Mars

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Trailer della mini serie Mars di Ron Howard e Brian Grazer

A me non piace parlare di qualcosa che non conosco. Dopo aver visto questa mini serie – sei puntate di 47 minuti ciascuna – sento fortissimamente invece il bisogno di dire anch’io la mia.
Fantastica. Non possono esserci altre parole che questa per descriverla.
Anche se la storia principale è ambientata nel futuro (2033 – 2037), non trovo che il termine descrittivo fantascienza le si possa attribuire. È più una proiezione romanzata e piuttosto realistica di cosa dovrebbero aspettarsi i primi futuri esploratori umani di Marte.
In mezzo a questo plausibile scenario spezzoni di registrazioni di archivio, interviste e istantanee sullo stato attuale della ricerca per l’esplorazione umana del cosmo, trasformano la mini serie in un film documentario  molto ben fatto.
Mars non fa sconti. Tragedie umane, errori e incidenti vengono dipinti nella loro cruda realtà. Ma anche affetto, spirito di sacrificio e volontà sovrumane vengono evidenziate con altrettanta chiarezza.

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Il prequel di Mars in lingua originale

Ed è proprio su questi punti che vi invito a riflettere.
Marte è solo il principio. Se volessimo individuare un trampolino di lancio per il grande tuffo nell’Oceano Cosmico, solo Marte potrebbe esserlo. Nonostante possa essere strategicamente importante per l’esplorazione umana del cosmo, la Luna è ancora troppo vicina alla madre Terra perché possa esserlo. Un insediamento umano permanente sulla Luna potrebbe essere essenziale per conquistare Marte, ma non potremmo mai considerarci una specie interplanetaria finché non avremmo colonizzato Marte.
E colonizzare Marte significa creare un insediamento umano autosufficiente. I futuri coloni avranno davanti a sé un mondo ostile, senz’aria e sterile. Questi non potranno contare sui rifornimenti da casa, dovranno arrangiarsi con le scorte iniziali e quel poco che il Pianeta Rosso potrà loro offrire in quel momento. Le sfide ingegneristiche saranno enormi, ma niente che non sia già alla portata della tecnologia attuale o di quella che si svilupperà nel giro dei prossimi cinquant’anni.
Ma la sfida più grande sarà tutta umana. Fino alla prima metà del XX secolo le esplorazioni erano tutte ad alto rischio di perdite di vite umane. Cercate le storie di Roald Amudsen che nel 1911 raggiunse il Polo Sud e quelle di Frederick Cook per il Polo Nord. La conquista dei poli richiese il grande sacrificio di uomini, mezzi e capitale. Cercate la tragedia del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile [cite]http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/la-spedizione-del-dirigibile-italia/1127/default.aspx[/cite] e capirete cosa intendo. Allora non c’erano satelliti guida, aerei e altri mezzi di soccorso e anche domani i pionieri di Marte saranno soli.
Eppure quello è inevitabilmente il futuro della specie umana se non ci avviteremo in una spirale di odio alimentata dai tanti manicheismi odierni.
Diventare una specie interplanetaria sarebbe il salto evolutivo più importante del genere Homo dalla comparsa dell’Homo Sapiens. Il bello è che questa volta potremmo essere noi a decidere il futuro evolutivo della nostra specie.
Come giustamente viene fatto notare nell’ultima puntata 1, l’incidente dell’Apollo 13 – e l’esoso costo del conflitto in Vietnam – spinse gli Stati Uniti a rivedere le sue priorità nella ricerca spaziale; da una parte Von Braun che sosteneva un ambizioso programma spaziale rivolto verso Marte [1. Next, Mars and Beyond, 25 luglio 1969.
«Even as man prepared to take his first tentative extraterrestrial steps, other celestial adventures beckoned him. The shape and scope of the post-Apollo manned space program remained hazy, and a great deal depends on the safe and successful outcome of Apollo 11. But well before the moon flight was launched, NASA was casting eyes on targets far beyond the moon. The most inviting: the earth’s close, and probably most hospitable, planetary neighbor. Given the same energy and dedication that took them to the moon, says Wernher von Braun, Americans could land on Mars as early as 1982.».] e dall’altra il Presidente Richard Nixon che non era mai stato un grande sostenitore dell’esplorazione spaziale. Alla fine vinse il programma meno costoso e meno ambizioso, quello dello Space Shuttle. Non che lo Shuttle non servisse, anzi, ci ha dato la prima vera stazione spaziale internazionale ISS e tanto altro, ma per quasi cinquant’anni ci siamo fermati ai margini del conosciuto. Più in là abbiamo osato mandare solo piccoli robot e sonde automatiche. La strategia dei piccoli passi di Nixon quasi certamente ci ha resi più maturi e consapevoli di quanto lo fossimo stati nell’era pre-spaziale ai tempi del programma Gemini e di questo credo dovremmo essergli grati.

Ma adesso è giunto il momento di andare oltre, verso Marte.

Altre forme di vita

Il Moloch orridus o Drago Spinoso, è una lucertola dei deserti australiani. Le sue scaglie sono increspate per permettere all’animale di raccogliere l’acqua da ogni parte del suo corpo. Così quando hanno bisogno di bere, è sufficiente che tocchino l’acqua che per il principio di capillarità questa viene inviata alla bocca attraverso la pelle.

L’altro ieri su una pagina Facebook che frequento (Gruppo Locale Bar) è apparsa una domanda assai intrigante:
Date le estreme diversità nelle forme di vita apparse qui sulla Terra nel corso delle ere, dagli organismi microscopici unicellulari ai pachidermi del mesozoico come i titanosauri, quale potrebbe essere l’aspetto delle forme di vita animali in un mondo che è tre o quattro volte più grande della Terra? Ci sono limiti biologici o ambientali strutturali che condizionano l’evoluzione?

Le domande non sono mai banali

Rispondere a questa domanda non è affatto semplice. Noi non conosciamo alcuna forma di vita extraterrestre, per ora possiamo solo speculare con quello che finora oggi abbiamo imparato qui sulla Terra nella speranza che poi i fatti un giorno ci diano ragione.
Possiamo intuire che esistano dei limiti fisici oltre il quale un pianeta possa considerarsi inadatto ad ospitare qualsiasi forma di vita quale noi la conosciamo, l’indice ESI [cite]https://ilpoliedrico.com/2014/06/lindice-esi-earth-similarity-index.html[/cite] e una ecosfera favorevole all’acqua liquida [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/lampiezza-zona-goldilocks.html[/cite] possono aiutare a tracciare un quadro abbastanza ragionevole su dove cercare la vita extraterrestre.
Sulla Terra sperimentiamo le medesime leggi fisiche che vediamo operare in ogni angolo dell’Universo che scrutiamo: la stessa legge di gravità che fa qui cadere le foglie in autunno e che tengono la Luna in orbita attorno alla Terra, tiene insieme le stelle anche nelle galassie più lontane; la stessa chimica che governa qui, funziona con le stesse regole anche nelle nebulose più lontane della nostra galassia così come ai confini dell’Universo. Ma ancora non sappiamo se le stesse leggi biologiche terrestri – DNA, meccanismi biologici etc. – possono essere applicabili anche altrove.
Quindi è estremamente importante sapere – o immaginare – su quale biologia queste forme di vita aliena sono basate. Quasi sicuramente esse sono basate sul carbonio-acqua – idrogeno, ossigeno e carbonio sono gli atomi più diffusi dell’Universo – ma potrebbero avere una biologia, e quindi meccanismi di risposta ai processi cellulari, completamente dissimili dai nostri. DNA diversi, aminoacidi e proteine totalmente diverse da quanto noi abbiamo immaginato e supposto potrebbero influenzare i percorsi evolutivi in modi impensati. Basta guardare le creature che esistono, o sono esistite qui sulla Terra per rendersi conto che per ogni habitat esistono decine di risposte evolutive diverse della stessa biologia. E lo stesso ci si deve aspettare che debba accadere anche negli altri mondi. Della fisica e della chimica possiamo vederne e studiarne gli effetti e le interazioni anche nei più remoti angoli dell’Universo che riusciamo a raggiungere ma della biochimica e della biologia no; possiamo, per ora, prender per buono e, per il principio di mediocrità,  universalmente valido quello che osserviamo sulla Terra.

Riflessioni ad alta voce

Un esemplare di Bathynomus giganteus.
Questi crostacei abissali vivono negli oceani oltre i 170 metri di profondità, dove la pressione supera le 18 – 20 atmosfere.

Speculativamente, perché niente qui è certo fuorché l’incertezza, qui sulla Terra sono stati scoperti batteri che vivono nelle rocce compatte del sottosuolo, estremofili che sopportano 115-130 MPa di pressione, altri che vivono fino a 120° Celsius o nelle acque radioattive dei reattori nucleari. Niente sembra poter ostacolare la vita quando questa trova il modo di attecchire.
Su pianeti il doppio o il triplo della Terra le forme di vita multicellulari potrebbero essersi sviluppate di conseguenza al seguito del doppio o del triplo della gravità. Qui la maggior parte delle forme di vita animale superiore ha scelto quattro arti per la locomozione: un buon compromesso tra efficienza nella locomozione e la complessità del meccanismo di controllo. In un mondo ad alta gravità la stabilità nella locomozione potrebbe aver preso la via di più zampe e di un corpo più schiacciato e tozzo come quello degli isopodi terrestri. Un corpo dotato di corazza pensato più per prevenire i danni da caduta che per la difesa dagli attacchi di altri predatori, molte piccole zampe piuttosto che quattro semplici arti, e così via. Anche l’intero sistema vascolare sarebbe completamente diverso, dovendo rispondere ad una gravità più alta.
Oppure, nei pianeti più grandi potrebbero non essersi mai sviluppate grandi forme di vita animale o esistere solo quelle confinate nei mari e negli oceani di acqua liquida dove la spinta idrostatica mitiga la gravità, mentre sulla terraferma colonie batteriche o di microorganismi vegetali potrebbero estendersi per chilometri quadrati nutrendosi di elementi minerali prelevati dal suolo e di radiazioni solari.

Civiltà extraterrestri

Sono da sempre convinto che la Vita sia parte del processo evolutivo universale. Penso che essa sia la naturale conseguenza delle leggi fondamentali che regolano questo universo. È soltanto di pochi giorni fa la scoperta di nubi fredde di monossido di carbonio  (\(CO\)) a 10 miliardi di anni luce [cite]http://science.sciencemag.org/content/354/6316/1128[/cite], segno che la primissima generazione stellare era riuscita già a sintetizzare ed espellere ingenti quantità di ossigeno e carbonio già solo quasi quattro miliardi di anni dopo il Big Bang. In fondo quali elementi possono essere più significativi in una entità biologica se non idrogeno, carbonio, ossigeno, più una spruzzata di pochi altri elementi?
E credo che l’intelligenza intesa nella sua forma più semplice, cioè nella capacità di valutare e scegliere la migliore strategia di sopravvivenza, sia anch’essa altrettanto diffusa là dove è apparsa la Vita.
Ma pur partendo da queste premesse credo che ambienti adatti alla Vita siano rari nell’Universo. Non impossibili ma rari. La Terra è uno di questi luoghi. Una diversa orbita, una diversa densità o un diverso asse avrebbero certamente compromesso il delicato equilibrio di pressione, temperatura e insolazione che qui sono stati fondamentali per lo sviluppo di forme di vita superiori. Anche la stabilità del Sole e la favorevole orbita galattica hanno evitato che in questi quasi 5 miliardi di anni (che non sono poi così pochi, circa un terzo dell’età dell’Universo) il nostro pianeta venisse irrimediabilmente sterilizzato dai raggi ed eventi cosmici sfavorevoli. Sì certo, ci sono stati anche per la Terra dei periodi di crisi profonda, ma se questo indica che la Vita è veramente tenace ove attecchisce, dimostra anche che le forme di vita superiori possono essere molto rare e anche molto fragili.
Se non fosse stato per il meteorite di Chicxulub [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/la-gola-del-bottaccione.html[/cite] e le eruzioni del Deccan [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Trappi_del_Deccan[/cite] forse la specie umana non sarebbe mai esistita, mentre altri eventi cruciali nella nostra storia avrebbero potuto spingerci a non sviluppare mai una civiltà tecnologicamente avanzata.
Poi c’è anche un altro aspetto che spesso viene dimenticato: l’Universo è sì vasto da rendere anche l’evento più raro come potenzialmente ripetibile, ma è anche esteso nel tempo. Anche se decidessimo di considerare gli ultimi 8 – 10 miliardi di anni come potenzialmente adatti alla Vita nell’Universo, questo è un lasso di tempo enorme se paragonato ai 200 mila anni dell’uomo moderno e che da appena un centinaio di anni abbiamo imparato a capire cos’è veramente il Cosmo.

È difficile sperare che un’altra civiltà si sia sviluppata più o meno quando la nostra e che sia anche a portata di dialogo; è ben più probabile che io – noi  fossimo qui in questo luogo e momento l’unico angolo di Universo abbastanza evoluto da porsi delle domande sulla propria esistenza. Le domande non sono mai banali.

Logo nuovo, spirito di sempre.

Un cammino che parte da lontano nel tempo: Gennaio 2010.  Questa era la testata originale nata su Blogspot, la piattaforma blog di Google, e che per tanti anni aveva distinto il Blog da tutti gli altri.
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E dopo sei lunghi anni e svariati tentativi rimasti su carta, ecco il nuovo logo.  Arrivato dopo il cambio di tema di maggio e il supporto SSH di settembre, la nuova veste grafica è stata profondamente rivista e curata, dalle animazioni delle finestre fino ai font dei caratteri, dal pieno supporto degli articoli  con più autori all’interfaccia audio che legge gli articoli per gli ipovedenti e tante altre migliorie non solo estetiche, spero che il restyling sia da voi gradito.

 ilpoliedrico

La leggenda di Tama Rereti

Nelle mie continue ricerche mi sono imbattuto sulla leggenda Maori che descrive la nascita della Via Lattea. L’ho trovata carina, e penso che sia una delle più belle leggende sulla creazione della nostra galassia abbia mai letto.
La cosa che più mi ha colpito è quando il Dio del Cielo chiede il permesso e consiglio a un semplice uomo mortale, cosa che nel pantheon greco-romano nessuno avrebbe mai pensato di fare. Ma non voglio rovinarvi la lettura.

 

Te Waka o Tama Rereti Credit: John Drummond

Te Waka o Tama Rereti Credit: John Drummond

Molto tempo fa, subito dopo le prime persone apparvero sulla Terra, non c’erano ancora le stelle nel cielo notturno. Era così buio che era impossibile vedere e muoversi di notte senza inciampare. Solo il Taniwha (lo spirito delle acque e custode della natura) era l’unica creatura che era in grado di muoversi nel buio. Qualsiasi cosa che si fosse mossa nell’oscurità rischiava di essere divorata dal Taniwha che durante il giorno riposava sul fondo dei laghi e dei fiumi.

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In quell’epoca viveva anche un grande e astuto guerriero di nome Tama Rereti. La sua casa era sulla sponda sud del grande lago Taupo.
Una mattina di primavera, Tama Rereti si svegliò nella sua capanna 1 e si scoprì molto molto affamato ma in casa non aveva più niente mangiare. Così, osservando le acque increspate del lago, decise di andare a pesca, per poter catturare qualche pesce per se stesso e la sua famiglia.
E così Tama Rereti raccolse le sue reti ele esche e le mise nella sua canoa 2, dopodiché issò la vela e uscì fuori sul lago. Quando giunse nel suo luogo di pesca preferito abbassò la vela e cominciò a pescare. Quando Tama Rereti ebbe preso qualche bel pesce decise di tornare al villaggio per mangiare.

Però purtroppo il vento era calato e fu bonaccia. Ma la giornata era mite e durante il lungo viaggio di ritorno Tama Rereti si concesse un sonnellino sdraiandosi sul fondo della canoa. Cullato dal dolce dondolio della barca e il suono delle onde si addormentò. Mentre Tama Rereti dormiva si alzò una dolce brezza che sospinse la canoa fino alla riva nord del grande lago.
mata-ora2009-urseanuQuando si svegliò vide con sua grande sorpresa che era dalla parte opposta del lago. Non c’era modo che potesse tornare a casa prima del tramonto. E sapeva che dopo il tramonto il Taniwha guardiano del lago, mangiava tutto ciò che si muoveva nel buio e che questa sorte sarebbe presto capitata anche a lui. Ma Tama Rereti era un valoroso guerriero. Non aveva paura di combattere con il Taniwha ma amava la sua famiglia ancora di più. Tutto quello che voleva era di tornare a casa da sua moglie e i figli, al sacro fuoco della sua famiglia 3.

Tama Rereti era anche saggio, sapeva che non vanno mai prese le decisioni importanti a stomaco vuoto, e lui aveva ora molta fame. Così si diresse con la sua canoa verso una spiaggetta di ghiaia lì vicino dove gettare l’ancora e mangiare il suo pesce.  Così accese  un piccolo falò e cosse il suo pesce; poi, seduto su un tronco caduto, se lo mangiò. Tama Rereti poi rimase lì seduto, ascoltando il canto del Tui 4, il  frangersi delle lievi onde del lago sui ciottoli della riva e lo stormir delle foglie degli alberi all’alitar della brezza. Era tutto così tranquillo e caldo davanti al piccolo falò quando  Tama Rereti vide che i ciottoli usati per costruire il falò erano diventati luminosi, ed ebbe un’idea per tornare a casa.
Allora caricò più sassi brillanti possibile sulla canoa e la spinse fuori nel lago e poi pensò: “Che succede se invece di attraversare il lago, navigo sul Grande Fiume del Cielo?”
E così Tama Rereti diresse la sua canoa verso quel punto in cui il sole scivola sotto l’orizzonte per far spazio alla notte e scoprì che la corrente del fiume era potente ma costante.

Come fu entrato nel Fiume del Cielo, Tama Rereti cominciò a spargere in tutte le direzioni tutti i suoi ciottoli luminosi mentre avanzava. La scia della canoa divenne la Via Lattea e i ciottoli le sue stelle. Per questo oggi abbiamo le stelle nel cielo.
Alle prime luci dell’alba Tama Rereti aveva  finito tutti i sassolini quando poté vedere il suo villaggio: egli aveva navigato nelle direzione giusta cavalcando il Grande Fiume del Cielo.
Era così stanco che dopo aver fissato la sua canoa a un grande ceppo, Tama Rereti si trascinò alla sua capanna e, proprio mentre il sole appariva sulle colline d’oriente,  si sdraiò sul giaciglio e si addormentò profondamente.

Quando il guerriero finalmente si svegliò nel mezzo del pomeriggio, Ranginui, il Dio del Cielo, era seduto fuori la capanna ad aspettarlo.
Tama Rereti pensò che Ranginui fosse arrabbiato con lui che aveva osato sporcargli il cielo con tutti quei ciottoli brillanti. E invece il dio del cielo era contento del risultato. Per la prima volta c’era abbastanza luce di notte da permettere alle persone di vedere cosa facevano e di muoversi in tutta sicurezza. Ranginui era felice della bellezza del nuovo cielo notturno.
E così perché la gente si ricordi come furono messe le stelle nel cielo e quanto questo sia così bello di notte, Ranginui chiese a Tama Rereti il permesso di ancorare per sempre tra le stelle la sua canoa e insieme scelsero il posto nel cielo. Là dove la scia è più brillante c’è la grande canoa di Tama Rereti che galleggia da quel giorno.

Stelle come polvere e polvere di stelle

Quasi tutte le galassie (quelle ellittiche ormai non più) mostrano segni evidenti di enormi sacche di polvere; La Via Lattea, la nostra galassia, non fa eccezione. Qui c’è un sacco di polvere, prodotta negli eoni da milioni di stelle ormai scomparse 1  tra enormi esplosioni di supernova e i deboli sospiri delle nebulose planetarie. Potete vederla nel riquadrino qui accanto, magari a schermo pieno, dove è mostrata solo una piccola porzione – tra le costellazioni del Sagittario, lo Scudo e Aquila – di quello che ci è possibile scorgere dalla Terra della Galassia, oppure seguendo questo link per l’immagine tradizionale.
Per noi è come cercare di intuire la forma e l’estensione di una foresta avendo le dimensioni di un tardigrado seduto su un sassolino. Per questo la vera  natura della Via Lattea è stata compresa solo negli ultimi novant’anni e ancora molti particolari ci sfuggono.

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Le aree rosse sono dovute all’idrogeno ionizzato [HII] dalla radiazione ultravioletta delle stelle. Le regioni verdastre sono invece nubi molecolari più fredde, ricche di monossido di carbonio [CO], carbonio [CI] e carbonio ionizzato una volta [CII], oltreché del classico idrogeno atomico in genere in proporzione di 10000 atomi per ogni atomo di carbonio.
Credit: Marco Lombardi et al. (A&A 535, A16, 2011) e rielaborazione Il Poliedrico.

Se è pur vero che quella regione di spazio mostrata dalla gigantografia è ben visibile nel periodo estivo, in questa stagione il cielo è dominato da una delle più celebri costellazioni conosciute: Orione. È inutile che vi sforziate di vedere ad occhio nudo l’Anello di Barnard (anche se qualcuno afferma di esserci riuscito ma ne dubito) e gli altri oggetti nebulari; essi sono visibili – a malapena – con telescopi e filtri ottici specifici e richiedono riprese fotografiche lunghissime sotto cieli scurissimi come ormai non se ne vedono quasi più in Italia.
Questa immensa bolla di idrogeno ionizzato è illuminata dalla luce ultravioletta delle tre stelle calde e luminosissime che compongono la cintura Alnitak, Alnilam e Mintaka che insieme ad altre stelle giganti blu danno origine al complesso Orion OB1.
Poco più in basso, al centro della spada, c’è l’ammasso globulare M 42, noto anche come la Nebulosa di Orione, che racchiude anch’esso un altro scrigno di inestimabili tesori. Distante appena 1260 anni luce, è il campo di formazione stellare più vicino a noi ed è l’unica nebulosa ben visibile ad occhio nudo.
Addirittura, pur non comprendendone ovviamente la natura, i Maya (sì, proprio quelli di cui molti parlano a vanvera) avevano intuito che quella non poteva essere una stella come le altre ma che la sua luce appariva decisamente ferma come quella dei pianeti pur rimanendo fissa nel cielo. Per loro era il fuoco (per altri studiosi il fumo) del braciere racchiuso tra le stelle Alnitak, Saiph e Rigel. Questo era il Triangolo della Creazione Celeste da cui era risorto il Dio del Mais (curiosamente erano a lui/lei – nella tradizione orale precolombiana la divinità era indicata di genere femminile perché aveva generato il mais da cui era nato a sua volta il genere umano – attribuite anche la scrittura e le arti) che poi si riposava nel luogo sacro identificato con la Cintura di Orione.
E in effetti M42 è una gigantesca incubatrice di stelle ora illuminata da un ammasso aperto estremamente giovane, non più di 3 o 500 mila anni,  di stelle noto come il Trapezio (\(\theta\) Orionis) grande circa 10 anni luce.

AE aurigae -> 40° μ Columbae -> 25° 53 Arietis -> 43° Queste sono le distanze apparenti sulla volta celeste delle tre stelle giganti azzurre dal loro punto d'origine all'interno di M 42 dopo 2,7 milioni di anni. Credit: Il Poliedrico

AE aurigae -> 40°
μ Columbae -> 25°
53 Arietis -> 43°
Queste sono le distanze apparenti sulla volta celeste delle tre stelle giganti azzurre dal loro punto d’origine all’interno di M 42 dopo 2,7 milioni di anni.
Credit: Il Poliedrico

2,7 milioni di anni fa (l’Uomo arcaico era appena apparso sulla Terra) in quella stessa regione di spazio un altro sistema stellare multiplo si frantumò forse per instabilità gravitazionale o forse per l’esplosione di una supernova vicina. il risultato è che tre stelle, tutte giganti azzurre, furono scagliate via da quel sistema e ora vagano nello spazio molto distanti dal loro luogo d’origine. In fondo questa non è una novità, se è pur vero che quasi tutte le stelle nascono in gruppi più o meno numerosi, ben presto ognuna di loro prende la sua strada indipendentemente dal percorso che le altre scelgono. Pensate che là fuori da qualche parte c’è o c’è stata una stella sorella del Sole, oggi impossibile rintracciarla tra miriadi di altre stelle con assoluta certezza.

Spesso si sente dire che la scienza e l’astronomia moderna hanno ucciso la poesia racchiusa nelle cose, che siano esse un falò sulla spiaggia o il cielo trapuntato di stelle non fa differenza.
Permettetemi di dissentire da questo pensiero malsano. Sapere cosa c’è dietro una fiamma, dietro l’ammiccamento perenne di una stella e di cosa la alimenta, di come nasce e poi muore, di polvere di stelle e di cosa siamo fatti noi e tutto ciò che ci circonda, mi fa meravigliare ancora di più del Creato. Sapere che Io, Noi, siamo qui ora a osservare e comprendere tutto questo mi scalda e mi eccita più di ogni altra cosa. Immaginate invece la tristezza e lo spreco se non ci fossero osservatori capaci di cogliere cotanta bellezza.
In fondo i Maya su una cosa avevano ragione da vendere: lassù c’è la Creazione, nostra e di ogni altra cosa. Loro la vedevano nella luce fissa di M 42, per me quello è solo un eccitante e meraviglioso esempio.
Ecco, non sforzarsi di comprendere tutto questo davvero uccide la poesia che impregna il Cosmo.

L’espansione dell’Universo sta accelerando oppure serve un nuovo modello?

Questa è davvero la celebre domanda da un milione di dollari o, se preferite visto che siamo in Europa, un milione di euro. Non è davvero facile rispondere, solo le prossime ricerche ci potranno dire da quale parte guardare. Ma il progresso scientifico va avanti così, per tentativi ed errori. Fra Premi Nobel dati per scoperte che domani potrebbero essere superate per il medesimo meccanismo di autorevisione che li aveva distribuiti.
Questo giusto per ricordarci quanto sia incerto il pensiero umano che si dedica alle scoperte del Cosmo dove l’unica certezza è sapere di non essere certi  di sapere abbastanza.

 Nel 2011 Brian P. Schmidt e Adam Riess vinsero il Premio Nobel per la Fisica per aver scoperto che l’Universo stava accelerando la sua espansione al contrario di quanto fino ad allora era stato creduto. Il perché questo accada non è mai stato chiarito del tutto ma finora tutto suggerisce che sia la conseguenza di una costante cosmologica, indicata con la lettera greca \(\Lambda\), capace di contrastare il collasso gravitazionale del contenuto dell’Universo. Già in passato mi sono cimentato nello spiegare per sommi capi come questa costante operi nel Modello Standard \(\Lambda CDM\) (Lambda Cold Dark Matter) [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/zenone-olbers-lenergia-oscura-terza-parte.html[/cite] e quindi non credo sia opportuno tornarci sopra, ma di fatto tutto indica che una condizione di universo accelerato sia legata anche allo stato di falso vuoto che permette l’esistenza stessa della materia e di conseguenza la nostra di osservatori.
Per comprendere meglio come si è arrivati a capire che l’espansione dell’Universo sta accelerando, prendiamo ad esempio una SNa che con le dovute correzioni del caso, mostri uno spostamento verso il rosso (redshift) \(z\) di circa 0.1, pari a circa il 10% dell’età dellUniverso (\(\approx\)1.38 miliardi di anni). Per una distanza così – relativamente – piccola la luminosità apparente osservata nelle SNe è in linea con il loro redshift e quanto prevede la normale Legge di Hubble. Per le distanze maggiori, supponiamo \(z \approx\)0.5 (\(\frac{2}{3}\) dell’età  dell’Universo) si osserva che la luminosità delle SNe 1a è più bassa del redshift indicato dal loro spettro. Questo indica che nel corso del tempo l’espansione dell’Universo è cambiata  e che pertanto l’affievolimento della luce delle SNe risulta più marcato e che devia dalla linearità della Legge di Hubble in funzione del tempo trascorso.  In soldoni, l’Universo si stava espandendo più lentamente in passato di quanto lo faccia oggi. La luce emessa quando l’Universo aveva \(\frac{2}{3}\) dell’età attuale ha dovuto percorrere più spazio per raggiungerci e quindi è più debole di quanto previsto dai modelli di universo senza alcuna costante cosmologica.

L’altro giorno però, uno studio apparso su Scentific Reports di Nature [cite]http://www.nature.com/articles/srep35596[/cite] sembrava rimettere in discussione che l’espansione dell’Universo stesse accelerando. In realtà non è proprio così, il senso dell’articolo a mio avviso non è stato compreso del tutto e di conseguenza anche la notizia è stata distorta.
In pratica gli autori della ricerca, tra cui figura anche l’italiano Alberto Guffanti dellUniversità di Torino, hanno suggerito che in base a un nuovo campione di 740 supernovae (SN) del tipo 1a  1 non possono esserci prove evidenti che l’espansione dell’Universo sta accelerando e che le nuove loro analisi sono consistenti piuttosto con un modello di espansione costante.

Gli altri studi che confermano l’attuale modello  \(\Lambda CBM\)

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Anisotropie di temperatura nella CMBR (± 200 microKelvin) rilevate dal satellite WMAP. Queste microvariazioni nella densità della materia sarebbero all’origine degli ammassi di galassie. La loro dimensione paragonata alle dimensioni degli ammassi di galassie successivi mostra che l’espansione dell’Universo sta accelerando.

Così, giusto per chiarire, che l’espansione dell’Universo stia accelerando non sono solo le misure fotometriche delle diverse supernovae a dirlo. Dall’anno della scoperta del fenomeno, il 1998, gli astronomi hanno cercato, e trovato, altre prove indipendenti a sostegno di questa tesi [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/0604051v2[/cite], mentre nuove misure e ricalibrazioni delle candele standard suggeriscono che l’accelerazione potrebbe essere ancora più accentuata [cite]https://arxiv.org/abs/1604.01424[/cite].
Spiegare nel  dettaglio ognuno di questi porterebbe troppo lontano. Una di queste fa riferimento alle dimensioni dell’impronta delle oscillazioni acustiche dei barioni rilevate nella radiazione cosmica di fondo (CMBR) 2 e alla distribuzione delle dimensioni degli ammassi di galassie nel corso del tempo [cite]http://iopscience.iop.org/article/10.1086/466512/[/cite].
Altre conferme dell’attuale modello \(\Lambda CBM\) provengono dalla distribuzione di massa degli ammassi di galassie e perfino dal calcolo dell’età del1l’Universo [cite]https://arxiv.org/abs/1204.5493[/cite] [cite]http://www.cambridge.org/it/academic/subjects/astronomy/cosmology-and-relativity/formation-structure-universe[/cite].

Il  nuovo studio

L'effettto Sachs-Wolfe integrato.Credit: Istituto di astronomia dell'Università delle Hawaii

L’effettto Sachs-Wolfe integrato. Questo meccanismo potrebbe essere invocato per spiegare l’arrossamento locale della luce per effetto della gravità.
Credit: Istituto di astronomia dell’Università delle Hawaii

In realtà i ricercatori affermano appunto che stando alle loro ricerche basate su un numero molto maggiore di SNe le analisi – interpretate col modello attuale, quindi quello di un universo descritto per comodità di calcolo come esattamente omogeneo e che si comporta come un gas ideale, tenetelo a mente – dei dati indicano che esse non potrebbero fornire una prova certa dell’attuale modello. Gli amanti della statistica potrebbero trovare interessante che la distribuzione delle probabilità descritte da questo studio che questo Universo si trovi in uno stato di espansione accelerata è \(\lesssim\) 3 \(\sigma\) (circa lo stesso o di poco minore ai 3 sigma).
Se questa ricerca fosse confermata, in proposito lo strumento CODEX presso l’European Extremely Large Telescope (E-ELT) dovrebbe poter presto indicare dove e cosa cercare, si aprirebbero nuove possibilità: come spiegare che le fluttuazioni acustiche dei barioni nella CMBR che riflettono quello che osserviamo oggi nell’Universo? E la distribuzione della massa degli ammassi di galassie? Un modello interessante per spiegare alternativamente quello che osserviamo nella luce delle SNe è l’effetto Sachs-Wolfe integrato [cite]https://ilpoliedrico.com/2012/09/energia-oscura-e-anisotropia-nella-radiazione-cosmica-di-fondo.html[/cite], un arrossamento della luce causato dalla curvatura locale dello spazio dovuta alla gravità.
Questa chiave di lettura porterebbe inevitabilmente al ripensamento dei modelli di universo non più intesi come oggetti esattamente omogenei  e isotropi ma più come spazio vuoto con un ruolo più marcato della componente massa/energia a livello locale. Gli autori della ricerca in fondo questo dicono: il modello a CDM corretto per tenere conto della componente repulsiva attribuita all’energia oscura e indicata come costante cosmologica \(\Lambda\) è vecchio e sorpassato dalle nuove scoperte e conoscenze. È ora che esso venga ripensato.

Il mio contributo su Coelum di questo mese: Quando Marte parlava a Guglielmo Marconi.

Anche stavolta sono stato ospite della rivista Coelum Astronomia con il riadattamento di un mio vecchio articolo [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/quando-marte-parlava-a-guglielmo-marconi.html[/cite] sul celebre Premio Nobel italiano Guglielmo Marconi. 
Sono felice per questo ma sento che gran parte del mio merito va a Voi Lettori che da anni leggete queste pagine. Quindi grazie e buona lettura anche stavolta.
Cieli sereni

Antropocentrismo culturale e il principio di mediocrità

È indubbio che oggi la specie umana sia l’unica che attualmente abbia sviluppato una tecnologia avanzata. La famiglia Hominidae ha avuto origine nell’area del Rift Africano tra i 5 e i 6 milioni di anni fa. Essa appartiene all’ordine dei Primati, lo stesso delle scimmie che illustro qui sotto, un gruppo che si è evoluto circa una sessantina di milioni di anni fa ed è composto da circa 500 specie che vanno dall’Homo Sapiens fino ai lemuri che oggi rappresenta all’incirca il 5 per cento di tutti i mammiferi. Finora i termini cultura, tecnologia e civiltà sono limitati all’esperienza umana ma alla luce di alcune sorprendenti scoperte forse è il caso di rivedere il nostro antropocentrismo.

primates

Credit: Il Poliedrico

Uno studio apparso a luglio su Current Biology [cite]http://dx.doi.org/10.1016/j.cub.2016.05.046[/cite] mostra che una specie delle scimmie cappuccino, i Sapajus libidinosus (conosciuti anche come Cebus libidinosus (cebo striato)) fanno uso di strumenti litici, da loro prodotti, da almeno ben 700 anni.
Questa specie, che vive nel nordest brasiliano, è nota per organizzare zone di lavoro dedicate all’apertura dei frutti di anacardio, di cui è ghiotto, nei pressi degli stessi alberi 1. Queste scimmie cappuccino, o cebi (scimmie dalla coda lunga), hanno inventato una tecnica particolarmente efficace per estrarre l’endocarpio degli anacardi: esse usano due pietre ben distinte a questo scopo. Una, più dura, più grande e piatta come incudine e l’altra, più piccola, come martello. Partendo da questa sorprendente intuizione delle scimmie, i ricercatori si sono chiesti se questo procedimento era usato anche nel passato e scavando il terreno dei siti di lavorazione hanno scoperto molti altri strumenti simili a dimostrazione che la stessa tecnica di oggi era usata anche nel passato. Studi stratigrafici dimostrano che questa tecnica è usata da almeno 700 anni.

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 Dopo aver escluso ogni possibile traccia di contaminazione umana i ricercatori hanno concluso di aver trovato il sito archeologico non umano più antico esistente fuori dall’Africa.
Altre osservazioni suggeriscono che questi cebi sappiano estrarre le pietre a loro utili [cite]http://www.nature.com/news/one-sharp-edge-does-not-a-tool-make-1.20824[/cite]. Ora se tutto questo è voluto o è solo accidentale rimane un mistero ma è un fatto. Altri studi potranno chiarire se questa comunità di scimmie di Sierra Capivara stanno muovendo i loro primi passi verso una tecnologia litica o meno.

Infatti ricerche precedenti hanno dimostrato che una primitiva forma di tecnologia litica era usata anche dagli scimpanzé in Costa d’Avorio circa 4300 anni fa [cite]http://www.pnas.org/content/104/9/3043[/cite], nonché che l’uso di strumenti e di capacità verbali primitive che consentono una trasmissione orale intergenerazionale è presente in tante altre comunità di primati superiori finora studiate.

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Altri studi documentano la capacità degli scimpanzé di saper creare ed usare alcuni strumenti per catturare piccoli insetti [cite]http://ngm.nationalgeographic.com/2008/04/chimps-with-spears/mary-roach-text[/cite].

Verso la fine del XX secolo la scoperta dell’Australopithecus Garhi [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10213683[/cite] [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10213682[/cite] (“garhi” significa “sorpresa” nella lingua Afar) restituì forse l’anello mancante che univa il grande genere degli australopitechi all’uomo. Rinvenuto nel nord del Rift Africano, esso era un ominide probabilmente antenato dell’Homo Habilis  2 o di uno dei tanti rami evolutivi ormai scomparsi del genere Australopithecus comunque di quel periodo. Comunque, qualunque sia stato il suo ruolo nell’evoluzione della famiglia Hominidae, resta il fatto che negli stessi strati del rinvenimento dell’Au. Garhi furono scoperti anche utensili in pietra e strumenti da taglio appartenenti alla tradizione Oldowan, la più antica forma di tecnologia litica conosciuta, e ossa animali che ne testimoniano l’uso. Questo indica che la macellazione e la dieta a base di carne erano presenti nella cultura degli Au. Garhi.
Questo è un passaggio importante per lo sviluppo delle prime comunità ominidi: non dover dipendere da una dieta vegetale strettamente legata ad un particolare habitat destinato comunque a cambiare o a scomparire, la necessità di fare branco per la caccia (organizzazione sociale) 3 e inseguire le prede (spostamenti e migrazione geografica) hanno senz’altro favorito l’evoluzione da scimmie stanziali a culture proto-umane.

« La cultura, o civiltà, intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell’insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società. »
(Tylor, 1871)

Definire cosa sia una cultura può non essere così facile come sembra. Una buona definizione, riportata nel riquadro qui accanto, la dette nel 1871 l’antropologo inglese Edward Burnett Tylor.
La definizione di Taylor è squisitamente pensata a misura umana ma semplificando potremmo definire la cultura come quell’insieme di regole sociali e conoscenze che possono essere tramandate attraverso le generazioni all’interno di una comunità. In questo modo diventa possibile provare a cercare quell’insieme di regole, tradizioni ed esperienze, che non possono essere – per il principio di mediocrità – prerogativa esclusiva della specie umana, anche in seno ad altre specie animali.
La perpetuazione delle conoscenze e delle regole sociali non richiede necessariamente una proprietà linguistica evoluta o una qualche forma di scrittura, ma soltanto la capacità di osservazione e di replica. Queste facoltà si possono individuare anche in molte specie animali non primati. Però è anche altrettanto chiaro che una cultura per rendersi manifesta deve poter lasciare qualche traccia visibile come ad esempio la capacità di manipolare l’habitat in maniera utilitaristica.

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Una scimmia cappuccino intenta a spaccare pietre. Sorprendente è il gesto chiaramente intenzionale. L’atto di leccare le pietre frantumate suggerisce che sia parte di una dieta che richiede integratori minerali (ex. sale) o muschi interstiziali [cite]http://dx.doi.org/10.1038/nature20112[/cite].

Le uniche specie attualmente dotate di un cervello abbastanza sviluppato e che hanno saputo mostrarsi capaci di manipolare scientemente l’ambiente appartengono quasi tutte all’ordine dei primati 4. Un indubbio vantaggio dei primati in questa attività è quasi sicuramente riconducibile alla presenza del pollice opponibile 5 che dà un grande vantaggio nell’afferrare e manipolare gli oggetti.  Per esempio qui sulla Terra esistono altre specie animali dotate di un cervello importante e che sono capaci di comunicare verbalmente tra loro, i delfini e le megattere sono alcune di queste; esse potrebbero aver sviluppato o essere potenzialmente capaci di sviluppare una cultura verbale, una civiltà di filosofi pensatori o di poeti ma che comunque sarebbe limitata dalla loro incapacità di manipolare l’ambiente e studiare l’ambiente. Però noi non potremmo mai scoprirla almeno finché non saremmo in grado di interpretare e capire il loro linguaggio perché questo tipo di civiltà non può fisicamente lasciare tracce tangibili e analizzabili.
Tutto questi esempi cozzano col nostro comune concetto di cultura. Comunità pre e proto umane che già almeno tre milioni di anni fa [cite]http://www.nature.com/uidfinder/10.1038/nature14464[/cite] avevano appreso le stesse tecniche che scopriamo oggi nei cebi e negli scimpanzé ci indicano che la cultura non è una prerogativa unica dell’Homo Sapiens e che dovremmo aspettarci di scoprire culture completamente dissimili dalla nostra esperienza ma altrettanto preziose.
Le diverse culture umane si sono evolute in un lunghissimo arco di tempo e attraverso infinite generazioni. Tentativi, sbagli e regressioni hanno spinto la presenza umana in ogni angolo del Globo. Le necessità di adattarsi alle diverse nicchie ecologiche hanno reso la specie umana unica. Solo 50 mila anni fa la nostra specie condivideva il pianeta con altri ominidi strettamente imparentati come l’uomo di Neanderthal, l’uomo di Denisova e altre specie arcaiche. Eppure, dopo appena 30 mila anni più tardi dei nostri cugini non ce n’era più traccia nonostante che ad esempio i Neanderthal sapessero usare e controllare il fuoco e le fibre vegetali altrettanto bene. Incroci interspecie resi possibili dalle tante affinità genetiche [cite]http://www.nature.com/nature/journal/v530/n7591/full/nature16544.html[/cite] hanno prodotto un’unica specie finale, l’Homo Sapiens moderno.
E insieme agli incroci sessuali con ogni probabilità vi furono anche fusioni culturali e di tecnologia. Questo significa che se anche ora l’accezione del termine cultura fa riferimento alle capacità di trasmettere conoscenze e regole sociali tra le diverse generazioni umane, sia giunto il momento che questa debba mutare per venire incontro ad esigenze descrittive e sensibilità più ampie.

L’antropocentrismo scientifico cadde con la Rivoluzione Copernicana e le successive scoperte mostrarono la reale dimensione umana svelandoci un universo immensamente più vasto e complesso di quanto avessimo mai immaginato. Ora però è giunto il momento che cada anche l’antropocentrismo culturale che, ahimè, ancora ci nasconde altrettante meraviglie.

Migrare ad HTTPS, una scelta di sicurezza e di rispetto verso i lettori

La sicurezza non è mai troppa e i malintenzionati sono sempre dietro l’angolo.
Circa tre anni fa, questo blog subì  un attacco piuttosto pesante: la pagina principale fu sovrascritta, il suo contenuto fu  reso inaccessibile e le email violate. Per fortuna avevo a disposizione tutti i backup in locale e su altri server remoti e non mi fu difficile poi ripristinare il sito.
Colsi all’epoca l’occasione anche per studiare diverse strategie anti intrusione, alcune migliorie che avrebbero irrobustito il sistema e così via.
Ma un sistema in rete non può mai essere al sicuro da attacchi informatici e altre operazioni illecite; l’unico modo per rendere inaccessibile un computer è quello di non usarlo proprio.

affbg Ovviamente questo non è possibile, ma si può tentare di rendere il proprio sito web assai meno vulnerabile agli attacchi informatici usando un protocollo di cifratura HTTPS.
Tutte le informazioni server-client che fanno uso di questo protocollo sono criptate: qui ogni informazione è protetta  dagli attacchi esterni a da intercettazioni esterne. Dati sensibili come password o di altra specie sono garantiti da un protocollo di cifratura SSL che garantisce anche l’autenticità del sito.
In un universo telematico sempre più complesso la necessità di un sistema di navigazione sicuro si è fatta sempre più importante. Per questo Google, Mozilla Foundation e Electronic Frontier Foundation si stanno prodigando per questo obbiettivo. Da gennaio Google inizierà a penalizzare il ranking dei siti che non si saranno adeguati ai nuovi standard di sicurezza e sottolineerà la navigazione nei siti non protetti mostrando un simbolino colorato (probabilmente una X rossa) nella barra degli indirizzi.
Già comunque ora tutti i browser più usati evidenziano se si sta visitando un sito che non aderisce agli standard previsti nell’HTTPS, e questo può essere di stimolo a implementare l’uso della cifratura nel proprio sito, se se ne  gestisce uno, o a fare pressioni perché sia adottata da chi per ora non ne fa uso.

Implementare HTTPS

aaaNon è stato poi così difficile fare in modo che questo dominio adottasse il nuovo standard.
Innanzitutto occorre avere installato un certificato SSL sull’host di riferimento. In genere quando si acquista uno spazio web vengono anche forniti dei certificati gratuiti precaricati ma è sempre possibile acquistarne uno più forte o sceglierne uno esterno a seconda delle necessità. Per un sito come questo non emerge il bisogno di una grande chiave crittografica come un sito di e-commerce, quindi i certificati preinstallati vanno benissimo per garantire la sicurezza nelle comunicazioni.
I passaggi di configurazione sono sostanzialmente due.
Una volta accertato che il sito potesse usare il protocollo HTTPS (basta comporre l’indirizzo col prefisso https://) correttamente, occorre indicare al sistema di gestione dei contenuti (CMS Content Management System), in questo caso WordPress, di utilizzare l’estensione https:// al posto della canonica http:// nelle impostazioni generali, come dalla figura qui accanto e poi istruire il file di configurazione .htaccess presente nella radice del CMS (di solito accessibile tramite ftp) di riscrivere ogni richiesta in entrata e in uscita da http:// a https://.

[sourcecode language=”plain”]
<IfModule mod_rewrite.c>
RewriteEngine On
RewriteCond %{HTTPS} off
RewriteRule ^(.*)$ https://dominio.com/$1 [R=301,L]
[/sourcecode]

Così la terza riga di codice controlla se la risorsa è richiesta in HTTPS, e in tal caso reindirizza le richieste HTTP verso il protocollo HTTPS eseguendo la quarta riga di codice; se invece la richiesta è corretta,  questa riga viene ignorata.
Alcune chiamate improprie a risorse esterne legittime (immagini o script espliciti in http://)  possono causare qualche problema. In genere questi si annidano nei diversi plugins usati o quando vengono fatte caricare immagini o altri  simboli da siti terzi che ancora non supportano la crittografia, ma spesso basta togliere il prefisso http:// dalle chiamate dirette perché il sistema adotti lo standard più sicuro automaticamente (chiamate relative, sempre preferibile) o chiamare direttamente https:// (chiamate assolute, quando è necessario) quando si scrivono le chiamate esterne.
Un’altra modifica importante assolutamente da fare riguarda il file wp-config.php anch’esso accessibile via ftp alla radice del CSM.
Si tratta dell’aggiunta del comando che forza l’uso del protocollo HTTPS nella pagina di amministrazione del sito:

[sourcecode language=”plain”]
define(‘FORCE_SSL_ADMIN’, true);
[/sourcecode]

Questo imporrà una connessione criptata ogni volta che si vorrà accedere al CMS coi privilegi di amministratore, garantendo così che questa non possa essere intercettata o rubata.

Adesso questo blog e il suo fratello TuttiDentro.eu adottano questa strategia rivolta ad assicurare i loro lettori l’integrità e la qualità della connessione.


Note:

Siccome si andranno a toccare alcuni files importanti del CMS di riferimento, mi raccomando di fare prima una copia di backup del sistema e del database. Non dovreste avere problemi ma declino ogni responsabilità se qualcosa dovesse andarvi storto.

La Notte Europea dei Ricercatori 2016

This European Researchers’ Night project is funded by the European Commission under the Marie Skłodowska-Curie actions

This European Researchers’ Night project is funded by the European Commission under the Marie Skłodowska-Curie actions

L’altro giorno Marcel Fratzscher, docente di macroeconomia all’Università di Humboldt di Berlino e presidente dell’importante istituto di ricerca tedesco Diw Berlin, suggeriva a margine del Forum The European House tenutosi a Cernobbio una via per rilanciare l’Europa in vista delle sfide dei prossimi decenni. <<Credo che la necessità sia ancora quella di riconoscere che la crescente disuguaglianza sociale non sia solo una sfida politica, ma anche una sfida economica che deve essere indirizzata attraverso migliori istituzioni, migliore educazione, accesso all’educazione; queste devono essere le chiavi importanti per l’Europa.>>
Difficile dar torto ad un simile pensiero: l’accesso a una migliore educazione è senz’altro il modo migliore e più efficace per avviare una reale redistribuzione della ricchezza nella società. Una migliore educazione non deve per forza limitarsi alla semplice scolastica. Servono programmi di ben più ampio respiro che comprendono l’educazione civica, il rispetto verso le altre culture e per gli altri, la divulgazione mediale e così via.
Si sente spesso – e a sproposito, secondo me – parlare di europeismo e di anti-europeismo. Lasciammo perdere per un attimo le logiche delle tifoserie partitiche e ricordiamoci per un attimo le tante entità politiche che dividevano il continente europeo fino alla II Guerra Mondiale: tanti Stati in guerra tra loro dai tempi della fine della Pax Romana. Quasi 2000 anni di guerre fratricide, di eterne lotte che variavano continuamente fronte, nome e improbabili alleanze ma sempre con lo stesso denominatore comune: la guerra. Alla fine fu chiaro che non  ci sarebbe mai stato un  vincitore mentre ogni singolo stato poteva aspirare a dominare gli altri con la forza come le dittature nazifasciste avevano dimostrato. Questo fu il motivo che spinse a concepire l’Unione Europea. Una unione democratica di Popoli e non di Stati, dove le risorse economiche e umane sarebbero state dedicate al benessere di tutti i sui cittadini e non alle guerre intestine. Per questo preferisco sentirmi Cittadino Europeo ancora prima che Italiano.
La Notte Europea dei Ricercatori è solo una piccolissima parte di questo lunghissimo percorso. 2000 anni di guerra hanno creato una diffidenza atavica tra le diverse culture europee che spesso non sono sono limitate neppure dai confini geografici delle nazioni. Per superare questa diffidenza occorrerà ben più che 70 anni di storia. Ma questo è già un piccolo e importante passo, una minuscola ma non insignificante tessera del mosaico europeo che dobbiamo faticosamente costruire giorno dopo giorno superando le barriere culturali e nazionali che ancora dividono i Popoli di questo continente.
Il contributo di Frascati Scienza al grande disegno europeo non è indifferente; sono anni che si cimenta nella preziosa opera di organizzazione delle manifestazioni scientifiche nazionali ed europee coinvolgendo in questo le varie entità di ricerca scientifica e università italiane , come dimostrano la prossima Settimana della Scienza (24 – 30 Settembre 2016) e la  Notte Europea dei Ricercatori 2016 (30 Settembre 2016).

È possibile scovare i diversi programmi e le manifestazioni più vicine seguendo questo link messo a disposizione dalla Commissione Europea, dove vengono indicati tutti gli eventi si svolgeranno simultaneamente il prossimo 30 Settembre in più di 250 città in Europa e nei Paesi limitrofi (Ucraina e Turchia, ad esempio), intitolati alla memoria delle opere di Maria Slodowska-Curie.

Gocce nel mare? Forse lo sono ma come dicevano i nostri antenati latini gutta cavat lapidem, ossia la goccia perfora la pietra. E a ben guardare, l’ostilità che più o meno artificiosamente è indotta da coloro che vedono come ostacolo l’Europa Unita è un macigno che deve essere sgretolato per il bene di tutti i Popoli Europei.