Utilizzando la sua Microscopic Imager, Opportunity ha fotografato questi piccoli oggetti sferici il 6 settembre 2012. La vista si estende su una superficie di circa 2,4 cm di diametro ad un sperone chiamato “Kirkwood” sul bordo occidentale del cratere Endeavour.
Mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati sulle gesta del rover Curiosity, il piccolo e longevo rover Opportunity ha restituito un’immagine della superficie di Marte che ha lasciato sconcertati i ricercatori.
L’immagine riprende un affioramento chiamato Kirkwood sul bordo occidentale del cratere Endeavour e mostra misteriosi oggetti sferici che differiscono in diversi modi dalle sferule ricche di ferro soprannominate mirtilli 1 che Oppy aveva scovato all’inizio del 2004 presso il suo sito di atterraggio.
Queste sferule misurano circa 3 millimetri di diametro. L’analisi, ancora preliminare, indica che queste sfere non hanno un alto contenuto di ferro come i mirtilli marziani.
“Questo è uno dei quadri più straordinari di tutta la missione”, ha detto il ricercatore principale della missione Opportunity, Steve Squyres della Cornell University di Ithaca, NY, “Kirkwood è pieno zeppo di questi piccoli oggetti sferici. Naturalmente, abbiamo subito pensato ai mirtilli, ma questo è qualcosa di diverso. Non abbiamo mai visto un tale accumulo denso di sferule in uno sperone di roccia su Marte. ”
“Sembrano essere croccanti fuori e morbide dentro”, ha detto Squyres. “Sono diverse nella loro concentrazione. Sono diverse nella struttura. Sono diverse nella composizione. Sono diverse nella distribuzione. Quindi, abbiamo un puzzle geologico di rara bellezza di fronte a noi. Stiamo studiando diverse ipotesi e non abbiamo nessuna ipotesi preferita in questo momento. Quindi l’unica cosa da fare ora è mantenere una mente aperta. “
Sono passati almeno 15 anni da quando è stato scoperto che il nostro Universo subisce una spinta repulsiva che lo sta accelerando, ossia che le sue dimensioni, contrariamente a quanto si era finora supposto, crescono più di quanto la spinta iniziale del Big Bang e al contrario la reciproca attrazione della materia che lo frena possano spiegare.
le varie ipotesi evolutive dell’Universo. Credit: Il Poliedrico
Nel giugno scorso parlai di un tema particolarmente scottante in cosmologia 1: l’accelerazione dell’espansione dell’universo.
Questo è un fenomeno inflattivo che fu scoperto alla fine del XX secolo e che finora è stato spiegato soprattutto facendo ricorso a una misteriosa energia oscura spiegata prevalentemente in vari modi:
come costante cosmologica, quindi integrata nella natura stessa del tessuto dell’Universo e indicata con la lettera lambda Λ e valore repulsivo fisso wq = −1, o come quintessenza, ovvero una quinta forza fondamentale della natura 2 che può assumere una natura attrattiva o repulsiva a seconda del rapporto tra energia cinetica ed energia potenziale nell’universo.
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Tabella 1
Stando alle teorie della quintessenza, questa divenne repulsiva – ossia cambiò stato come l’acqua diviene ghiaccio a 0° C. – circa 10 miliardi di anni fa a seguito dell’espansione iniziale dell’Universo.
Qui i valore repulsivo della quintessenza varia col variare delle condizioni locali nell’universo, ovvero questa avrà valori diversi tra i super ammassi di galassie dove la materia è concentrata e gli spazi di vuoto che li separano, come una ragnatela e soprattutto, come è ovvio, il suo valore cambia nel tempo.
Un team di astronomi dell’università di Portsmouth – R. Crittenden, R. Nichol, A. J. Ross – e dell’università Ludwig Maximilians di Monaco di Baviera – T. Giannantonio – ha riproposto uno studio del 2008 34 sui dati del satellite Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP) riguardante l’effetto Sachs-Wolfe integrato 5.
Questo nuovo studio 6 tiene conto di nuovi dati e nuovi metodi di indagine per venire incontro alle obiezioni sollevate dagli altri cosmologi 7 che sostanzialmente però non mutano il quadro emerso dalla precedente ricerca che conferma un valore specifico per il modello Lambda-CDM pari a w = −1 per redshift superiori a 1.
Fu proprio R. Crittenden insieme a Neil Turok nel 1996 a proporre di cercare nell’anisotropia secondaria della radiazione cosmica di fondo le prove della presenza di energia oscura nell’Universo 89.
I fotoni della CMB inizialmente isotropi avrebbre risentito dell’influenza gravitazionale delle grandi concentrazioni di materia diventando ovviamente leggermente più freddi per effetto della curvatura dello spazio locale ma avrebbero acquistato più energia (effetto blueshift) riscaldati dalla stessa materia autrice della curvatura. Questi due effetti in assenza di energia oscura si controbilancerebbero quasi esattamente – si devono comunque tener conto anche di altri effetti come la focalizzazione gravitazionale, l’effetto Sunyaev-Zel’dovich etc. – ma l’energia oscura che dilata lo spazio consentirebbe alla CMB rilevata di avere un’impronta energetica leggermente più alta là dove le concentrazioni di massa l’hanno riscaldata.
Quindi la presenza di energia oscura si potrebbe rilevare confrontando le concentrazioni di materia conosciute nell’universo locale con le impronte delle fluttuazioni della CMB.
E in effetti importanti correlazioni pare che ci siano, tanto che il team di Portsmouth e Monaco parla che il 99,996% di queste sia da imputarsi all’energia oscura.
Comunque sia, il capitolo Energia Oscura non è affatto finito. Il team di Crittenden si dice sicuro dei risultati ma manca la verifica di altri gruppi di ricerca e l’immancabile controrisposta dei cosmologi scettici. Ma soprattutto com’è fatta questa Energia Oscura?
PTF 11kx è il puntino blu in questa galassia a 600 milioni di anni luce di distanza. Credit: BJ Fulton (Las Cumbres Osservatorio in rete Telescope Globale)
Le supernovae di tipo Ia sono degli ottimi indicatori di distanza su scala cosmica 1. È merito delle loro esplosioni se è stato possibile capire quanto sia enorme il nostro Universo.
Eppure di tutte le supernovae finora osservate non ce n’era una di cui si possedesse qualche indizio sul sistema progenitore, tutto era basato sull’intuizione teorica. Finora …
Infatti i ricercatori del Palomar Transient Factory, attraverso un complesso sistema di allerta computerizzato collegato al telescopio robotizzato Samuel Oschin da 120cm è riuscito a cogliere indizi sul sistema che ha dato origine alla supernova PTF 11kx.
PTF 11kx è una supernova di tipo Ibis esplosa in una galassia a 600 milioni d anni luce (z = 0.04660) di distanza nella costellazione Lince 2 scoperta il 16 gennaio 2011.
Quando fu scoperta, la supernova mostrava strane righe del calcio il che è abbastanza insolito, tanto che i ricercatori del PTF allertarono subito i loro colleghi dell’Osservatorio Keck alle Hawaii.
PTF 11kx Credit:astro.berkeley.edu
Presto gli astronomi del Keck si accorsero che il guscio di polveri attorno alla supernova responsabile delle righe di assorbimento del calcio era troppo lento per essere prodotto da una esplosione di supernova ma troppo velocemente per essere frutto del semplice vento stellare.
L’unica spiegazione plausibile era che questo guscio avesse avuto origine da una nova preesistente a PTF 11kx e che stesse rallentando quando fu investito dall’esplosione di supernova.
Nei giorni successivi il segnale del calcio stava scomparendo, quando 58 giorni dopo rieccolo apparire, sintomo evidente che i gusci concentrici erano evidentemente più di uno.
A questo punto era chiaro che il progenitore di PTF11kx era un sistema binario composto da una nana bianca e una supergigante rossa.
Altri studi non sono mai stati conclusivi sui sistemi progenitori di supernova. Una delle supernovae più precoci mai avvistate nonché la più vicina Ia dal 1972, SN 2011fe, o se preferite PTF 11kly visto che fu scoperta dallo stesso team della nostra eroina e con gli stessi mezzi, non ha mostrato particolari segnali che potessero dirci quali erano le condizioni fisiche preesistenti al momento dell’esplosione, ponendo limiti assai restrittivi sui possibili sistemi originari 3
PTF 11kx è un bel rompicapo: a un sistema binario come quello ipotizzato dagli astronomi non è insolito produrre più eruzioni di nova: nella nostra Galassia abbiamo RS Ophiuchi a non più di 5000 anni luce che lo fa abbastanza spesso (6 volte negli ultimi 114 anni, l’ultimo nel 2006) e sappiamo bene come funziona: una nana bianca sottrae materia dalla sua compagna gigante rossa per effetto mareale; la materia forma quindi un disco di accrescimento intorno alla nana bianca finché in un punto non si raggiungono temperature e densità tali da innescare una fusione nucleare. l’esplosione susseguente disperde il disco di accrescimento e il ciclo si ripete.
Quindi c’è da chiedersi come questa volta si sia potuto accumulare tanta materia fino al limite di Chandrasekhar di quasi 1,4 masse solari nel sistema progenitore fino a produrre una supernova.
Un mistero che se risolto potrebbe svelarci ancora molte cose sulle origini delle Candele Cosmiche.
… tre piccoli fotoni gamma – di quelli che vengono prodotti dal collasso di una stella molto grande – partirono per un lungo viaggio attraverso le sterminate praterie cosmiche promettendosi di non perdersi mai di vista …
Tre piccoli fotoni in vacanza 🙂 Credit: Il Poliedrico
Il viaggio dei tre fotoni è durato oltre 7 miliardi di anni, e per quanto sembri banale, ci ha svelato molte cose sulla natura del Cosmo che neppure il più sofisticato acceleratore di particelle probabilmente potrebbe mai dirci 1.
Ma facciamo un passo indietro.
Einstein e la sua Relatività Generale ci hanno spiegato che lo Spazio e il Tempo sono in realtà un’unica cosa e che la materia curva questo tessuto sotto il suo peso a qualsiasi scala la si guardi.
Al contrario, la Meccanica Quantistica ci spiega che a scale molto piccole come la scala di Panck – un miliardesimo di miliardesimo del diametro di un elettrone. – il tessuto dello spazio-tempo non è lineare come vuole la Relatività Generale ma diventa indistinto e spumoso con 5, 6 7 dimensioni strettamente arrotolate su sé stesse, fino a 15 o 20 per alcune teorie quanto-relativistiche.
È infatti questo il vero scoglio che rende inconciliabili la Relatività Generale e la Meccanica Quantistica: il modo di descrivere il tessuto dello spazio-tempo.
Diversi anni fa un brillante ricercatore italiano, Giovanni Amelino-Camelia, fisico teorico alla Sapienza di Roma, propose di un interessante modo di indagare nell’infinitamente piccolo: guardare verso l’infinitamente grande.
Il concetto di fondo è che gli effetti microscopici possono essere misurati più facilmente su scale macroscopiche. Ad esempio gli effetti microscopici del tessuto dello spazio-tempo sui nostri tre fotoni dovrebbero, per effetto dell’enorme viaggio percorso, essere amplificati fino a renderli rilevabili con gli strumenti oggi a disposizione.
In pratica, la luce si dovrebbe disperdere in diversi colori mentre compie il suo viaggio attraverso l’universo dal tessuto dello spazio, così come si diffonde nelle diverse lunghezze d’onda quando passa attraverso la struttura cristallina di un prisma.
Nel maggio 2009 il Fermi Gamma Ray Space Telescope intercettò uno di questi lampi gamma registrando appunto i nostri tre piccoli fotoni. Robert Nemiroff2 astrofisico presso il Michigan Technological University, ha esaminato questi dati scoprendo appunto le tracce del passaggio dei tre quanti ad altissima energia – oltre 1 Gev, due all’interno dello stesso millisecondo, e un terzo ad appena un altro millisecondo dietro ai primi due.
Ora è improbabile che i fotoni siano stati emessi da lampi gamma diversi o da tempi diversi dello stesso fenomeno, per cui è ragionevole credere che i tre siano stati generati simultaneamente dallo stesso fenomeno, pertanto questi hanno percorso 7 miliardi di anni luce senza venire dispersi o diffusi dalla materia ordinaria – che ne avrebbe inevitabilmente alterato l’impronta energetica – percorrendo liberamente tutto lo spazio tra la Terra e la sorgente.
E questo è esattamente il tipo di radiazioni che il fisico italiano proponeva di cercare e studiare.
I risultati di Nemiroff pubblicati su Physical Review Letters 3 pongono un limite agli effetti dispersivi dello spazio dovuti alla schiuma prevista dalle teorie della Relatività Quantistica fino a energie e scale prossime alla massa di Planck.
Un limite che una futura Teoria del Tutto non può non tenerne conto.
A meno di incredibili coincidenze, ecco come tre piccoli fotoni possono aiutare a capire la natura più intima dell’Universo.
Neil Alden Armstrong 5 agosto 1930 – 25 agosto 2012. Credit: NASA
Ci sono cose che avrei non voluto mai scrivere.
Di Pacini, Dulbecco, oppure di Bernard Lovell, morto solo l’altro giorno.
Eppure sono qui a raccontarvi di un altro lutto, quello del Primo Uomo che ha messo piede su un altro mondo.
Neil Alden Armstrong aveva compiuto 82 anni lo scorso 5 agosto – era nato nel 1930 – e oggi si è spento a Cincinnati, nell’Ohio.
Era poco dopo le 22:00 del 20 luglio del 1969 che lo vidi per la prima volta; forse ora non sarei qui a scrivere per Voi se quel momento non ci fosse mai stato.
Ero ancora un infante, e quella sera non non volevo andare a letto. Volevo stare lì incollato alla televisione come milioni di altre persone sparse nel Globo. Ero troppo piccolo per poterlo capire, ma intuivo che quello era un momento speciale, per me e per tutta l’Umanità.
Mi ricordo del simpatico siparietto fra Tito Stagno e Ruggero Orlando in America su quando il LEM si era posato sul suolo lunare e delle parole che Neil Armstrong pronunciò al momento in cui posò il suo piede sul suolo lunare.
Per tanto tempo per me è stata una frase sbiascicata e incomprensibile, ovviamente avevo letto la traduzione delle sue parole ma non riuscivo a intenderle nelle registrazioni, e al tempo in cui furono pronunciate non le compresi affatto.
Nemmeno un anno dopo, poco dopo il tramonto vidi una sottile falce di Luna nel cielo e poco sotto e un po’ più indietro un puntino luminosissimo. Chiesi a mia madre cos’erano e lei mi spiegò che quella era la Luna, dove erano stati gli astronauti.
Quel tramonto accese la mia fantasia e la mia passione per il vasto Oceano Cosmico, mentre sognavo di essere uno di quei astronauti che come buffi pupazzoni goffamente si muovevano su quello strano mondo senz’aria, proprio come aveva fatto Neil.
Poi ho fatto tutt’altro nella vita, ma il ricordo di Armstrong che scendeva la scaletta del LEM ha segnato il mio percorso di vita.
Con vero affetto, grazie Neil Alden Armstrong.
Il Sardinia Radio Telescope – Credit: Istituto Nazionale di Astrofisica
Finalmente ci siamo!
Il più grande ed evoluto radiotelescopio interamente italiano ha visto la sua prima luce celeste l’8 agosto scorso.
Il Sardinia Radio Telescope (SRT) è nato grazie all’impegno e il contributo del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica, della Regione Autonoma della Sardegna e della Agenzia Spaziale Italiana.
Quest’ultima si avvalsa della preziosissima esperienza dell’Istituto di Radioastronomia di Bologna che gestisce il complesso di Medicina (BO) 1 dove gran parte del radiotelescopio è stato progettato.
La parabola del 32 metri di Medicina (BO) Credit: il Poliedrico
Il progetto dell’SRT prese il via negli anni ’90 e doveva essere concluso nel 2006 2 anno in cui di fatto è iniziata la costruzione e terminato nel 2011, per una spesa complessiva di circa 60 milioni di euro.
I numeri dell’SRT sono di tutto rispetto: 3000 tonnellate di peso per 70 metri di altezza, e un paraboloide di 64 metri, il doppio rispetto a quello di Medicina. Comunque per le caratteristiche principali ci sono questi splendidi filmati realizzati dall’INAF che sono più esaustivi di mille parole che potete trovare a questo indirizzo.
Sottolineo solo che il paraboloide primario del radiotelescopio è dotato di superficie attiva realizzata con ben 1008 pannelli di alluminio per 1116 attuatori, come i più moderni telescopi ottici.
Questo è essenziale per le osservazioni a lunghezze d’onda millimetriche. Infatti lo spettro in cui opererà SRT comprenderà anche frequenze tra 23 e 100 GHz.
L’SRT potrà osservare nelle bande di frequenza tra 300 MHz fino a 100 GHz semplicemente scambiando i ricevitori nelle loro posizioni focali – ricevitori multi-beam, uno dei motivi per cui è stata scelta la particolare configurazione gregoriana che genera il fuoco dietro la parabola principale.
Comunque l’SRT non sarà solo uno strumento di ricerca astrofisica, ma svolgerà anche le funzioni di controllo delle missioni automatiche di esplorazione planetaria e dei satelliti artificiali in orbita e analisi geofisiche molto accurate sui movimenti delle placche tettoniche.
Inoltre la superficie attiva dello specchio primario rende l’SRT particolarmente indicato per studiare nel millimetrico lo studio dei corpi celesti e le nubi molecolari.
Integrando l’SRT con gli altri radiotelescopi italiani di Medicina, Noto e San Basilio si avrà la prima rete interferometrica italiana a lunga distanza (I-VLBI), un unico radiotelescopio virtuale grande quanto è la distanza fra le varie antenne reali.
Per concludere, l’SRT è un chiaro esempio di cosa sia capace di produrre la ricerca e la tecnologia italiana, un autentico gioiello di cui andar fieri.
Nell’attesa che il rover Curiosity – sbarcato su Marte soltanto ieri l’altro – inizi il suo prezioso lavoro sul campo, vorrei ricordare l’ipotesi della presenza di un antico oceano sul Pianeta Rosso.
La Terra senz’acqua. Eppure da una analisi altimetrica dedurre dov’erano gli oceani non è difficile. Credit: Il Poliedrico
Provate ad immaginare che tutta l’acqua della Terra scompaia improvvisamente. Il favoloso Puntino Blu del cosmo ridotto a una insignificante palla polverosa.
Eppure nonostante tutto, per un osservatore attento non è impossibile ricostruire – con un certo margine di incertezza è ovvio – l’antico aspetto del pianeta.
In fondo non è difficile il concetto di fondo: tutti le foci dei corsi d’acqua terminano più o meno alla medesima quota con uno scarto di poche decine di metri, mentre una mappa altimetrica mostra tutte le aree al di sopra e al di sotto di tale limite.
Riassumendo, il Rio delle Amazzoni e il Gange, la Senna e il Tamigi, oppure lo Huáng Hé (Fiume Giallo) e il Mississippi hanno tutti una cosa in comune: sboccano tutti in diversi oceani comunicanti tra loro. Di conseguenza la quota delle loro foci, con lo scarto di pochi metri, è la stessa.
Una volta stabilito dalle analisi dei depositi di origine alluvionale e dalle tracce minerali che sul sasso polveroso una volta esisteva l’acqua allo stato liquido, immaginare l’esistenza di vaste distese d’acqua al di sotto della quota limite è il passo logico successivo; l’isoipsa1 che congiunge tutte le foci rappresenta quello che adesso noi chiamiamo livello del mare.
Una rappresentazione artistica di come sarebbe potuto apparire Marte durante il Noachiano, 3,5 miliardi di anni fa. – Credit Wikipedia
Per nostra fortuna ancora la Terra non ha perso la sua acqua, lo farà fra diversi miliardi di anni se tutto va bene, ma c’è un posto dove si può verificare questo schema: Marte.
In un lavoro apparso nel 2010 su Nature Geoscience2 i geologi planetari Gaetano D’Achille e Brian M. Hynek, all’epoca in organico all’Università del Colorado, hanno analizzato i dati delle missioni NASA ed ESA a partire dal 2001 e hanno identificato almeno 56 strutture naturali che appaiono come antichissimi corsi d’acqua e le loro foci, identificandone almeno 29 che hanno in comune la stessa quota.
La superficie equipotenziale risultante pare essere un bacino che copre circa il 36% della superficie 3 marziana, che se fosse riempito d’acqua corrisponderebbe a circa 124 milioni di chilometri cubi distribuiti sull’emisfero settentrionale.
L’emisfero settentrionale di Marte è noto per avere una quota media notevolmente inferiore rispetto al resto del pianeta. Le pianure settentrionali conosciute con il nome di Vastitas Borealis si trovano 4-5 km al di sotto del raggio medio del pianeta; questa curiosa caratteristica di Marte è conosciuta come Dicotomia Marziana, scoperta nel 1972 dalla sonda Mariner 9.
Quindi la famosa dicotomia marziana avrebbe un significato ancora più preciso: circa 3,5 miliardi di anni fa il nord del pianeta occupato da un vasto e poco profondo oceano su cui spiccavano i coni di enormi vulcani. A sud una terra asciutta e solcata da fiumi che sfociavano a nord e una piccola calotta polare.
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L’estensione di Oceanus Borealis su Marte. Credit: Università del Colorado
Comunque oggi è difficile immaginare Marte con un oceano di acqua liquida.
Adesso la pressione atmosferica diurna (636 Pa) supera appena quella del punto triplo dell’acqua 4 alle quote più basse. Più in alto questa può esistere solo come ghiaccio o vapore. Anche la temperatura media su Marte è di -65° C, troppo poca percé l’acqua diventi liquida.
Quindi 3,5 miliardi di anni fa, durante il Noachiano 5, le condizioni ambientali dovevano essere molto diverse.
All’inizio Marte possedeva una atmosfera simile a quella attuale come composizione, ma molto più spessa, tanto da garantire sul Pianeta Rosso all’incirca la stessa pressione che c’è ora sulla Terra.
Il Sole, più pallido e piccolo di quello attuale, permetteva però un discreto effetto serra, probabilmente accentuato da più alte concentrazioni di metano atmosferico e nubi di anidride carbonica. Tutto questo avrebbe potuto innalzare la temperatura marziana sopra il punto di congelamento dell’acqua e consentire l’esistenza di un ciclo idrologico simile a quello terrestre, con nubi di vapore acqueo che si formavano sull’oceano e che si scaricavano sulla terraferma formando fiumi e scavando profonde gole.
La mancanza però di un campo magnetico importante 6 ha permesso in seguito al vento solare di spogliare Marte di gran parte della sua atmosfera e fatto evaporare il suo oceano rendendolo la piccola e polverosa palla di adesso.
Sir Bernard Lovell. Credit: Jodrell Bank, Università di Manchester
Avrebbe compiuto 99 anni il prossimo 31 agosto.
Invece il 6 agosto 2012 si è spento nella sua casa nel Chesire Sir Charles Alfred Bernard Lovell, padre del radiotelescopio Jodrell Bank di cui fu anche direttore dal 1945 al 1980.
Bernard Lovell nacque il 31 agosto 1913 nel Gloucestershire e studiò fisica presso l’Università di Bristol, ottenendo il dottorato nel 1936.
In seguito lavorò allo studio dei raggi cosmici presso l’Università di Manchester fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Durante la guerra contribuì allo sviluppo del radar H2S 1 per il quale fu premiato con l’Ordine dell’Impero Britannico nel 1946.
Tornato a Manchester alla fine del conflitto, continuò le sue ricerche con le conoscenze acquisite sui radar, dimostrando che è possibile rilevare le meteore che entrano nell’atmosfera dagli echi radar che producono ionizzando l’aria.
Credit: Jodrell Bank, Università di Manchester
Ideò il radiotelescopio di Jodrell Bank nel 1946 per sfuggire alle rumorose interferenze dei tram elettrici di Manchester, che all’epoca della sua costruzione era il più grande radiotelescopio orientabile del mondo 2, ben 76 metri di diametro.
Sir Lovell nel 1961 fu nominato cavaliere per i suoi contributi allo sviluppo della radioastronomia, mentre nel 1981 ricevette la Medaglia d’Oro della Royal Astronomical Society.
Nel 2009 Sir Lovell svelò che durante la guerra fredda, il radiosservatorio di Jodrell Bank divenne parte di un sistema di allarme rapido per gli attacchi nucleari.
Per questo, i sovietici avrebbero cercato di ucciderlo con una dose di radiazioni letali.
Su questa storia Sir Lovell ha scritto un resoconto completo dell’incidente con le istruzioni che sarebbe stato pubblicato dopo la sua morte.
Un resoconto che avremmo preferito non leggere ancora.
Mars Rover Curiosity in Artist’s Concept, Credit: NASA/JPL-Caltech
Dopo 36 settimane di volo e 567000 chilometri percorsi (circa 3755 metri al secondo), la missione Mars Science Laboratory è arrivata a destinazione.
Il rover Curiosity – che pesa una tonnellata! – è atterrato sano e salvo su Marte pochi minuti fa, alle o7:31 ora italiana (05:31 UTC).
Il plauso del Blog va ai tecnici e gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory della NASA per l’eccellente lavoro svolto.
Sono molte le nozioni scientifiche che abitualmente diamo per scontate. Pensiamo che esse siano vere ovunque nell’Universo – il che è sostanzialmente vero – ma non teniamo conto che in questo ci possano essere delle condizioni limite in cui ciò che sappiamo è incompleto.
In prossimità di una stella di neutroni la materia potrebbe essere ancora più esotica di quanto si pensi. Qui il magnetismo potrebbe prevalere sull’elettrostatica che normalmente governa la dinamica molecolare.
Eppure ci siamo già passati. Alla fine del 19° secolo Lord Kelvin si diceva convinto che si era scoperto tutto lo scibile, mentre subito dopo i concetti di spazio e di tempo assoluti crollavano sotto i colpi della Relatività e l’infinitamente piccolo veniva riscritto dalla Meccanica Quantistica.
Adesso proprio nel campo del quasi infinitamente piccolo, un settore che pensavamo di conoscere bene, pare che le nostre conoscenze siano incomplete.
Trygve Helgaker dell’Università di Oslo e il suo team hanno provato a simulare al computer quello che accade alla materia quando è sottoposta a campi magnetici potentissimi che possono essere generati solo dal nucleo collassato di una stella, una nana bianca o una stella di neutroni.
I legami chimici sono quelle forze elettrostatiche che consentono agli atomi di aggregarsi fra loro e creare quelle strutture più complesse che chiamiamo molecole. La forza dei legami chimici varia notevolmente, ci sono i legami forti come i legami covalenti e i legami ionici, e i legami deboli, come le interazioni dipolo-dipolo, che al momento non ci interessano affatto.
Il legame più semplice conosciuto e diffuso nell’universo, è ovvio, riguarda due atomi dell’elemento più semplice che c’è, l’idrogeno. In questo caso si parla di molecola di idrogeno o idrogeno molecolare, simbolo H2.
Questo è un legame covalente omopolare, dove i due nuclei atomici – in questo caso due protoni, di carica elettrica positiva – condividono due elettroni – di carica elettrica negativa. La carica elettrostatica quindi è nulla e la molecola è stabile.
In questo caso gli elettroni occupano lo stesso orbitale e, per il Principio di esclusione di Pauli, hanno spin opposti.
Helgaker e il suo team, avvalendosi di complesse simulazioni computerizzate, si sono accorti che una molecola di idrogeno in presenza di enormi campi magnetici dell’ordine di 100000 Tesla, che si possono appunto trovare in prossimità di una nana bianca o una stella di neutroni, si comporta in modo alquanto bizzarro, rivelando una nuova forma del legame covalente finora sconosciuto.
In questo caso la molecola di idrogeno si orienta parallelamente alle linee del campo magnetico, e il legame chimico tra i due atomi diventa più stretto e più stabile.
Nel caso in cui uno degli elettroni venga poi eccitato fino a un livello di energia che normalmente romperebbe il legame, come ad esempio dopo aver assorbito un fotone, la molecola non fa altro che riorientarsi perpendicolarmente al campo magnetico, ma curiosamente resta intatta.
la dinamica dei legami molecolari in un ambiente comune (in inglese).
Questo avviene perché il campo magnetico riallinea lo spin degli elettroni in una unica direzione che è normalmente sempre antiparallelo quando due elettroni occupano lo stesso orbitale. Ma il Principio di esclusione di Pauli impedisce a due elettroni identici di occupare lo stesso orbitale, per cui un elettrone è costretto a cambiare posizione e passare allo stato quantico successivo, che è però un orbitale antilegame 1.
In un ambiente normale la molecola di idrogeno si dissocierebbe quasi subito nei suoi componenti fondamentali, invece qui l’intensità del campo magnetico riesce a mantenerla curiosamente stabile. I ricercatori hanno chiamato questo nuova forma di legame legame paramagnetico.
Il legame paramagnetico consentirebbe alle molecole di idrogeno di esistere anche in ambienti estremi come lo sono le sottilissime e caldissime atmosfere di questi nuclei stellari.
Dovrebbe essere quindi possibile osservare questa nuova forma della materia studiando gli spettri di questi oggetti ipermagnetici in cerca di una loro particolare firma nelle righe spettrali che dovrebbe essere diversa dalle altre finora conosciute, perché il riposizionamento di una molecola eccitata nel campo magnetico deve comunque lasciare una sua impronta.
Se Helgaker e i suoi hanno ragione dovremmo rivedere le nostre conoscenze sulla materia sottoposta a condizioni estreme.
Infatti i nuclei stellari collassati non si fermano certo a generare solo – si fa per dire – 100000 Tesla: molte stelle di neutroni raggiungono campi magnetici fino a 10000 volte più intensi.
Potremmo scoprire che la materia si comporta in modo ancora diverso e più esotico, magari campi magnetici ancora più intensi di quelli fin qui studiati non si limitano ad alterare gli orbitali ma anche la dinamica dei nuclei atomici fino a creare nuovi tipi di materia non ancora conosciuti.