C/2012 S1 dalla Nube di Oort con furore, o quasi ….

Più o meno diecimila anni fa una qualche perturbazione destabilizzò l’orbita di una cometa – in pratica una grossa palla di neve sporca – di circa 5 chilometri di diametro che fono ad allora se n’era stata placida e tranquilla all’interno della Nube di Oort, il vasto guscio più o meno sferico che circonda il nostro Sistema Solare tra 0,3 e 1, 5 anni luce, residuo della sua formazione.
A quell’epoca sulla Terra gli esseri umani ancora non avevano inventato la scrittura, qualcuno forse abitava sulle palafitte e viveva di agricoltura, ma nessuno di loro aveva mai immaginato cosa fosse una cometa anche se forse ne avevano vista qualcuna.

La cometa C/2012 S1 (iSON) ripresa dalla sonda interplanetaria Deep Impact da una distanza paragonabile alla Terra in quel momento: 5,3 UA

La cometa C/2012 S1 (iSON) ripresa dalla sonda interplanetaria Deep Impact il 17/18 gennaio 2013 da una distanza di 5,3 UA.
Credit NASA

Undici mesi fa, il 21 settembre scorso, due astronomi russi, Vital Nevski e Artyom Novichonok, utilizzando il telescopio da 40 centimetri dell’International Scientific Optical Network 1 in un sito vicino a Kislovodsk, in Russia, scoprirono la cometa che nel frattempo era arrivata ad appena 941 milioni di chilometri dal Sole, nella costellazione dei Gemelli. Il Nome completo scelto per la cometa è C (cometa non periodica) 2012 (l’anno della scoperta) S1 (la prima cometa scoperta nella seconda metà di settembre) e infine ISON, dalle iniziali del programma di ricerca russo: C/2012 S1 (ISON).

A gennaio di quest’anno, nei giorni 17 e 18, la sonda spaziale Deep Impact, ben nota per le sue esplorazioni sui corpi minori del Sistema Solare, riuscì a fotografare la ISON sovrapponendo 146 esposizioni da 80 secondi ciascuna per un totale di circa 3 ore e un quarto. Le strisce che si vedono nella foto sono dovute al moto di fondo delle stelle rispetto alla cometa, che nonostante sia stata al momento della ripresa distante circa 760 milioni di chilometri dal Sole, aveva già la sua codina.

La C/2012 S1 (ISON) osservata dal telescopio spaziale Hubble nel maggio 2013. Credit: NASA Comet ISON Observing Campaign

La C/2012 S1 (ISON) osservata dal telescopio spaziale Hubble nel maggio 2013.
Credit: NASA Comet ISON Observing Campaign

Ma arriviamo ai nostri giorni. A fine luglio la c/2012 (ISON) ha superato il limite  di 2,7 UA che rappresenta la frost line 2 per il Sistema Solare. Al di sotto di questo limite c’è da attendersi un ben maggiore sviluppo della coda dovuto alla sublimazione delle parti più volatili.

Però …

Nonostante la ISON fosse stata pubblicizzata come la cometa del secolo 3, le sue aspettative non sono delle migliori fino a questo momento. Anche se era ancora molto distante dalla frost line (circa 5 UA dal Sole), a gennaio di quest’anno la cometa emetteva più di 50 mila chilogrammi di polveri al minuto e solo 60 litri d’acqua al minuto; con quel ritmo occorrerebbero 12 ore per riempire una piscina olimpionica!
Sicuramente a quella distanza la sublimazione del ghiaccio d’acqua non era ancora importante, ma chi si aspettava un tasso via via maggiore con l’avvicinarsi del perielio è rimasto deluso.
Dal 13 gennaio 2013 la luminosità della ISON è rimasta pressoché costante per ben 132 giorni, cioè fino a quasi maggio. Questo curioso comportamento può essere spiegato dalla presenza di una crosta di silicati, da una carenza di acqua nella composizione chimica della cometa 4 o entrambe.
Le previsioni attuali riviste alla nuova curva di luce indicano che se la ISON sopravvivrà al passaggio col Sole arriverà a brillare a non più della magnitudine -6. Distante dalla -17 ma comunque ragguardevole.
Purtroppo in questo momento la cometa è a soli 16 gradi dal Sole, quindi è inosservabile da Terra, ma intanto il 2 ottobre transiterà nei pressi di Marte dove il rover Curiosity e il satellite Mars Global Express potranno riuscire a riprenderla. Sarà la prima cometa osservata dalla superficie di un pianeta extraterrestre!


Bibliografia:

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Note:

la neurobiologia del mondo vegetale

 

Prendetemi pure per pazzo ma io parlo alle piante. Dialogo con loro, manifesto loro tutto  il mio affetto parlandoci, accarezzandone le foglie e abbracciando il loro tronco. Quindi perdonatemi se mi lascerò trasportare dall’argomento.

Anche nel rinascimento si credeva che nella gerarchia delle cose le piante fossero appena poco più sopra al mondo inanimato.

Anche nel rinascimento si credeva che nella gerarchia delle cose le piante fossero appena poco più sopra al mondo inanimato.

Eterotrofi simbionti con autotrofi fotosintetici“. Questa bella definizione di noi umani, che possiamo tranquillamente a tutto il regno animale, è di Carl Sagan, scritta nel suo meraviglioso libro Cosmos.
Ingiustamente, nell’arco della storia umana il mondo vegetale è stato quasi sempre considerato appena al di sopra del regno inanimato. Anche l’espressione medica stato vegetativo indica uno stato quasi irrecuperabile della condizione di vita di un paziente, equiparandolo appunto a un vegetale; appena un gradino sopra all’inanimato.
Questo perché i processi vitali nel mondo vegetale sono estremamente lenti, pressoché impercettibili alla nostra scala temporale. Vediamo un albero spogliarsi e cambiare periodicamente le foglie col mutare delle stagioni, lo sbocciare dei fiori e l’aprirsi e chiudersi di questi durante l’arco della giornata, ma poco altro. la scala temporale del mondo vegetale ci è talmente aliena che a stento le piante sono state  considerate vive nell’arco dei secoli.

Le radici aeree della Palma che cammina, la Socratea exorrhiza, Costa Rica, National Parc La Amistad

Le radici aeree della Palma che cammina, la Socratea exorrhiza, Costa Rica, National Parc La Amistad. Credit: Wikipedia

Certo non mancano neppure le leggende su alberi che camminano, come la celebre Socratea exorrhiza, una palma sudamericana che ha radici aeree che sembrano trampoli. Anche se diverse ipotesi sono state formulate nel corso degli anni sul perché questa palma sia dotata di simili radici, non ci sono prove scientifiche valide che questa cammini 1.

Per molto tempo la botanica si è limitata alla semplice opera di catalogazione delle diverse specie vegetali e poco più. Solo adesso iniziamo a capire che il mondo vegetale è complesso quanto il regno animale. Le prerogative che credevamo esclusive degli animali finalmente le stiamo scoprendo anche nel mondo vegetale, con meccanismi fino a poco tempo fa ignoti o ampiamente sottovalutati.
Ferormoni per la comunicazione, strategie sessuali uniche e curiose, impulsi microelettrici che si propagano lungo tutta la pianta analoghi agli impulsi nervosi animali. Perfino un complesso sistema che svolge funzioni analoghe al sistema nervoso centrale animale è stato individuato dal Laboratorio Internazionale di Neurobiologia Vegetale dell’Università di Firenze guidato dal prof. Stefano Mancuso 2. Anche qui il sistema neurale vegetale mostra strategie evolutive interessanti per certi versi simili gli animali: un reale sistema di reti complesse 3 in grado di discernere i diversi stimoli esterni. Ma mentre negli organismi bilaterali e nei vertebrati il complesso nervoso si è evoluto verso un unico complesso organo, nelle piante è distribuito in poche cellule presenti nell’apice radicale, subito dietro il meristema. Ciò nonostante l’elevato numero di apici radicali presenti in una pianta sana fa presupporre che l’apparato neurale vegetale sia estremamente altrettanto complesso quanto quello animale.

Lascio parlare il prof. Mancuso che saprà essere molto più esauriente di me.

Lo studio di questi sistemi vitali, così vicini eppure così alieni, apre nuove e interessanti prospettive anche nell’esobiologia e nella ricerca di altre forme di vita extraterrestri. Sapremo mai riconoscere le capacità senzienti in altre forme di vita quando e se le incontreremo?


Altri riferimenti:

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Note:

Una fragola in cielo?

Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

Il 23 giugno scorso fu Luna Piena. Un evento abbastanza normale, accade una volta al mese! Vero, ma la Luna era anche al suo perigeo e anche questo accade una volta al mese. Poi vuoi mettere che era la prima Luna Piena dopo il Solstizio d’Estate? I nordamericani la chiamano Strawberry Moon, la Luna delle Fragole, perché verso la fine di giugno avviene appunto la raccolta delle fragole nel loro continente.
Quindi la Strawberry Moon non ha niente a che vedere con il colore della Luna al suo sorgere o tramontare; quello dipende unicamente da altri fattori che avvengono … ogni giorno.
La luce di ogni astro – pianeta o stella che sia – viene arrossata e rifratta dall’aria quando si avvicina all’orizzonte perché deve attraversare sempre più strati d’aria rispetto a quando gli stessi astri sono allo zenit.

Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

Questo fenomeno si chiama Scattering di Rayleigh 1 ed è responsabile del colore azzurro del cielo. L’arrossamento della luce è più significativo quando l’astro è vicino all’orizzonte, perché il volume di aria attraverso cui deve passare la sua luce è significativamente più grande rispetto a quando è alto nel cielo. Presso l’orizzonte il tragitto più lungo della luce nell’atmosfera disperde quasi tutte le componenti della luce durante il percorso diretto verso l’osservatore; quello che resta è la componente di lunghezza d’onda maggiore. Per questo tutti gli astri osservati da terra hanno un aspetto rossiccio più o meno accentuato quando sono in prossimità dell’orizzonte.

Laser per la correzione delle turbolenze atmosferiche all'European Southern Observatory's Very Large Telescope.

Laser per la correzione delle turbolenze atmosferiche all’European Southern Observatory’s Very Large Telescope.

Soprattutto nelle sorgenti puntiformi come le stelle ma non solo,  si nota anche un altro fenomeno: la scintillazione 2 3.
La scintillazione è dovuta dalla luce che passa attraverso sacche di aria con diversa temperatura e densità, causando la rifrazione e dispersione della luce attraverso l’aria non omogenea. Quindi per effetto del maggiore tragitto che compie la luce all’orizzonte rispetto che allo zenit, l’effetto della scintillazione è maggiore quando la sorgente è bassa nel cielo.

Comunque la curiosità meno appariscente ma non meno reale e bizzarra è che gli astri in prossimità dell’orizzonte non sono proprio dove sembra che siano.
Questa si chiama Aberrazione Atmosferica 4 ed è unicamente dovuta dalla diversa densità del mezzo che la luce dell’astro deve percorrere per arrivare all’osservatore. Per questo la luce sembra provenire da un punto un po’ più verticale rispetto all’osservatore, il quale percepisce l’astro ad una altezza maggiore rispetto all’orizzonte. Anche questo effetto diviene via via più pronunciato man mano che si osservano oggetti meno distanti di 45° dall’orizzonte.

Per questo il 23 giugno non c’era nessuna fragola in cielo, e anche se apparentemente sembrava che ci fosse, sicuramente non era proprio neppure lì!


Note:

Venere e Terra, gemelli diversi

Nel nostro sistema solare il pianeta più simile alla Terra è Venere. Composizione chimica, densità e dimensioni sono molto simili tra i due pianeti. Anche la loro distanza al Sole è tutto sommato abbastanza simile. Eppure Venere, a dispetto del nome che evoca la dea romana della bellezza, è in realtà un inferno, torrido e secco. Tutta l’acqua presente sul pianeta risiede nella sommità delle sue nubi e quando lì decide di piovere, piove acido solforico.
Un nuovo studio giapponese spiega come sia avvenuto.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

Venere e Terra sono molti simili dal punto di vista fisico ma hanno avuto storie molto diverse a causa della diversa distanza dal Sole.

L’acqua liquida non è solo necessaria alla vita come la conosciamo. Questa è importante anche per il suo ruolo di lubrificante per le placche tettoniche e del mantello superiore. Essendo infatti abbastanza solubile nei silicati fusi, l’acqua penetra in profondità giù fino al mantello e permette alle placche tettoniche di muoversi più facilmente riducendone l’attrito reciproco. È quindi una componente importante della litosfera, lo strato più esterno del pianeta, che comprende la crosta e la parte più esterna del mantello responsabile della tettonica a zolle.
All’epoca della sua formazione, la relativamente poca acqua presente nella fascia più interna del Sistema Solare era chimicamente legata a silicati idrati e ai composti del carbonio più pesanti. Questa era però sufficiente a fornire una discreta quantità di acqua 1 ai neonati pianeti.
Le condizioni di pressione e temperatura che si stabilirono nei pianeti subito dopo il raggiungimento dell’autosostentamento gravitazionale favorirono la loro differenziazione chimica in base al peso atomico e molecolare degli elementi: nel nucleo si accumularono quelli più pesanti, mentre nella parte più esterna si raccolsero tutti gli elementi più leggeri 2.
Questa differenziazione, altrimenti nota come Catastrofe del Ferro, liberò l’acqua dai silicati fusi e fornì ai pianeti ancora non del tutto formati una prima, spessa atmosfera composta da diossido di carbonio e vapore acqueo.
Al di sotto di quella coltre di gas, i pianeti non avevano ancora una crosta solida ma una superficie di magma caldo e viscoso.

Lo studio giapponese

Due tipi distinti di pianeta terrestre. L'asse x superiore mostra la corrispondente radiazione stellare netto iniziale. La freccia indica la troposferico limite di radiazioni. Il critico distanza orbitale di acr, 0,76 AU separa l'orbitale regimi dei due tipi di pianeta. una, tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo richiesto per la completa perdita di acqua primordiale. Questo fornisce una buona approssimazione del tempo di solidificazione di pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo (vedi supplementare Informazioni). b, Totale rimanenze acqua al momento della completa solidificazione. A forte transizione è esposta a circa acr.

Le due distinte classi di pianeti rocciosi simili alla Terra
L’ascissa superiore mostra la radiazione stellare iniziale. La freccia indica il limite troposferico alle radiazioni. La distanza orbitale critica di circa 0,76 UA distingue i due tipi di pianeta. Nel riquadro a  è indicato il tempo di solidificazione. Le linee tratteggiate indicano il tempo necessario alla completa perdita dell’acqua primordiale. Questo dato fornisce una buona stima del tempo necessario alla solidificazione dei pianeti di tipo II. il massimo viene visualizzato anche il tempo di solidificazione per I pianeti di tipo I.
Nel riquadro b viene indicata la quantità di acqua rimasta al momento della completa solidificazione della crosta planetaria.
Credit: Keiko Hamano.

Qui entra in gioco uno studio del dipartimento Terra e Scienze planetarie dell’Università di Tokyo condotto da Keiko Hamano, Hidenori Genda e Yutaka Abe e pubblicato su Nature a fine maggio scorso.
Questo studio mostra come la distanza dalla loro stella possa influenzare l’evoluzione dei pianeti rocciosi.

Entro una certa distanza la radiazione stellare 3 impedirebbe la dispersione del calore in eccesso dei pianeti ancora fusi con conseguenze catastrofiche per la loro evoluzione.
L’evoluzione termica di un oceano di magma è strettamente legata alla formazione di vapore  acqueo nell’atmosfera. Una massiccia presenza di vapore acqueo nell’atmosfera comporta un tremendo effetto serra che diminuisce la radiazione in uscita dal pianeta e ritarda il processo di solidificazione.  A sua volta se questo flusso radiativo viene interrotto da uno stato di equilibro energetico con la radiazione stellare allora la superficie planetaria non può solidificarsi e il processo di rilascio dell’acqua sotto forma di vapore da parte del magma continua, ipersaturando l’atmosfera e svuotando il pianeta di tutta la sua acqua.
Questo processo di feedback positivo può prolungare l’opera di solidificazione del magma fino a 100 milioni di anni portando il pianeta al suo totale disseccamento.
Il resto dell’evoluzione è abbastanza chiara: l’assenza di acqua nella litosfera impedisce la formazione di zolle continentali e quindi di qualsiasi processo tettonico. La crosta planetaria diventa quindi più spessa e uniforme bloccando il flusso di calore che dal nucleo si propaga prima nel mantello e poi alla superficie.
In assenza di correnti convettive nel mantello anche la rotazione differenziale del nucleo si arresta e smette di generare un campo magnetico planetario 4. Intanto la radiazione stellare dissocia il vapore acqueo nei suoi componenti e soffia via l’idrogeno dall’atmosfera, mentre l’ossigeno si lega al monossido di carbonio trasformandosi in anidride carbonica. Così l’atmosfera del pianeta si satura di anidride carbonica 5 e l’effetto serra prima dovuto principalmente al vapore acqueo adesso è sostituito dalla quasi altrettanto efficace CO2.
Così la superficie planetaria rimane molto calda, il calore dell’interno non può quasi più defluire mentre l’atmosfera diviene sede di importanti moti convettivi dovuti all’incredibile gradiente termico tra la superficie del pianeta e lo spazio esterno.

Tutto questo è stato possibile da un iniziale stato di equilibrio energetico tra la radiazione stellare incidente e la temperatura dell’atmosfera del pianeta ancora fuso.
Nel caso in cui invece al calore sia consentito di defluire nello spazio il processo di raffreddamento procede molto più velocemente – pochi milioni di anni – consentendo al pianeta di mantenere gran parte della sua acqua nel mantello e favorendo così lo sviluppo di placche continentali. Una superficie molto più fresca consente al calore del nucleo di raggiungere la superficie attraverso moti convettivi che rimescolano il mantello e consentono al nucleo di girare indipendentemente dal resto del pianeta e generare un campo magnetico planetario. Col raffreddamento della superficie il vapore si converte in pioggia e assorbe parte dell’anidride carbonica dall’atmosfera sotto forma di acido carbonico. La riduzione dei gas serra rende l’atmosfera ancora più trasparente alla radiazione infrarossa che così disperde più energia nello spazio.
Il feedback negativo è evidente, così il pianeta si raffredda così velocemente che in pochi milioni di anni è completamente diverso dal suo gemello nato più vicino alla stella.

Conclusioni

Non c’è motivo per dubitare che gli altri sistemi planetari si siano formati in maniera dissimile al nostro, pertanto è ragionevole pensare che meccanismi simili si possano verificare anche per altri sistemi planetari.
Le supposizioni dello studio giapponese si adattano alla perfezione a quello che sembra che sia successo qui, con Venere caldo e secco e la Terra così fresca e umida.
Un meccanismo semplice, la distanza dal Sole, che si sposa perfettamente con i dati osservativi che abbiamo.
I ricercatori giapponesi suddividono così i pianeti rocciosi in due classi: il tipo I, la Terra che si è evoluta in un mondo fresco e umido, e il tipo II, caldo e secco come Venere. Il limite lo pongono a circa 0,8 U.A. dal Sole 6.
Fermo restando la suddivisione in due diverse classi di pianeti, io credo che sia meglio parlare di limite inferiore per lo sviluppo geologico di un pianeta potenzialmente abitabile. Così come esiste una Circumstellar Habitable Zone dimensionata dalla radiazione stellare, ora scopriamo che questa impone anche un limite che regola l’evoluzione geologica di un pianeta ed è un altro dettaglio importante da non trascurare nella ricerca dei pianeti potenzialmente abitabili.


Bibliografia:

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Note:

Le correnti dello spazio

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Credit: Max Camenzind @ CamSoft, University of Heidelberg.

Credit: Max Camenzind @ CamSoft, University of Heidelberg.

Credit:

Credit: H. Courtois, D. Pomarède; SDvision

Credo che ormai siano rimasti in pochi a non avere mai visto una immagine come questa qui sopra: essa descrive in maniera abbastanza accurata la struttura a grande scala dell’Universo, da quando questo ha assunto il suo aspetto attuale dopo il disaccoppiamento tra materia ed energia, la formazione delle prime galassie ad oggi. La pressione di espansione dell’Universo ha diradato la materia in lunghi filamenti che l’attraversano per intero, intervallati da ampi spazi di vuoto che neppure la migliore tecnologia attuale può riprodurre: un atomo di idrogeno – un protone e il suo elettrone – per metro cubo. Però sono tutte immagini più o meno statiche, molti filmati non fanno altro che evidenziare la geometria frattale dell’Universo con zoom più o meno elaborati. Quello che hanno fatto invece i ricercatori Helene Courtois, Daniel Pomarede, Brent Tully, Yehuda Hoffman e Denis Courtois è stato di creare un filmato dell’universo locale tenendo conto  e rappresentando  i moti peculiari di oltre 30000 galassie comprese in circa 350 milioni di anni luce 1.

Il dipolo perfetto mostrato dal Cosmic Background Explorer nella Radiazione Cosmica di Fondo indica che l'Ammasso della Vergine, a cui appartiene la Via Lattea e il Gruppo Locale, è dotato di un moto centrato sul superammasso chiamato Grande Attrattore.

Il dipolo perfetto mostrato dal Cosmic Background Explorer nella Radiazione Cosmica di Fondo indica che  la Via Lattea – e il Gruppo Locale – si muove verso l’Ammasso della vergine che a sua volta si muove apparentemente verso il Grande Attrattore.

Le galassie prese in esame non sono poi molte, tenendo conto di un limite ragionevole alla magnitudine bolometrica pari a $M_B$ -16. Praticamente tutte le galassie comprese entro un raggio di 43 milioni di anni luce sono state incluse nello studio, mentre a 350 milioni di anni luce solo una galassia su 13 è stata presa in esame, per un totale che rappresenta comunque il 40% delle galassie racchiuse nello spazio considerato. I rimanenti oggetti più deboli dovrebbero ragionevolmente seguire le medesime influenze delle galassie più luminose e pertanto la loro assenza non è poi così significativa.

Tra i diversi temi affrontati, questa ricerca prova a dare una spiegazione anche alla polarità osservata nella Radiazione Cosmica di Fondo (Cosmic background radiationCMB in inglese) che mostra come la Via Lattea abbia un moto peculiare di circa 630 km/s rispetto ad essa. Questo studio evidenzia infatti almeno due grandi correnti distinte che si muovono verso strutture molto più grandi – superammassi – di cui solo uno, il Grande Attrattore 2, è compreso nello spazio preso in esame. Queste correnti fanno da cornice a vaste zone di vuoto, il Vuoto Locale 3  e finora sono state staticamente interpretate come fogli, gusci o filamenti di galassie, mentre preferisco vederle in modo più dinamico, correnti di materia che attraversano l’Universo.

Ma adesso lasciamo parlare  le immagini. Buona visione.

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Altri riferimenti:

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Note:


La Via Lattea vista dal Qomolangma

Credit: http://www.flickr.com/photos/ykumsri/

Qomolangma è il nome tibetano del monte Everest (si pronuncia Chomolangma) che significa “Dea della montagna”. Noi la chiamiamo Everest dal nome del geometra Sir George Everest che ne disegnò una mappa nel 1852. Ma i primi in realtà furono i cinesi della dinastia Qing (1644-1912) che ne fecero una mappa nel 1717.

Castore & Polluce

Non capita poi spesso ma qualche volta mi stupisco anch’io. Come per questa foto ripresa nel bel mezzo del nulla, con il mio smartphone appoggiato sul tettuccio dell’auto e sorretto dal  portamonete.

Questa sera stavo percorrendo la mia solita strada ad un’ora piuttosto insolita – per me – per sbrigare una faccenda.
Bassa all’orizzonte, vividissima, appariva Venere rapendomi il mio sguardo. Non conto più le volte che ho osservato quella luce vividissima, al mattino, prima dell’alba, la sera subito dopo il tramonto fino a tardissimo quando è più lontana dal Sole. Ho persino visto la sua ombra, quando è più brillante che mai.
Così decido al ritorno di fermarmi a fotografare il fulgido pianeta, giusto per provare un nuovo programma di scatto sul mio smartphone che promette di regolare il tempo di esposizione.
Quello che vedete è il risultato: la risoluzione non eccelle, 1280 x 720 a lunga esposizione, ma 3200 ISO, apertura f/2,4 per una lunghezza focale di 4,48 millimetri e soprattutto ben 5 secondi di esposizione hanno fatto la differenza.

Così nella foto ho trovato Venere, Castore, Polluce e Capella. Una buona ripresa, non c’è che dire!

Le continue sorprese di Oppy

La roccia pallido in alto al centro di questa immagine, delle dimensioni di un avambraccio umano, include un obiettivo chiamato "Esperance", che è stato ispezionato da Mars Exploration Rover Opportunity della NASA. I dati di particella alfa a raggi X spettrometro del rover (APXS) indicano che la composizione di Esperance è più alta in alluminio e silicio, e più basso di calcio e ferro, di altre rocce Opportunity ha esaminato a più di nove anni su Marte. Punti di interpretazione preliminari al contenuto di argilla minerale a causa di alterazione intenso da acqua. Credit: NASA/JPL-Caltech/Cornell/Arizona State Univ.

La roccia più chiara al centro di questa immagine, chiamata “Esperance”, è stata analizzata dal Mars Exploration Rover Opportunity della NASA. I dati dello spettrometro del rover (APXS) indicano che la composizione di Esperance è più ricca di alluminio e silicio, e più povera di calcio e ferro delle altre rocce fin qui esaminate in più di nove anni su Marte. 
Credit: NASA/JPL-Caltech/Cornell/Arizona State Univ.

C’è stato sicuramente un tempo in cui l’ambiente marziano era molto più complesso e per certi versi più bizzarro di quanto appaia oggi.
Nel suo cammino Curiosity ha scoperto il letto di un antico fiume e la presenza di bacini argillosi, testimoni silenziosi di un passato ricco di acqua. Al contrario,  il  Mars Reconnaissance Orbiter ha mostrato che i sedimenti del Monte Sharp verso cui Curiosity sta viaggiando sono di origine eolica quando gli scienziati si aspettavano sedimenti idrologici. Prima di cedere tre anni fa, il robottino ad energia solare Spirit scoprì sedimenti di carbonati 1 presso un gruppo di rocce battezzate Comanche, all’interno del Cratere Gusev, chiaro indicatore che lì era scorsa acqua con un pH abbastanza neutro 2, mentre dall’altra parte di Marte, Meridiani Planum, Opportunity trovò della jarosite, un minerale del gruppo delle aluniti, che si forma in presenza di acqua e terreni molto acidi 3.
Il 12 maggio scorso Opportunity (Oppy per gli amici) ha scoperto nelle stessa regione, nei pressi del Cratere Endeavour, una roccia che in passato è stata a contatto di acqua molto meno acida di quanto finora avesse analizzato.

L'affioramento Esperance al microscopio.

L’affioramento Esperance al microscopio.
Credit: NASA/JPL-Caltech/Cornell Univ./Arizona State Univ.
Elaborazione: Alive Universe Images

Questa roccia, chiamata Esperance è un affioramento argilloso ricco di alluminio e silicio e piuttosto povero di calcio e ferro rispetto alle rocce incontrate finora su Meridiani Planum. La presenza di smectite 4 nei pressi del cratere Endavour era stata segnalata da circa due anni dal Mars Reconnaissance Orbiter.

In assenza di strumenti atti a erodere la superficie marziana, i tecnici di Opportunity hanno dovuto raschiare il suolo con ripetuti passaggi del rover sul solito punto, rischiando anche di mancare l’appuntamento col luogo prefissato per il letargo invernale del piccolo robot 5.

Niente paura, Opportunity solca la superficie marziana da più di 9 anni e in tutto questo tempo ha percorso più di 36 chilometri sulla superficie di un altro pianeta. Il record per ora è del rover sovietico Lunokhod 2  che nel 1973 percorse circa 37 chilometri sulla Luna, Oppy saprà fare sicuramente di meglio negli anni a venire regalandoci altre meravigliose avventure!


L’equilibrio idrostatico nelle atmosfere planetarie

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Cercare altre forme di vita complesse al di fuori del nostro pianeta non può prescindere dal cercare innanzitutto habitat anche solo potenzialmente adatti; per questo ho in passato affrontato temi importanti come la stima della CHZ (Circumstellar Habitable Zone), dello spessore delle atmosfere e della necessità di un campo magnetico planetario adeguato a protezione di queste. Solo il tempo e nuovi strumenti di indagine potranno aiutare ad individuare questi habitat alieni, io mi limito solo a indicare, anche col vostro prezioso contributo di commentatori, quali condizioni a contorno sono necessarie – allo stato attuale delle conoscenze – affinché un habitat sia potenzialmente adatto alla Vita.

equilibrio idrostatico

Gli strati di una atmosfera e il loro equilibrio idrostatico.
Credit: Il Poliedrico

Dopo avere visto quali meccanismi sono alla base della genesi di una atmosfera planetaria e quali altri elementari meccanismi regolano il suo spessore, adesso è giunto il momento di affrontare il tema forse più ostico di tutti: quali sono le condizioni fisiche di una atmosfera.
Queste condizioni non sono solo dettate dalla cruda composizione chimica ma anche dai valori di temperatura, densità e pressione presenti.
Ad esempio dalla stima della pressione è possibile ipotizzare la presenza di acqua in fase liquida sulla superficie di un pianeta per un dato intervallo di temperature sopra il suo punto di congelamento 1, una delle diverse condizioni a contorno – probabilmente – necessarie alla nascita e allo sviluppo della Vita.
La temperatura è l’energia cinetica delle particelle, più essa è alta e più velocemente gli atomi – oppure le molecole – si muovono, mentre per la densità dei gas di solito ci si riferisce al numero delle particelle per unità di volume.
La pressione di un gas è la quantità di forza esercitata su una superficie per unità di area dalle sue particelle costituenti 2 che si muovono in modo del tutto casuale e la cui velocità è proporzionale alla temperatura del gas.
Riassumendo questo concetto in termini puramente matematici scriveremmo:
\[
P_{ressione}=\frac{F_{orza}} {A_{rea}}
\]
In pratica potremmo considerarlo il peso dell’aria su una superficie al livello del mare: un chilogrammo per centimetro quadrato sulla Terra, su Venere sarebbero 92 Kg/cm2 (92 bar) e così via 3.

Questi tre parametri apparentemente così diversi sono in realtà legati 4 da una equazione di stato, la Legge dei Gas Perfetti. Adesso in natura non esiste un’atmosfera che sia un Gas Ideale, ma molti gas reali, quali azoto, ossigeno, idrogeno etc. possono essere considerati con buona approssimazione come Gas Perfetti.
Per questa legge, un raddoppio di temperatura o un raddoppio della densità di un gas porta al raddoppio della sua pressione 5.

spinta idrostatica piccolaMa come abbiamo visto nel precedente articolo, la gravità svolge un ruolo determinante per determinare lo spessore, e quindi il volume, di una atmosfera. La gravità attrae verso il suo centro tutte le sue particelle – potremmo dire verso il basso – mentre l’agitazione termica delle particelle le si oppone.
Con un volume ben definito, possiamo immaginare una atmosfera come un qualsiasi sistema (recipiente) chiuso. Qualsiasi variazione nella densità o nella temperatura di una atmosfera quindi si riperquoterà sulla sua pressione. Ma esiste un equilibrio ben preciso che lega la pressione di un gas alla forza di gravità: si chiama equilibrio idrostatico 6.
Come mostra la figura qui accanto, alla gravità si oppone una forza chiamata gradiente di pressione verticale. Una particella a una certa quota è sovrastata da un numero minore di altre particelle rispetto a una che è al suolo, per cui la pressione esercitata su di essa dalle altre decresce con l’aumentare dell’altezza. Questo spinge i gas a salire, cioè a passare da dove la pressione è maggiore verso quote dove la pressione è minore, opponendosi alla forza di gravità. Quando le due forze opposte si bilanciano si parla appunto di equilibrio idrostatico. Questo processo suddivide l’atmosfera in strati di diversa pressione e temperatura – e per certi versi anche di composizione chimica –  diversi tra loro.
Matematicamente avremmo:
\[
F_P=\Delta P \cdot A
\]
Dove $\Delta P$ è la differenza tra la pressione inferiore e quella superiore di uno strato mentre $A$ è la sua area analizzata. Invece la forza di gravità è data da:
\[
F_G = -m \cdot g
\]
dove $g$ è l’accelerazione di gravità del pianeta considerato 7 e $m$ la massa dello strato di atmosfera considerato. Se l’equilibrio idrostatico si ha quando $F_P=F_G$ e se $\Delta z$ è lo spessore dello strato indicato di densità $p$ allora:
\[
\Delta P \cdot A = -p \cdot A \cdot \Delta z \cdot g
\]
ossia
\[
\frac{\Delta P} {\Delta z} = -p \cdot g
\]
Ovviamente questa trattazione matematica è sui generis, non tiene conto di migliaia di altri fattori come l’insolazione, i moti verticali nel fluido atmosferico, la Forza di Coriolis, i venti etc. Semplicemente dice quanto la pressione – legata al prodotto tra la densità dello strato $p$ e $g$ – vari di una certa quantità $\Delta P$ al  variare di una certa quota $\Delta z$.

Con questo articolo non si conclude certo l’argomento trattato, ossia le atmosfere planetarie, ma aggiunge un altro tassello al complesso mosaico della planetologia nella speranza che un giorno potremo veramente studiare una vera atmosfera di un esopianeta roccioso. Spero che questa mia fatica ricompensi voi lettori a leggerla quanto me a scriverla.


La genesi delle atmosfere planetarie

Nello scorso articolo ho mostrato come lo spessore di una atmosfera planetaria sia sostanzialmente il risultato di un compromesso tra due forze opposte: la velocità di fuga e la velocità molecolare dei gas che la compongono. Ma per comprendere questa componente essenziale di un pianeta occorre capire come si forma.

In questa immagine del 2007 ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale si può vedere un riflesso del Sole sull'Oceano Pacifico. Questo è quello che gli astronomi tentano di rilevare. Credit: NASA

Questa immagine è stata ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale nel 2007 e mostra parte dell’Oceano Pacifico. Le nubi e l’acqua liquida rendono questo pianeta perfetto per ospitare la vita. Credit: NASA

Una atmosfera planetaria è governata principalmente da due forze contrapposte. Il risultato finale è una stratificazione dei gas che la compongono: gli elementi più pesanti e lenti occupano gli strati inferiori, contribuendo così in maniera determinante alla composizione chimica dell’atmosfera al suolo mentre quelli più leggeri – e veloci – determinano la chimica degli strati superiori.

Però purtroppo questi indizi di per sé importanti non dicono poi molto sulla composizione chimica finale che dovremmo aspettarci in un pianeta. Per quello, per ora, l’unico modo che abbiamo per cercare di capire la composizione di un’atmosfera è quella di rifarsi alla storia del nostro Sistema Solare e alle teorie più accreditate sulla formazione dei sistemi planetari 1.

La cattura nebulare

I pianeti rocciosi del nostro Sistema Solare si formarono in una zona densa e calda (circa 700-1000 Kelvin) del disco protoplanetario 2, ricca di elementi chimici pesanti – ne è la prova la densità media dei pianeti stessi – e piuttosto povera di quelli più leggeri 3. Questo significa che di elementi e composti gassosi sopravvissuti alla fase di formazione planetaria ce n’erano davvero ben pochi e le primitive atmosfere composte prevalentemente da idrogeno scomparvero appena il Sole iniziò a brillare quasi 5 miliardi di anni fa. Queste tenui atmosfere vennero spazzate via dal vento stellare che ripulì – e raffreddò – l’appena nato sistema planetario, mentre i precursori degli attuali pianeti continuarono a raccogliere i grumi di materia ormai solida che incontravano durante la loro orbita. Quei grumi, conosciuti come materiale asteroidale, ogni tanto giungono ancora oggi sulla Terra e li chiamiamo meteoriti.

Il degasaggio durante l’accrezione

Questo meccanismo è una via di mezzo tra la cattura nebulare e il degassamento tettonico. La cattura dei corpi minori che si erano solidificati dopo l’accensione della stella da parte dei protopianeti maggiori, continuò per svariati milioni di anni, seppur in maniera decrescente con l’andar del tempo 4.
Molti di questi corpi avevano incorporato e protetto dalla radiazione stellare parte del gas nebulare, altri avevano incorporato alcuni composti particolarmente volatili come ioni ossidrili (OH), acqua, carbonio, zolfo e cloro nella loro struttura chimica, altri ancora potevano aver intrappolato i composti volatili con entrambi questi metodi.
Questi corpi una volta catturati dai protopianeti avrebbero potuto liberare parte o tutto il materiale più volatile in loro possesso dando luogo a una primitiva atmosfera.

Il degassamento tettonico

I pianeti appena formati erano molto caldi, oltre il punto di fusione delle rocce. Questo era dovuto principalmente sia al continuo impatto dei corpi minori sulla loro superficie, che ai fenomeni di decadimento radioattivo degli isotopi pesanti che i pianeti avevano catturato durante il loro processo di formazione. Iniziò quindi un processo di differenziazione planetaria che portò alla separazione degli elementi chimici più pesanti da quelli più leggeri 5 e all’avvio di imponenti fenomeni tettonici che liberarono enormi quantità di gas come vapore acqueo, anidride carbonica, idrogeno, acido cloridrico, ossido di carbonio, zolfo e azoto, molto simili ai gas che ancora oggi i vulcani terrestri ancora emettono.

Nel Sistema Solare

Diagramma di fase dell'acqua. La possibilità dell'acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali. Fonte dell'immagine: Wikipedia.

Diagramma di fase dell’acqua.
La possibilità dell’acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali.
Fonte dell’immagine: Wikipedia.

Restando all’interno del Sistema Solare, Mercurio, che oltre ad essere il più piccolo pianeta roccioso del sistema, è anche il più vicino al Sole e ha la densità più alta di tutti: 5,43 g/c3. Non possiede una  atmosfera imponente come Venere e Terra, ma neppure come Marte che, nonostante sia il doppio come dimensioni, ha una gravità superficiale – e quindi una velocità di fuga – molto simile. Infatti la pressione superficiale al suolo di Mercurio è appena 10-15 bar, mentre quella di Marte è ben più importante: 0,006 bar!
Venere e Terra sono molto simili come dimensioni, massa e densità. Eppure Venere ha una gigantesca atmosfera ipersatura di anidride carbonica mentre la Terra, fortunatamente per noi ora, no. Venere è più vicina al Sole e il suo periodo di rotazione è ora di oltre 116 giorni terrestri. Sicuramente questo non è stato sempre così, la possente atmosfera e l’azione mareale del Sole su di essa hanno agito da freno sul pianeta. Su Venere l’acqua che veniva rilasciata dai fenomeni tettonici e quella catturata dalle comete non è riuscita a liquefarsi e a catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera facendola precipitare come carbonato sul fondo degli oceani. Niente acqua liquida alla superficie vuol dire che anche l’attività di subduzione si è progressivamente fermata. Questo significa che anche il ciclo di trasporto del carbonio nel mantello del pianeta si è fermato e il calore interno adesso viene trasportato solo da fenomeni parossistici di vulcanismo che rilascia ancora ingenti quantità di altri gas serra come anidride carbonica e vapore acqueo rimasti intrappolati nel mantello dal tempo della sua formazione. Ecco perché Venere ha una atmosfera composta perlopiù da anidride carbonica (il 95%) all’incredibile pressione di 92 bar e a circa 730 Kelvin di temperatura al suolo!
Per la Terra non ho molto da dire, ho già descritto la storia della sua atmosfera in passato 6, senonché la maggiore distanza dal Sole ha permesso qui all’acqua di liquefarsi e di sottrarre l’anidride carbonica dall’aria. L’acqua liquida è arrivata fino alla parte superiore del mantello dove ha così potuto mantenere attiva la dinamica della tettonica a zolle che ha dissipato buona parte dell’energia dovuta al calore interno del pianeta che così non è finita ad alimentare un grande vulcanismo come quello venusiano. In più non dimentichiamo l’importante ruolo che ha svolto la Luna sull’evoluzione della nostra atmosfera. Infatti la Terra è l’unico pianeta roccioso del Sistema Solare ad avere un imponente satellite – Phobos e Deimos di Marte sono solo due asteroidi catturati dal Pianeta Rosso per caso. La Luna ha stabilizzato il piano di rotazione della Terra come se l’intero sistema Terra-Luna fosse un enorme giroscopio, impedendo così all’azione mareale del Sole di dominare la rotazione del nostro pianeta  – come è invece successo a Venere – e al contempo ha sottratto tanta atmosfera proprio con le sua forza di marea. Il risultato è stata una atmosfera un po’ più sottile, una rotazione più stabile e anche il meccanismo della tettonica a zolle si è giovato della forza mareale lunare. Che dalla Sorella Luna forse sia dipesa l’abitabilità – per noi terrestri -di questo mondo probabilmente è un dato di fatto.

Su Marte e la sua atmosfera ho parlato qualche giorno fa, quindi ho poco altro da aggiungere. Marte è troppo piccolo per trattenere una atmosfera apprezzabile, appena 6 millesimi di bar al suolo. Forse però in passato grazie alla sua primordiale attività geologica che ci ha lasciato imponenti edifici vulcani ha potuto pompare abbastanza gas serra per mantenere per un breve periodo – forse qualche centinaio di milioni di anni – l’acqua allo stato liquido. Forse questo breve periodo ha visto nascere la Vita sul Pianeta Rosso, o forse no. Sulla Terra sono passati almeno 600 milioni o forse più prima che le prime forme di vita procariotiche si sviluppassero; e la Terra aveva sicuramente qualche carta in più da giocare rispetto a Marte.

Adesso sappiamo anche come si forma l’atmosfera di un pianeta roccioso, manca ancora cosa aspettarci a grandi linee sulla sua composizione, ma di questo ne parlerò prossimamente. Restate all’erta!