 micron) mostra la luce nel visibile tra cui entrambi gli anelli di polvere e la luce residua dalla stella centrale scatterata dalla turbolenza dell’atmosfera terrestre. L’immagine di destra mostra solo la luce polarizzata. La luce dal bordo posteriore del disco e’ fortemente polarizzata in quando viene scatterata verso di noi. Immagine in grandi dimensioni disponibile qui . Crediti: Processing by Marshall Perrin, Space Telescope Science Institute.

 

 

Dopo quasi un decennio di sviluppo, costruzione e di collaudi lo strumento piu’ sofisticato al mondo per il direct imaging (immagine diretta) e per lo studio di pianeti extrasolari attorno ad altre stelle viene puntato verso il cielo per raccogliere e studiare la luce di questi mondi lontani.

Lo strumento, denominato Gemini Planet Imager (GPI) e’ stato progettato, costruito e ottimizzato per l’imaging di pianeti deboli attorno a stelle molto brillanti e per analizzarne le loro atmosfere. Sara’ pure un ottimo strumento per studiare i dischi di formazione planetaria ricchi di polvere intorno a giovani stelle. E’ lo strumento piu’ avanzato del suo genere che viene montato su uno dei telescopi piu’ grandi al mondo, il Gemini South Telescope di 8 metri, in Cile.

“Le immagini della prima luce del telescopio sono almeno un fattore 10 migliori di quelle degli strumenti di generazione precedente. In un minuto osserviamo pianeti per i quali di solito ci si impiega un’ora per la loro rivelazione” ha affermato Bruce Macintosh del lawrence Kivermore National Laboratory che ha guidato il team dei costruttori dello strumento.

GPI rivela la radiazione infrarossa dai giovani pianeti di tipo gioviano che orbitano a grande distanza dalla stella madre (e quindi hanno orbite piuttosto ampie), quelli che possono essere confrontati con i pianeti giganti gassosi nel nostro Sistema Solare non molto tempo dopo la loro formazione. Ogni pianeta che GPI osserva puo’ venir studiato in grande dettaglio.

“La maggior parte dei pianeti che oggi conosciamo sono noti grazie ai metodi indiretti che ci permettono di dire se c’e’ o meno un pianeta, ci permettono di dire qualcosa sulla sua orbita e sulla massa, ma non molto di piu'” ha affermato Macintosh. “Con GPI fotografiamo direttamente i pianeti attorno alle loro stelle – e’ un po’ come essere in grado di sezionare il sistema e di scavare dentro alle caratteristiche dell’atmosfera del pianeta”.

GPI ha compiuto le sue prime osservazioni lo scorso novembre, durante un debutto senza problemi. Si tratta di uno straordinario e complesso strumento astronomico delle dimensioni di una piccola automobile. “Questa e’ stata una delle run di prima luce piu’ lisce che abbia mai visto” ha affermato Stephen Goodsell, che gestisce il progetto per l’osservatorio.

Per le prime osservazioni di GPI il team di ricercatori ha preso come target dei sistemi planetari ben noti, tra cui il sistema di Beta Pictoris. GPI ha ottenuto il primo spettro del giovane pianeta, Beta Pictoris b. Allo stesso e’ stato utilizzato il modo di polarizzazione dello strumento, che permette di rilevare la luce della stella scatterata da particelle sottile, per studiare l’anello debole di polvere che orbita attorno alla giovane stella HR4796A. Con la strumentazione precedente era stato possibile osservare solo i bordi di questo anelli di polvere, che potrebbero essere i detriti che rimangono dalla formazione planetaria, con con questo numero strumento si puo’ osservare l’intera circonferenza dell’anello.

Anche se GPI e’ stato progettato per l’osservazione di pianeti lontani, e’ possibile utilizzarlo per osservare oggetti nel nostro Sistema Solare, e quindi molto vicini.

Europa_Gemini Planet Imager

Confronto di Europa osservato con il Gemini Planet Imager nella banda K1 a destra e immagine composita ottenuta dalla Galileo SSI e Voyager 1 e 2 (USGS), sulla sinistra. Sebbene GPI non sia stato progettato per oggetti estesi come un satellite, le sue osservazioni potrebbero aiutare nel trovare delle alterazioni superficiali dei satelliti gioviani ghiacciati oppure fenomeni atmosferici (come la formazione di nubi) sulla luna di Saturno, Titano. L’immagine nel vicino infrarosso a colori di GPI e’ una combinazione di tre differenti lunghezze d’onda. Crediti: Processing by Marshall Perrin, Space Telescope Science Institute and Franck Marchis SETI Institute.

Le immagini test della luna Europa di Giove, per esempio, possono permettere di mappare i cambiamenti della composizione superficiale del satellite. Le immagini qui sotto sono state presentate per la prima volta durante il 22esimo Meeting dell’American Astronomical Society a Washington DC.

“Osservare un pianeta vicino ad una stella in appena un minuto e’ sicuramente da brivido e l’abbiamo visto dopo una sola settimana che lo strumento e’ stato posizionato sul telescopio” ha affermato Fredrik Rantakyro, scienziato che fa parte dello staff di Gemini e che lavora sullo strumento. “Immaginate cosa sara’ in grado di fare questo strumento una volta che avremo completato e ottimizzato le sue prestazioni”.

“I pianeti extrrasolari sono estremamente deboli e difficili da rilevare accanto ad una stella luminosa” ha notato il Professor James R. Graham, Chied Scientist Professor dell’Universit’ della California che ha lavorato con Macintosh sin dall’inizio del progetto. GPI puo’ vedere i pianeti che hanno una luminosita’  un milione di volte piu’ debole di quella della loro stella. Spesso si descrive questo fenomeno come l’osservare una lucciola volteggiare attorno ad un lampione a migliaia di chilometri di distanza dall’osservatore. Gli strumenti utilizzati per individuare gli esopianeti devono essere progettati e costruiti con estrema precisione. GPI rappresenta un risultato tecnico estremamente incredibile per il team internazionale di ricercatori che hanno ideato, progettato e costruito lo strumento. Notevoli sono anche le capacita’ del telescopio Gemini.

Dopo anni di sviluppo e di test di simulazione e’ sicuramente uno dei traguardi piu’ ambiziosi nello studio della ricerca di esopianeti. Quest’anno il team di GPI iniziera’ una survey a grande campo considerando ben 600 stelle giovani alla ricerca di quanti pianeti giganti orbitano attorno ad esse. GPI verra’ utilizzato anche per altri progetti all’interno della comunita’ Gemini, progetti che vanno dalla formazione di dischi planetari all’emissione di polvere da stelle massicce nelle loro fasi finali evolutive.

GPI scruta il cielo attraverso l’atmosfera terrrestre e quindi attraverso la turbolenza atmosferica del nostro pianeta, ma grazie all’ottica adattiva avanzata lo strumento sara’ in grado di vedere pianeti delle dimensioni di Giove. Una simile tecnologia sta per essere proposta anche per i futuri telescopi spaziali.

Fonte Gemini Telescope – World’s most powerful exoplanet camera turns its eye to the sky

Sabrina

Alla ricerca di altre forme di vita: i Ritmi Biologici

Un’ora vive la gialla farfalla ma il tempo ha che le basta.
Rabíndranáth Thákhur

Questa citazione viene attribuita al poeta indiano del XX secolo Rabindranath Tagore, ma probabilmente è più antica. Indica come la percezione del tempo intesa come scala temporale di vita di qualsiasi organismo è funzione unicamente del suo ciclo vitale. Di conseguenza ogni forma di vita ha i propri cicli vitali, molto diversi dagli altri e non sempre li percepiamo.

biological clockViene comune misurare ancora il tempo in generazioni umane, ossia l’intervallo temporale che c’è tra la nascita dei genitori e i loro figli, ma l’aspettativa di vita in questi 200 mila anni di homo sapiens è mutata tantissimo, da appena 15-20 di allora agli 80 di oggi, allungando di conseguenza l’intervallo generazionale da 10 anni della preistoria ai 25-30 di oggi.
Anche l’uso dell’intervallo di tempo che occorre alla Terra per compiere un’orbita, che chiamiamo anno, è abbastanza arbitrario: ad esempio se vivessi su Marte avrei solo 25 anni, mentre se  usassi l’anno venusiano avrei oltre 76 anni!
L’unica misura temporale veramente adatta per descrivere le funzioni degli esseri viventi è paradossalmente … (continua su Progetto Drake)

Ricerca di base per l’ambiente

C’è chi ancora pensa che gli scienziati del CERN (Consiglio Europeo per la Ricerca Nucleare) siano delle specie di talpe che vivono sottoterra a giocare con il destino del mondo con i loro acceleratori di particelle, che progettino di costruire buchi neri che inghiottano la Terra, che facciano ricerche blasfeme sulla Particella di Dio (il bosone di Higgs). Più semplicemente – e generalmente – c’è chi vede nella Scienza tutto il male possibile dell’uomo e  della sua natura autodistruttiva. Non è così, e vorrei un attimino spiegare il perché di quella Scienza con la lettera maiuscola: essa è figlia dell’intelletto e del ragionamento umano, al contrario della pseudo-scienza frutto dell’ignoranza e della superstizione che oggi è purtroppo tanto di moda.


Una striscia di Getter

Il CERN non è solo ricerca sui protoni, quark e affini: chi pensa che la ricerca di base sia una spesa inutile (come spesso la vedono gli ottusi responsabili dei bilanci statali e coloro che sono preposti a difendere l’istituto dell’istruzione fondamentale nel nostro paese) sbaglia: pensate se Tim Berners-Lee e Robert Cailliau nel 1989 avessero tenuto per sé le loro intuizioni e brevettato il World Wide Web: ora sarebbero arci-mega-pluri-fantastiliardari e vivrebbero in un deposito a Paperopoli, solo per fare uno dei più eclatanti esempi di invenzioni e scoperte che il CERN ha fatto dall’anno della sua fondazione.

Adesso una tecnologia che è fondamentale per lo studio delle particelle sta per rivelarsi importantissima nel campo delle energie alternative del solare termico, facendo fare a quest’ultima (spesso a torto considerata “il solare dei poveri”) un balzo enorme nella cattura dell’energia solare.
Una società di ingegneria civile ha recentemente iniziato ad utilizzare pannelli solari termici basati sulla tecnologia ultra alto vuoto sviluppato al CERN. In questi pannelli  le perdite di calore sono  state ridotte al minimo, consentendo ai fluidi vettori di raggiungere diverse centinaia di gradi anche in un ambiente con ridotta irradiazione solare, come ad esempio lo è il Nord Europa. A Ginevra infatti, lo scorso 15 giugno, la società di ingegneria civile Colas ha aperto un nuovo impianto di energia solare basato sulla tecnologia del vuoto del CERN. Si tratta di  un totale di 80 metri quadrati e funziona riscaldando circa 80.000 metri cubi di bitume a 180 gradi.

Questo è stato reso possibile attraverso l’uso della tecnologia dell’ultra alto vuoto  che viene usata al CERN all’interno degli acceleratori di particelle inventata dal fisico italiano Cristoforo Benvenuti, che ha sostituito il tradizionale nastro Getter con un film sottile di materiale Getter realizzato con speciali leghe metalliche messe a punto nei laboratori del Cern e  deposto su tutta la superficie interna delle camere da vuoto, tecnologia sviluppata prima per il LEP e poi adottata anche per l’LHC.

IL VUOTO DELL’LHC

Per realizzare il vuoto negli acceleratori di particelle, l’aria viene dapprima evacuata mediante normali pompe meccaniche. L’anello viene poi successivamente scaldato a 150 gradi per eliminare il vapore acqueo ancora presente sulle superfici interne. A questo punto restano da eliminare le molecole di gas (soprattutto idrogeno) che ancora  permeano le pareti. Durante il funzionamento dell’ acceleratore infatti, le pareti interne subiscono il violento bombardamento della luce di sincrotone, la quale produce un’ ulteriore emissione di gas che deve essere eliminato. Entra qui in gioco il nastro Getter  il quale cattura le molecole vaganti fissandole sotto forma di composti chimici stabili come ossidi, nitruri e carburi.

Cristoforo Benvenuti con la sua invenzione

La ridotta dispersione di calore  è ciò che rende questi pannelli solari  innovativi: per poter aumentare la temperatura d’esercizio è necessario ridurre al minimo la perdita di calore e il vuoto appunto è il miglior isolante termico che la natura stessa può offrire.  La luce diffusa o indiretta – che può rappresentare anche più del 50% del totale dell’energia solare disponibile nei paesi del Centro e Nord Europa, viene recuperata utilizzando un dispositivo riflettente costituito da due specchi cilindrici (vedi foto) e permette all’impianto di  creare vapore anche  in assenza di luce solare diretta.
Questa nuova tecnologia di costruzione dei pannelli solari potrebbe rivelarsi  interessante per le industrie che l’adotteranno, consentendo dei notevoli progressi nel contenimento delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. In ogni caso, ci sono già i piani per estenderla a tutti gli impianti Colas in Svizzera. Tuttavia, è di minore interesse per l’uso abitativo civile: infatti questi pannelli solari producono acqua calda, ma a temperature molto elevate, fino a 300 gradi, quindi  per un semplice uso domestico è necessario che l’intero sistema venga semplificato e reso meno costoso.