L’indice Af[rho] delle comete

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C/2012 S1 (ISON)  fotografata dall'astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

C/2012 S1 (ISON) fotografata dall’astrofotografo Damian Peach il 27 ottobre 2013. Credit: Damian Peach

La luminosità di ogni cometa aumenta quanto più questa si avvicina al Sole in proporzione al degassamento e vaporizzazione dei suoi componenti volatili. Per questo seguendone l’evoluzione nel tempo e confrontandola con la sua orbita, si possono ragionevolmente stilare delle previsioni.

Per esempio si possono confrontare i dati attuali della C/2012 (ISON) con quelli di altre comete del passato e provare a fare delle inferenze circa il suo comportamento attuale e futuro. Per questo viene usato un indice molto particolare e sconosciuto ai più che consente di studiare meglio il comportamento e l’evoluzione nel tempo di una cometa.
Questo indice si chiama $Af\rho$, detto anche Af[rho] 1 e prende in considerazione l’albedo $A$ 2, il rapporto fra la superficie occupata dalle polveri e l’area di campo osservata detto fattore di riempimento (filling factor in inglese) $f$ 3 4 e $rho$ è semplicemente la distanza dal nucleo presa in considerazione sulla lastra (immagine) 5.

L’equazione completa è:

\[

Af\left [ \rho \right ]={\frac{\left(2\Delta R\right )^2}{\rho}}{\frac{F_{com}}{F_{sole}}}

\]
Afρ

Qui $\Delta$ è la distanza geocentrica della cometa in esame (di solito espressa in centimetri), R è la distanza eliocentrica della cometa(di solito espressa in unità astronomiche), $F_{com}$ è il flusso della luce riflessa dalla cometa e $F_{sole}$ è il flusso di radiazione solare a 1 UA 6.
In pratica la quantità $Af\rho$ definisce l’altezza di un cilindro di superficie di base equivalente alla proiezione dell’apertura fotometrica riempita con i grani di polvere. Un valore di $Af\rho$ di 100 centimetri equivale più o meno a 100 chilogrammi di polvere prodotta per secondo.


Note:

Una colorita foresta (di bufale) su Marte

Foreste marziane

Credit:  NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Credit: NASA/JPL/Malin Space Science Systems.

Nonostante che siano passati ben 12 anni da quando il Mars Global Surveyor non risponde più ai comandi da Terra e la missione sia ufficialmente terminata,  in giro ci sono persone che ancora credono che il satellite abbia fotografato una foresta di alberi su Marte e che, nonostante questa evidenza, la NASA abbia messo tutto a tacere.
Questa qui accanto è una immagine ripresa il 19 ottobre 1999 dal MOC (l’originale potete trovarlo qui) e che ho dovuto tagliare  per ragioni di spazio. Qui vediamo delle strutture abbastanza regolari che ricordano sicuramente un po’ la chioma degli alberi, ma che sono oltremodo gigantesche per esserlo, almeno un chilometro di diametro, quanto 95 campi di calcio!
Le immagini che si trovano in giro sono …. verdi, nello spiacevole senso che sono artatamente ritoccate proprio per far credere che il MOC abbia ripreso della vera vegetazione 1, cosa tra l’altro impossibile visto che la camera ad alta risoluzione del MOC era in bianco e nero mentre le altre due, a bassa risoluzione, riprendevano una nel rosso e l’altra nel blu.

Ma cosa sono allora quelle cose che il Mars Global Surveyor ha mostrato?

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Credit: Arizona State University/Ron Miller

Semplice: sbuffi di anidride carbonica provenienti dal permafrost ghiacciato di Marte.
Marte è sostanzialmente un pianeta polveroso. i venti marziani in eoni di perenne siccità hanno eroso l’intera superficie del pianeta ricoprendolo di sabbia. Quando il MOC riprese queste immagini era metà ottobre, in piena primavera nell’emisfero sud marziano; la temperatura in quel momento era salita abbastanza da far sublimare il ghiaccio secco  intrappolato nel permafrost sotto un sottile stato di sabbia.
Il risultato è uno sbuffo di sabbia che s’innalza dal suolo e che ricade per un raggio di diverse centinaia di metri come l’artista Ron Miller ha magistralmente illustrato nel suo disegno.

 Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell'articolo.  di una zona 1,2 km di larghezza. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

Questa immagine dalla High Resolution Imaging Science Experiment (HiRISE) montata sul Mars Reconnaissance Orbiter copre una zona 1,2 km di larghezza e mostra il risultato dei geysers di polvere descriti nell’articolo. Credit: NASA/JPL-Caltech/University of Arizona

A maggior conferma di questi geysers di polvere è il fatto che nell’arco di poche ore essi sono  già estinti e lasciano sul terreno dei giganteschi arabeschi che con molta fantasia possono sembrare chiome di alberi spogli o ragni adagiati al suolo, oppure più semplicemente dei cumuli effimeri di polvere non ancora spazzati via da qualche tempesta di sabbia.

Il cielo marziano

Un altro teorema che coinvolge il Pianeta Rosso 2 è il colore del cielo che le immagini dal suolo riprese dalle varie sonde -Viking, Sojourner, Opportunity e Curiosity, tanto per citarne alcune – e diffuse dai centri di controllo missione appare ocra, giallastro o grigio e mai blu come sulla Terra 3 . Il motivo è assai semplice e un po’ si riallaccia con quanto ho detto sopra: Marte è un pianeta polveroso e la sua atmosfera è impregnata di questa polvere tanto da conferire questa tipica colorazione al cielo, un po’ come quando si segue una gara di rally su terra battuta e osserviamo il panorama attraverso le nuvole di polvere alzate dalle macchine. Questo perché la polvere diffonde la luce in maniera alquanto diversa dalle molecole dell’atmosfera dove comunque vale lo Scattering di Rayleigh 4.

Il cielo vicino al Sole sembra più blu nelle immagini da Marte, perché la polvere in "forward-scatter" luce blu aria, in altre parole ci vuole la luce blu dal Sole e si concentra più verso la macchina fotografica. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Luce che si riflette sulle rocce possono anche soffrire di tutti i tipi di squilibri colore troppo. Credit: Wikipedia

Su Marte Il cielo vicino al Sole appare un po’ più blu perché la polvere diffonde la luce blu dell’aria. Il cielo vicino al Sole sembra più blu, e più lontano sembra più rosso. Queste luci influenzano i colori percepiti nell’ambiente marziano.
Credit: Wikipedia

Per le particelle le cui dimensioni sono paragonabili o superiori alla lunghezza d’onda incidente vale lo Scattering di Mie 5, che diffonde in egual misura tutte le lunghezze d’onda della luce incidente.
Questo fenomeno altera e appiattisce tutti i colori 6, mentre le immagini che ormai siamo abituati a vedere sono frutto del sapiente bilanciamento delle varie riprese con filtri diversi che, a seconda dello scopo per cui sono progettate le varie fotocamere, spaziano dal violetto all’infrarosso.
Per questo i colori, che sono comunque il più vicino possibile ai colori reali 7 appaiono comunque sempre un po’ alieni. Dopotutto Marte è pur sempre un pianeta ancora a noi alieno!


Note:

Gli spettri in cucina

… ovvero come ottenere luce monocromatica divertendosi. 
Questo articolo non è un trattato di spetttroscopia, ma vuole spiegare in maniera divertente i principi fisici che ne sono alla base. In seguito potrà essere utile per capire perché certi fenomeni ci appaiono di un colore piuttosto che un altro, come ad esempio le aurore polari, così comuni nei pressi dei poli in questo periodo, che assumono talvolta i colori rosso, verde o violetto.

Prendete un po’ di questa roba:

  • cloruro di sodio (NaCl, sale da cucina)
  • cloruro di potassio (Kcl, sale dietetico per ipertesi)
  • cloruro di calcio (CaCl2, sale antigelo)
  • solfato di rame (CuSO4, si trova in qualsiasi negozio di giardinaggio)
  • un banale pezzo di sughero (un tappo da bottiglia va benissimo)
  • un ago da cucire piuttosto robusto
  • un fornello a gas
  • un bicchiere d’acqua

ago esperimentoBene. Ora infilzate il tappo con l’ago come in figura, così eviterete di scottarvi le dita durante l’esperimento. Se avete acceso il fornello, è il momento che bagnate la cruna del vostro nuovo utensile nell’acqua per poi immergerlo nel sale da cucina.
Ora, tenendolo per bene dalla parte del sughero, esponete la cruna dell’ago alla fiamma. Dovreste vedere adesso la fiamma cambiare colore e sprigionare un intenso giallo brillante.
Ripetete il processo con gli altri composti chimici: il solfato di rame vi darà una intensa fiamma verde, il cloruro di potassio una fiamma lavanda, il cloruro di calcio una fiamma rosso-arancione. Potete provare anche altri composti, come il cloruro di stronzio, carbonato di sodio, carbonato di calcio 1 per vedere il diverso colore sprigionato dalla fiamma al loro contatto 2.

Gli elementi metallici dei composti liberano un colore caratteristico quando vengono riscaldati da una fiamma. Quando gli atomi di un gas o di un vapore vengono eccitati, per esempio col riscaldamento come in questo caso o mediante l’applicazione di un campo elettrico come avviene nelle lampade a scarica, i loro elettroni acquistano energia e passano a uno stato energetico superiore o addirittura sfuggono dagli orbitali più esterni. Essendo questa una condizione instabile, appena l’energia acquisita viene a mancare questi elettroni decadono sul loro piano orbitale precedente – e/o riacquistano gli elettroni precedentemente persi – ed emettono energia luminosa, ossia fotoni. La lunghezza d’onda – il colore – è caratteristico quindi per ogni tipo di atomo e dal grado di eccitazione elettronica raggiunta.

Quando sentite parlare di elementi nelle stelle, ricordatevi questo esperimento: ogni elemento chimico e ogni composto ha la sua particolare firma nello spettro elettromagnetico che non ricade necessariamente nello spettro di luce a noi visibile. Quando gli atomi passano da uno stato fondamentale a uno eccitato assorbono energia (fotoni) corrispondenti a specifiche lunghezze d’onda che corrispondono all’energia necessaria agli elettroni per fare quel determinato salto quantico. Le righe scure che si osservano negli spettri stellari 3  sono dovute proprio a questa sottrazione di energia dall’emissione continua di Corpo Nero sottostante e ci appaiono scure. Al contrario, quando gli atomi tornano verso il loro stato fondamentale emettono luce come ho spiegato sopra e si parla di righe di emissione, tipiche dei gas caldi e rarefatti delle nebulose planetarie quando questi si ricombinano .


Note:

Il Canto delle Stelle

“Quid?, hic – inquam – quis est, qui complet aures meas tantus et tam dulcis sonus?” “Hic est – inquit – ille, qui intervallis coinunctus imparibus, sed tamen pro rata parte ratione distinctis, impulsu et motu ipsorum orbium efficitur et acuta cum gravibus temperans varios aequabiliter concentus efficit; nec enim silentio tanti motus incitari possunt, et natura fert, ut extrema ex altera parte graviter, ex altera autem acute sonent. (Somnium Scipionis, 18)
“Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?” “È il suono”, rispose, “che sull’accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l’una, acuti l’altra”.

Nella teoria pitagorica, il tessuto dell’Universo era composto da ritmi, numeri e proporzioni. Secondo il filosofo GiamblicoPitagora possedeva il dono di udire l’armonia musicale 1 degli astri 2. Pitagora fu colpito dalla proporzionalità matematica delle note emesse da una corda in vibrazione e la sua lunghezza 3, e si convinse che la stessa armonia governava le leggi cosmiche. Fino alla rivoluzione copernicana, filosofi e scienziati hanno speculato sulle proprietà matematiche dei sette pianeti allora conosciuti 4 associando ad essi una diversa nota musicale 5.

Con l’avvento della scienza moderna, la rivoluzione copernicana e il Metodo Sperimentale di Galileo, tutte le elucubrazioni filosofiche sulla musica delle sfere finirono. Finalmente fu compresa la reale natura del suono 6 e leggi della sua propagazione.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore (li costruivo a 14 anni).  Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

Questo è lo schema fondamentale di ogni ricevitore radio (li costruivo a 14 anni). Dalla radiolina al radiotelescopio, il principio è esattamente lo stesso.

E con Maxwell e l’elettromagnetismo si scoprì che alcuni fenomeni piuttosto comuni (la luce, il magnetismo e l’elettricità) erano diversi aspetti di un’unica cosa: la radiazione elettromagnetica. Questo aprì la strada alle invenzioni che avrebbero cambiato gli ultimi cento anni: il telefono e la radio. Queste invenzioni si basano sulla capacità di trasportare informazioni a bassa frequenza (audio e/o video) su un segnale elettromagnetico ad alta frequenza che si propaga a grande distanza senza un qualsiasi mezzo apparente che ne faccia da tramite 7.

Nel 1930 l’ingegnere della Bell Telephone Company Karl Jansky scoprì le emissioni radio provenienti dal centro della Via Lattea e in seguito molti altri continuarono le sue ricerche. A parte l’intervallo della Seconda Guerra Mondiale che assorbì quasi tutte le risorse economiche e molti scienziati nella guerra, le ricerche sui segnali radio extraterrestri continuarono. Anzi, molte scoperte e invenzioni fatte proprio durante il conflitto (il radar, i computer e l’ingegneria elettronica) furono fondamentali per lo sviluppo della nuova branca scientifica chiamata radioastronomia.

Adesso finalmente riusciamo a sentire il Canto delle Stelle.


Note:

Elucubrazioni matematiche

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Lungi da me l’idea di scrivere un corso sulla Meccanica Celeste, non credo che sarei neppure un mediocre insegnante, per carità, ma sento il dovere di spiegare come ho raggiunto i risultati illustrati nell’articolo scorso. Qualcuno penserà che un articolo simile è come voler spiegare una barzelletta dopo averla raccontata male, io penso invece che dimostrare il proprio metodo sia la cosa che distingue i ciarlatani dagli uomini di scienza, a cui non modestamente ho da sempre aspirato.

kepler II lawNello sorso articolo ho fatto riferimento alla velocità di un corpo all’interno del Sistema Solare.  Non è difficile quanto sembri calcolare questo dato;  basta applicare un po’ di meccanica celeste e via.

L’equazione da me usata è comune per tutti gli oggetti in movimento nello spazio,  siano essi un satellite in orbita,  un pianeta, una cometa o un asteroide:

\[

v=\sqrt{ GM \mult \left ( \frac{2}{d}-\frac{1}{a} \right ) }

\]

dove $G$ è la Costante di gravitazione Universale,  pari a $6,67428 \cdot 10^{-11} \frac{m^3}{kg \cdot s^2}$ e $M$ è la massa del corpo principale (in questo caso il Sole, pari a $1,98914 \cdot 10^{30}kg$) espressa in chilogrammi, supponendo che la massa dell’oggetto in indagine sia trascurabile rispetto a questa.
$d$ è la distanza del baricentro dell’oggetto in esame dal baricentro del corpo principale che occupa uno dei fuochi dell’orbita ed ovviamente è espressa in metri. $a$ invece è il semiasse maggiore e anch’esso è espresso in metri. Ma spesso questa informazione è espressa in U.A.  per cui basta moltiplicare questo valore per $1, 496 \cdot 10^{11}$ metri per avere il dato richiesto.

A puro titolo informativo, anche se non è il caso descritto nell’articolo, per i corpi in orbita ellittica 1 è comune usare un parametro indicato con $e$ per identificare l’eccentricità di un’orbita. In un’orbita ellittica questo parametro non è altro che il rapporto tra la distanza di un fuoco dal centro ed il semiasse maggiore dell’orbita. Per cui basta moltiplicare il semiasse maggiore per $1-e$ per ottenere il periapside (il punto più vicino dell’orbita al fuoco principale),  e per $1+e$ per l’apoapside (il punto più lontano).

In quell’articolo ho citato anche un altro dato: il Limite di Roche, che indica la distanza che un qualsiasi oggetto celeste può raggiungere prima di essere frantumato dagli effetti di marea causati dal corpo verso cui orbita 2. Questo limite è proporzionale alla radice cubica del rapporto tra la densità del corpo principale $\rho_M$ e la densità del corpo secondario $\rho_m$ moltiplicata per il raggio del corpo principale $R_M$ (in questo caso il Sole, pari a $6,96 \cdot 10^{8}$) e un numero fisso approssimato a $2,44$ per i corpi solidi e $2,423$ per i corpi fluidi. Usando appunto quest’ultimo ho notato che i valori a me restituiti erano coerenti con altre osservazioni precedenti di cui ero a conoscenza.

\[

d = 2.423\mult R_M  \sqrt[3]{ \frac {\rho_M} {\rho_m}}

\]

Anche qui i valori delle distanze e le lunghezze sono espresse in metri  mentre le densità per mia comodità sono espresse in $g/cm^{3}$ ma nulla vieta di usare altre scale come $kg/m^{3}$.

Con questo credo di aver finito, altre piccole cose le lascio scoprire a voi lettori che avrete la pazienza di ripercorrere il mio lavoro. Chissà potrei aver sbagliato qualcosa e non essermene accorto!


Note:

Le incerte sorti della C/2012 S1 (ISON)

Non è nel mio costume azzardare previsioni campate in aria. Quello è un compito che lascio volentieri agli ‘strologi e alle migliaia di altri ciarlatani che si nascondono dietro nomi e titoli altrettanto roboanti. Qui mi limiterò a far presente quello che potrebbe andare storto alla cometa C/2012 S1 durante il suo passaggio al perielio.

La cometa C/2012 S1 (ISON) ripresa il 14 settembre da Gianluca  Masi per VirtualTelescope. Qui sono riportate anche le magnitudini di due stelle per la calibrazione visuale.

La cometa C/2012 S1 (ISON) ripresa il 14 settembre da Gianluca Masi per VirtualTelescope.
Qui sono riportate anche le magnitudini di due stelle per la calibrazione visuale.

La C/2012 S1 (ISON) è, come ho già avuto modo di scrivere, una cometa proveniente dalla Nube di Oort al suo primo passaggio attorno al Sole. Purtroppo le stime della luminosità della cometa fatte al momento della sua scoperta si sono rivelate fin troppo ottimistiche: da una magnitudine di -16 al momento del perielio fino all’attuale -4 / -6 attuale.
Tutto questo ha che vedere con la quantità di ghiaccio ed altri elementi volatili sublimati dalla radiazione solare da un certo punto in poi – la famosa linea del ghiaccio -della sua attuale orbita. Ovviamente qui entrano in gioco altri importanti fattori, come le dimensioni, la composizione chimica e la densità 1 [cite]10.1007/978-94-011-3378-4_9[/cite] 2. Le stime più recenti offrono un diametro della C/2012 S1 pari 4.5 -5 chilometri, per cui il volume potrà essere tra 1 (se fosse una specie di grossa patata allungata) e 65 chilometri cubici (se fosse uno sferoide) 3.
La composizione chimica la si può rilevare attraverso una analisi spettroscopica dei gas espulsi nella chioma, ma anche questo è solo un dato parziale: la composizione chimica della chioma varia significativamente lungo il percorso orbitale, alcuni elementi -come il metanolo o la più semplice anidride carbonica – sublimano a temperature e pressioni molto diverse da quelle dell’acqua, e anche l’albedo totale della cometa gioca un ruolo significativo nella temperatura superficiale dell’astro.
La C/2012 S1 si è formata presumibilmente in una zona dove l’influenza gravitazionale del Sole – nella Nube di Oort – è bassissima. Lì raggiungere l’autosostentamento gravitazionale è facilissimo: non essendoci importanti sollecitazioni gravitazionali come nel Sistema Solare Interno, corpi di pochi centimetri possono rimanere aggregati per molto tempo pur avendo densità molto basse. quindi c’è da aspettarsi che la densità media della C/2012 S1 sia comunque più bassa rispetto alle comete provenienti ad esempio dalla fascia di Kuiper.

La curva di luce prevista per la C/2012 S1 (ISON)

La curva di luce prevista per la C/2012 S1 (ISON)

Da una cometa di densità media molto bassa possiamo aspettarci che manifesti un’intensa attività del nucleo a distanze molto maggiori dal perielio rispetto alle comete più dense 4. Infatti, man mano che la C/2012 S1 si avvicina al Sole, la sua attività rimane grossomodo costante, in linea comunque con il corpo eccezionale qual è.
Semmai appunto è stata l’insolita attività manifestata quando era molto lontana a far sovrastimare le sue capacità al perielio.

Ma cosa succederà al perielio?
Gran bella domanda. Nel giro di 25 giorni – dal 6 ottobre al 1 novembre – la C/2012 S1 avrà attraversato la distanza che separa l’orbita di Marte da quella della Terra alla velocità compresa tra 32 e i 40 km/s e, nell’arco di altrettanti 27 giorni arriverà a sfiorare il Sole a soli 1,2 milioni di chilometri dalla superficie a una velocità attorno ai 370 km/s, ben entro al suo Limite di Roche 5, che io stimo essere tra i 2 e i 4 milioni di chilometri dal centro del Sole, in base appunto alla densità della cometa 6.

A questo punto tutti gli scenari sono aperti: se la cometa sarà abbastanza compatta resterà entro il Limite di Roche per circa 2 ore, forse abbastanza poco per non essere distrutta, mentre nell’altro caso estremo sarà sottoposta alla violenza mareale del Sole per oltre 6-7 ore, forse troppe per uscirne indenne. Conoscere anche la forma geometrica e la rotazione assiale della cometa sarebbero importanti per prevederne le sorti, ma sono dati purtroppo ancora sconosciuti.

Cosa accadrà alla cometa C/2012 S1(ISON) al momento del suo passaggio al perielio lo sapremo solo dopo il 28 novembre; per ora i dati che ho sono troppo pochi e arrivare fin qui non è stato affatto semplice. Troppe incognite, come massa e densità ho dovuto azzardarmele, mentre la forma, la composizione chimica, la percentuale di polveri solide e altri fattori che hanno un ruolo importante nell’esistenza della cometa mi sono sconosciute.

Ringrazio Euclide, Pitagora, Keplero e Roche per l’uso poco ortodosso che ho fatto della loro matematica per raggiungere questi risultati.


Altre citazioni:


Note:

La Congiunzione Luna – Saturno del 9 settembre

La congiunzione Luna-Saturno del 9 settembre 2013.
Credit: Il Poliedrico

Giustamente anch’io mi sono preso una pausa dallo scrivere, e me ne sono andato in vacanza.
In quest’ultimo anno ho scritto forse un po’ meno degli anni precedenti ma spesso ho trattato argomenti piuttosto impegnativi come le atmosfere planetarie, l’oscillazione dei neutrini e la presunta discesa da … Marte della vita su questo pianeta che hanno prosciugato la mia linfa.
Ora riprendo, con calma, donandovi questa porzione di cielo del 9 settembre scorso di cui – finalmente – sono stato testimone.

Cieli sereni

L’eterno dibattito insoluto: l’origine della Vita sulla Terra

Solo poche ore fa in un convegno scientifico di geofisica svoltosi a Firenze è stata presentata l’ipotesi che la vita sulla Terra abbia avuto piuttosto origine su Marte. Molti altri blog hanno ripreso la notizia come oro colato, ma non credo che sia così.

Cristalli di diossido di molibdeno (MoO2, in violetto).

Cristalli di diossido di molibdeno (MoO2, in violetto).

L’interscambio di materiale tra i pianeti del Sistema Solare in sé è, almeno in un senso, ampiamente provato, come i resti di antichi frammenti marziani rinvenuti sulla Terra mostrano 1 .
La teoria ora proposta a Firenze da Steven Benner 2 alla conferenza di geochimica Goldschmidt vuole che le condizioni passate su Marte siano state molto più favorevoli alla vita che sulla Terra, e che da lì, una volta sviluppata, la Vita – o più probabilmente i suoi precursori – sia finita sulla Terra attraverso il medesimo meccanismo meteorico.
La teoria di Benner parte dall’ipotesi che la Vita quale la conosciamo abbia avuto origine da molecole di RNA 3 e che alcuni metalli, il molibdeno 4 5  e il boro, abbiano avuto un ruolo determinante nella stabilizzazione delle prime molecole organiche nella sua forma altamente ossidata.
Diversi esperimenti mostrano infatti che il molibdeno e il boro, in forma di composti altamente ossidati, sono dei catalizzatori cruciali per la formazione delle molecole di RNA [cite source=’pubmed’]11906160[/cite] [cite source=’pubmed’]21221809[/cite]. Ad esempio, i catalizzatori a base di boro aiutano a stabilizzare le molecole di zucchero composte da cinque atomi di carbonio mentre i catalizzatori a base di molibdeno riorganizzano questi zuccheri in ribosio. Inoltre, l’abbondanza di acqua nella Terra primordiale avrebbe impedito la formazione delle molecole di RNA 6  e  la sostanziale assenza di ossigeno atmosferico avrebbe impedito la stabilizzazione del boro in borati  7  e dei catalizzatori di molibdeno.

Il meteorite MIL09000 ritrovato in Antartide nel 2010. Si ritiene che abbia circa 700 milioni di anni.  Credit: Johnson Space Center /NASA

Il meteorite MIL09000 ritrovato in Antartide nel 2010. Si ritiene che abbia circa 700 milioni di anni.
Credit: Johnson Space Center /NASA

A sostegno delle idee di Benner sono la scoperta di argille ricche di boro in un meteorite marziano, MIL 090030 [cite]10.1371/journal.pone.0064624[/cite] [cite]10.1111/j.1945-5100.2012.01420.x[/cite] e la straordinaria scoperta della ricca presenza di ossigeno nel mantello marziano almeno 3,7 miliardi di anni fa [cite]10.1038/nature12225[/cite].

Un ambiente ricco di ossigeno (il mantello marziano), il boro (nelle argille marziane)  e il molibdeno sono essenziali – secondo Benner – per la nascita e lo sviluppo di molecole di RNA, precursori di ogni altra forma di vita, e il primitivo Marte molto probabilmente lo era.

Per contro – e pare assurdo – le condizioni ambientali terrestri di quando si presume si siano formate le prime forme di vita 2-3,5 miliardi di anni fa, sono molto scarse a causa della dinamicità geologica del pianeta e resti più antichi di 3,8-4 miliardi di anni sono molto difficili da trovare e studiare 8. Per questo non sappiamo esattamente quali siano state le condizioni chimico-fisiche presenti sulla Terra alla fine dell’Adeano [cite]10.1038/nature10655[/cite] [cite]10.1038/nature11679[/cite] e se la Terra era umida quanto oggi o se, più probabilmente, molta acqua e ossigeno erano ancora intrappolati nel mantello superiore. 4 miliardi di anni fa il Sole era un po’ più debole di oggi e solo un massiccio effetto serra prodotto da una atmosfera satura di anidride carbonica e vapore acqueo scaldava il pianeta. Magari le condizioni auspicate per l’ipotesi marziana (molibdeno, boro e ossigeno) erano comunque presenti nel sottosuolo terrestre che offriva condizioni fisiche (temperatura, pressione etc.) piuttosto stabili e al riparo dalla radiazione ultravioletta del Sole che, in assenza di una barriera di ozono, sterilizzava la superficie del pianeta.

Finora le prove di Benner confermano che sul Pianeta Rosso sono esistite in un lontanissimo passato  le condizioni favorevoli allo sviluppo della Vita secondo la teoria del Mondo a RNA. Ma ci sono altre teorie, che mi riservo di spiegare più a fondo in seguito, che in assenza di prove contrarie meritano di essere altrettanto prese in considerazione. In attesa, o in assenza, di prove più concrete sull’origine marziana della Vita terrestre o dei suoi precursori, credo che sia opportuno continuare ad indagare e a supporre – per il momento – che la Vita sulla Terra sia autoctona 9.
Quindi perché scomodare il vulcanismo marziano o un impatto meteorico su Marte che ha scagliato RNA marziano qui dopo un viaggio di un paio di milioni di anni? Per me significa solo spostare lo storico dilemma.


Note:

Alla ricerca di altre forme di vita: i Ritmi Biologici

Un’ora vive la gialla farfalla ma il tempo ha che le basta.
Rabíndranáth Thákhur

Questa citazione viene attribuita al poeta indiano del XX secolo Rabindranath Tagore, ma probabilmente è più antica. Indica come la percezione del tempo intesa come scala temporale di vita di qualsiasi organismo è funzione unicamente del suo ciclo vitale. Di conseguenza ogni forma di vita ha i propri cicli vitali, molto diversi dagli altri e non sempre li percepiamo.

biological clockViene comune misurare ancora il tempo in generazioni umane, ossia l’intervallo temporale che c’è tra la nascita dei genitori e i loro figli, ma l’aspettativa di vita in questi 200 mila anni di homo sapiens è mutata tantissimo, da appena 15-20 di allora agli 80 di oggi, allungando di conseguenza l’intervallo generazionale da 10 anni della preistoria ai 25-30 di oggi.
Anche l’uso dell’intervallo di tempo che occorre alla Terra per compiere un’orbita, che chiamiamo anno, è abbastanza arbitrario: ad esempio se vivessi su Marte avrei solo 25 anni, mentre se  usassi l’anno venusiano avrei oltre 76 anni!
L’unica misura temporale veramente adatta per descrivere le funzioni degli esseri viventi è paradossalmente … (continua su Progetto Drake)