La bellezza nell’essere unici

Sono colpevolmente assente da queste pagine da molto, troppo tempo. Quest’anno non ho nemmeno avuto il tempo di partecipare alla pubblicità della Notte Europea dei Ricercatori sponsorizzata ogni anno  a settembre per l’Italia dagli amici di Frascati Scienza. Ritengo quel momento fondamentale per l’intera ricerca scientifica europea e le importanti sfide che ci attendono nel futuro e spero di essere presente il prossimo anno come blogger.
Il motivo di questa mia lunga pausa è dovuto al fatto che ho da poco ripreso in mano l’idea, vecchia ormai di due o tre anni, di scrivere un mio libro. Non me la sento per ora di garantire un regolare flusso di articoli finché sarò preso in questo importante progetto che non so per quanto mi terrà impegnato nel prossimo futuro. Per farmi perdonare e per stuzzicare la vostra curiosità, pubblico in anteprima un breve estratto della presentazione che lo accompagnerà.

Tic-tac-toe in the skyOvunque posassimo lo sguardo nell’Universo vedremmo infinite varietà che rendono unico ogni anfratto.
Le leggi fisiche sono soltanto quattro, le combinazioni che i protoni, neutroni ed elettroni possono raggiungere — presumibilmente — sono appena 137. Eppure in questo sterminato Universo fatto di migliaia di miliardi di galassie e infiniti vuoti non c’è una stella, un mondo, un metro cubo di spazio esattamente uguale a un altro.
E anche là dove fosse sorta la vita, non potrebbe esserci un organismo esattamente identico a un altro, sia nello spazio che nel tempo. Restando su questa piccola gemma blu spersa nell’infinito cosmico, nelle migliaia di secoli non è mai esistito animale o vegetale del tutto identico al suo più prossimo. Un solo Pitagora, un solo Giulio Cesare, Gandhi o Einstein: ognuno di noi è lievemente diverso dal resto e proprio questo lo rende preziosamente unico.
Per estensione potremmo affermare che la Specie Umana e la Terra sono uniche in tutto l’Universo e in tutta la sua storia passata, presente e futura. Questo non deve essere visto come un inno all’antropocentrismo ma bensì come lode all’essere umano. 
Come esseri senzienti dovremmo riflettere bene su questo aspetto e di conseguenza mirare le nostre azioni se non vogliamo finire nell’oblio cosmico.

Una plausibile risposta alla celebre domanda “… allora dove sono tutti quanti?” di Enrico Fermi — poi passata alla storia come il Paradosso di Fermi — è che ogni civiltà tecnologica emergente prima o poi è costretta ad affrontare una o più sfide che ne potrebbero decretare il fallimento, un Grande Filtro che di fatto renderebbe il passaggio da civiltà tecnologica a civiltà interplanetaria e poi cosmica molto molto difficile.
Trent’anni fa era la prospettiva di una guerra apocalittica combattuta con armi di distruzione di massa [1. 
Carl Sagan sostenne che è proprio la durata di una civiltà il fattore più importante per stabilire quante esse ci siano adesso nella galassia: egli sottolineò l’importanza delle difficoltà che avrebbero incontrato le specie tecnologicamente avanzate per evitare l’autodistruzione. Questa consapevolezza accese l’interesse di Sagan verso i problemi ambientali e lo spinse ad impegnarsi contro la proliferazione nucleare.] per la supremazia tra due modelli sociali opposti e apparentemente inconciliabili 1,  oggi quell’incubo, anche se non si è mai allontanato del tutto, è stato scavalcato dal degrado ambientale globale, di cui il Global Warming con tutte le sue conseguenze politiche ed economiche che comporta è soltanto il più noto, l’esaurimento delle risorse naturali causato dal dissennato sfruttamento imposto dal modello economico globale imperante, oppure una involuzione sociale causata da una o a tutte le minacce menzionate qui sopra messe insieme.

Qualora ci soffermassimo per un attimo a osservare il percorso evolutivo dell’Universo, potremmo renderci conto che quando facciamo della scienza e della filosofia non siamo nient’altro che Universo che si interroga su sé stesso, un angolo di Autocoscienza Universale che non merita di perdersi nell’oblio del nulla: una flebile scintilla di intelligenza che merita di diventare fuoco eterno.
Affinché l’Umanità emerga  nel panorama cosmico, cosa che mi auguro, essa dovrà saper affrontare grandi e importanti sfide: non esistono scorciatoie per questo traguardo.
E lo dobbiamo per nostri sacrifici, i nostri antenati e tutta la storia di questo pianeta; dobbiamo farlo per assicurare un futuro ai nostri figli e  tutti i nostri discendenti. Altrimenti ogni sforzo, lacrima e sudore versati finora da ogni Uomo sarà stato vano.

Rolling Stars

Il mezzo flop delle riprese della scorsa eclissi lunare avrebbe potuto gettarmi nello sconforto e farmi abbandonare il mio progetto. E invece …

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum dice un vecchio detto latino, e spesso è vero. Ma non sempre: qualche volta perseverare dopo aver fatto tesoro dei propri errori è la vera chiave del successo.
Ho ordinato nuovi cavetti per lo scatto remoto, modificato il supporto del motore del mio Astro Dolly per sostenersi a un cavalletto fotografico (per ora c’è il nastro telato per non rovinarvi la sorpresa) e aggiornato il software di controllo del mio progetto (che presto renderò pubblico sul mio canale Github). Il risultato è che nella notte del 13 agosto (quella per intenderci tra il 12 e il 13) tutto ha funzionato a dovere: tra le  00:12  e le 02:41 sono state riprese 529 foto da 15 secondi di esposizione a 800 ISO con un intervallo di 2 secondi tra l’uno e l’altro scatto. 

Nonostante l’inquinamento luminoso (ero in giardino) della vicina città di Siena e degli antipatici lampioni stradali poco più sotto, ho potuto registrare un paio di meteore delle Perseidi.
Non molte per la verità ma quello passava il convento e sono comunque soddisfatto del risultato.
Ora non mi resta che continuare con i test e avviare la progettazione della nuova versione dell’Astro Dolly, dopotutto questo è soltanto un prototipo, con schermo per la programmazione e la raccolta di informazioni come la durata dello scatto, la sua ora e la posizione GSM del sistema e soprattutto un bulb ramping per riprendere i tramonti. 
Mi piacerebbe implementare anche un sistema di controllo remoto ma ho uno schermino touch screen da sfruttare in qualche modo e comunque il primo non esclude il secondo.

Ho un sacco di idee da realizzare e il tempo non è mai abbastanza.
Cieli sereni

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Timelapse di 529 fotogrammi ripresi con una Canon EOS 7D e un Samyang 10mm f 2.8 – 800 ISO per 15 secondi

Eclissi di Luna del 27 luglio 2018. Cronaca di un quasi disastro.

Mea culpa: lo scorso mese non sono riuscito a scrivere niente. Nemmeno per finire la seconda parte riguardo alla scoperta di molecole organiche su Marte — tema che senz’altro voglio concludere — perché in questi ultimi mesi sono stato preso dall’evento clou di questo periodo: l’eclissi di Luna del 27 luglio scorso.  Ma come insegna la celebre legge empirica di Murphy: « Se qualcosa può andar storto, sicuramente lo farà. » E al primo tentativo sul campo, aggiungo io.

Il mio dolly (per ora un prototipo) durante i primi test. Credit: Il Poliedrico

È noto che avrei voluto costruire un astroinseguitore cercando un approccio molto diverso dalla classica barn door tracker, dove la rotazione di una tavoletta su un suo asse esattamente in sincronia con  la volta celeste permette di fotografare le stelle fisse senza moto apparente. Non voglio ripetermi sulla geometria di tale strumento, basti ricordare che l’asse va posizionato esattamente parallelo all’asse terrestre: in pratica è il medesimo schema di una montatura equatoriale. Concettualmente è banale ma la realizzazione del mio progetto richiede una precisione meccanica che io non possiedo e da solo non posso ottenere: sarebbe ben più pratico e meno costoso comprarmi una montatura equatoriale motorizzata e concentrarmi esclusivamente sulla parte elettronica e di programmazione.

Per questo ho ridimensionato il progetto a un semplice dolly, un aggeggio motorizzato che fa muovere la macchina fotografica mentre scatta. Il risultato è un time-lapse che ruota. Per evitare il mosso nelle esposizioni lunghe come richiede l’astrofotografia, la rotazione viene fermata durante lo scatto e ripresa durante l’intervallo tra due riprese. Per rendere il progetto più interessante ho pensato di sfruttare un sensore di luce (TSL2591) estremamente sensibile (da 0.000118 a 88000 lux) per determinare automaticamente la durata del tempo di scatto, quello che in gergo fotografico è chiamato bulb ramping, ovvero una compensazione graduale dell’esposizione nella transizione tra il giorno e la notte,

Il piano A

La variazione di luminosità del fondo cielo durante una eclissi di Luna appare evidente in questo curioso collage emerso durante la creazione del timelapse. Il puntino rosso in basso è Marte, il quale offre un inaspettato riferimento: esso diviene via via meno importante con l’aumentare della luminosità ambientale dovuta dall’uscita della Luna dal cono d’ombra. Credit: Il Poliedrico

Chi ha assistito a una eclissi di Luna avrà senz’altro notato come la luminosità del fondo cielo varia drasticamente durante questa: l’idea di una graduale compensazione dell’esposizione era troppo ghiotta perché me la facessi sfuggire.
Così ho scritto un po’ di codice per ottenere un effetto bulb ramping pilotato dal TSL2591 e questo … funzionava! O meglio, ottenevo una lettura dei lux corretta in ogni condizione di luce e da qui ho ricavato una routine che avrebbe poi regolato il tempo di scatto. Purtroppo quando andavo a integrare il sensore e le sue routine nel circuito di controllo del dolly ottenevo sempre dei crash di sistema del tutto casuali e imprevedibili.
Ho rivisto il codice, l’ho riscritto per buona parte, ma niente; Il problema era più un limite hardware: sia il sensore che io nel dolly stavamo usando lo stesso timer a 16 bit dell’ATmega328P dell’Arduino Nano (l’unico a 16 bit disponibile) e pasticciare con lo stesso timer per fare due cose diverse non è mai una bella cosa.
Avrei dovuto riprogettare la parte elettronica con un ATmega2560 ma ormai non c’era più tempo. Ed ecco: 

Il Piano B

Il panorama era fantastico! Credit: Il Poliedrico

Vi ricordate il Canon Hack Development Kit (CHDK) di cui parlai qualche anno fa [1][2]? Ebbene, ne esiste una versione più evoluta e completa per le Canon EOS che si chiama Magic Lantern [3]. Anche questo è un firmware alternativo che, come il CHDK delle Canon Powershot, si installa nella RAM della fotocamera senza distruggere il firmware originale. Esso semplicemente aggiunge delle funzionalità alle preesistenti nel firmware ufficiale. Basta togliere il programma dalla memory card e tutto torna come prima.

Tra queste utilissime nuove funzioni c’è anche una specie di bulb ramping integrato piuttosto evoluto ma non avevo il tempo materiale per studiarne le regolazioni.
È pure disponibile perfino un grazioso intervallometro che non avrei mai immaginato quanto questo mi sarebbe stato utile. Ma andiamo con ordine.

Il Piano C

Questo è il mio power bank per le riprese sul campo. Alimentato da una batteria piombo/acido da 12 V-10 Ah. Le uscite avio e jack per il telescopio e altri accessori a 12V sono controllate e stabilizzate elettronicamente, poi prevede due uscite USB e una presa accendisigari. Credit: Il Poliedrico

Il bulb ramping interno alla fotocamera avrebbe risolto il primo problema: programmando il dolly di fare una pausa di scatto di 10 secondi mi avrebbe comunque permesso di fare riprese corrette come avrei voluto, ma la mancanza di esperienza nel regolare tutte le variabili necessarie mi ha costretto a rinunciare anche al piano B. A quel punto il dolly avrebbe dovuto semplicemente muovere la fotocamera e ordinare uno scatto di 3-4 secondi di esposizione a 400 ISO (per minimizzare il rumore) e via; d’altronde la configurazione da me scelta aveva dato buoni risultati con la Luna quasi piena delle sere precedenti.

Avete presente la nuvola nera di Fantozzi? La mia era uno sciame di moscerini (o erano zanzare?)  che danzavano proprio sopra la mia testa; letteralmente! E per la fretta, le mie dita a prosciutto o la Maledizione della Prima Luna, mi è capitato anche che spezzassi il jack di scatto dentro la fotocamera 1: di conseguenza niente dolly e scatto remoto.

Se credete che questo basti per scoraggiarmi vi sbagliate. È a questo punto che l’intervallometro, mai sperimentato, dentro al firmware Magic Lantern ha in parte salvato la mia serata osservativa e consentito comunque di fare un timelapse dell’eclissi.
Avevo portato anche un’altra fotocamera sul campo ma imprevisti problemi di carica della batteria mi hanno impedito di fare riprese dell’evento a lunga focale.

Dicono che la fortuna è cieca ma nel mio caso la sfiga ci vede benissimo!

Conclusione

Nonostante tutte le avversità che mi sono capitate, io e chi si è unito a me per la serata cii siamo divertiti, mentre di tutto quello che mi è successo per questa occasione mi servirà di lezione per l’eclissi del 16 luglio prossimo 2, perché in questo campo non si smette mai di imparare. Se mi vorrete sarò molto probabilmente nello stesso posto, perché a parte il discreto viavai di coppiette in cerca di intimità  3 (i flash nel filmino sono dovuti ai fari delle loro auto 😀 )  perché trovo che quel luogo sia incredibilmente bello e suggestivo.

Cieli sereni

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Timelapse di 240 fotogrammi ripresi con una Canon EOS 7D e un Samyang 10mm f 2.8 – 400 ISO per 6 secondi

Una possibile atmosfera protoplanetaria per PDS 70b

SPHERE (Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument) sta davvero rivoluzionando l’astrofisica. Adesso è possibile scrutare i pianeti intorno alle loro stelle e studiare perfino per sommi capi la loro probabile atmosfera attraverso l’analisi spettroscopica di quella debole luce riflessa. Un traguardo che fino a pochi anni fa era ritenuto impossibile e che invece oggi si avvera.
Già mi pare di sentire le critiche — stupide — di chi pensa che tutto questo non serva a niente. Le immagini spettroscopiche e termiche riprese da droni, aerei e satelliti permettono di studiare e identificare infezioni e parassiti nelle coltivazioni agricole ben prima che i segni siano visibili sul campo [4]. Le tecnologie e principi che consentono di scorgere altri pianeti sono le stesse degli strumenti che ci permettono di vivere meglio su questo sassolino sperduto nell’infinito cosmo.

La posizione nel cielo di PDS 70 (V* V1032 Cen), una stella di tipo T Tauri un po’ più piccola del Sole (0,82 M☉) a 370 a.l. dalla Terra.

A prima vista PDS 70 è soltanto una delle miriadi di stelline che un qualsiasi buon telescopio nell’emisfero australe permette di vedere. Ma  in realtà è molto di più: essa è una stella nata da pochissimo, appena tra i 6 e i 10 milioni di anni ed è abbastanza vicina da permettere di studiare cosa accade in quel particolare momento, ovvero come si forma un sistema planetario. 
Già nel 1992 i dati del satellite IRAS[5] suggerivano PDS 70 come candidata ospite di un disco planetario, poi scoperto nel 2006.
Nel 2012 la svolta:  una regione vuota a circa 65 U.A. dalla stella suggerivano che lì si stava forse formando un pianeta [6] tra le 30 e le 50 volte Giove.
Successive osservazioni [7] hanno rivisto e corretto le prime stime confermando però la presenza di strutture protoplanetarie multiple: intorno a quella debole stellina si stavano formando più pianeti!

Lo studio con SPHERE: PDS 70b

Questa immagine, catturata dallo strumento SPHERE installato sul VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, è la prima chiara fotografia di un pianeta nel momento in cui si sta formando; in questo caso intorno alla stella nana PDS 70, nella costellazione australe del Centauro. Il pianeta si distingue nitidamente; è il punto brillante alla destra della stella adeguatamente oscurata da un coronografo, una maschera che blocca la luce accecante della sorgente principale. Credit: ESO/A. Müller et al.

Quindi questa è per sommi capi la storia di PDS 70, una stellina di classe spettrale K5-K7 12, distante appena 370 anni luce — praticamente dietro l’angolo — e molto giovane (a quell’epoca sulla Terra le prime scimmie antropomorfe si preparavano a conquistare il mondo: i nostri antenati).
E adesso, grazie allo strumento SPHERE installato sul VLT (Very Large Telescope) dell’ESO, è stato finalmente possibile osservare il primo pianeta mentre è ancora nella fase della sua formazione [8] e di distinguere spettroscopicamente la sua probabile atmosfera [9].
Il pianeta, chiamato PDS 70b, appare mentre si sta aprendo la strada nel disco primordiale di gas e polvere intorno alla giovanissima stella a circa 3 miliardi di chilometri da questa (circa 20 U.A.), più o meno la distanza che separa Urano dal Sole con un periodo orbitale di 119 anni. Data la distanza e il periodo di rivoluzione non è stato difficile risalire alla stima della sua massa, che appare così di circa 10 masse gioviane.

Atmosfera protoplanetaria

Lo spettro di PDS 70b alla base delle simulazioni della sua atmosfera. Per una migliore comprensione leggere lo studio al riferimento 6 di questo articolo.

Ma non solo.  Grazie a SPHERE è stato possibile intercettare lo spettro di PDS 70b — che appare decisamente rosso, e stimare così anche la sua temperatura: circa 1200 ± 200 gradi Kelvin. E sempre grazie allo spettro del protopianeta è stato possibile risalire attraverso modelli e simulazioni numeriche alla possibile atmosfera di  questo.

Conclusioni

Il primo esopianeta fu scoperto nel 1995, ossia più di vent’anni fa.  I primi esopianeti osservati erano enormi e di solito orbitavano attorno a stelle più piccole del Sole. Questo perché per gli strumenti di quell’epoca erano gli unici oggetti che era possibile intercettare con le osservazioni, tant’è che per un momento si credette che tutte le nostre teorie sulla formazione planetaria fossero sbagliate. Dopo arrivarono strumenti più sofisticati, pensati apposta per raccogliere l’immane sfida di osservare oggetti sempre più piccoli e più difficili da scrutare. E così anche le teorie sulla formazione planetaria partendo dalla frammentazione dei resti della nube che aveva generato la stella furono confermate. Oggi lo vediamo con PDS 70b grazie a strumenti sempre più sofisticati come SPHERE. Anche strumenti di calcolo  sempre più potenti permettono di risalire alla composizione chimica delle atmosfere esoplanetarie così come possiamo risalire alla composizione chimica delle nubi di Venere con un normale telescopio.
Tra vent’anni cosa potremmo scoprire partendo da queste premesse?

Molecole organiche su Marte (prima parte)

Quando mi è stato concesso, ho sempre cercato di osservare le cose nel modo più ampio possibile e a cercare di stabilire dei collegamenti logici tra tutte le informazioni che mi sarebbero state utili per cercare di descriverle. Spesso è difficile star dietro al mio modo di ragionare, ma questo genere di approccio mi è sempre stato di aiuto per comprendere meglio ciò che in quel momento era alla mia attenzione. E forse anche per questo che sono sempre stato moderatamente scettico sul passato biologico marziano. È vero, ci sono stati i controversi risultati del Labeled Released Experiment [10] e sono state indicate alcune similitudini tra le microbialiti terrestri (ex. le stromatoliti) e le strutture osservate nei depositi argillosi su Marte [11], ma diciamocelo: finora non è mai stata accertata la presenza di vita ora o nel passato di Marte.
Affermare l’opposto o velatamente ammiccare alla scoperta della Vita su Marte come molti — anche autorevoli — siti e testate giornalistiche stanno facendo in queste ore è falso.

La ciclicità del metano

Andamento stagionale delle emissioni di metano nell’atmosfera di Marte in parti per miliardo correlati alla pressione atmosferica e alla posizione del pianeta nella sua orbita (longitudine solare). Le stagioni marziane sono analoghe a quelle terrestri ma molto più lunghe: un anno marziano corrisponde a 686,96 giorni terrestri. Credit: Christopher R. Webster, NASA/JPL — Edit: Il Poliedrico

Se avete seguito in questi anni questo blog, saprete senz’altro che la presenza sporadica di metano nell’atmosfera marziana era nota da anni: dal 2003 per la precisione [12]. In assenza di prove della presenza di organismi biologici per la metanogenesi (principalmente archaea) su Marte, è ovvio rivolgersi verso i meccanismi abiotici di produzione del metano [13][14], che qui sulla Terra sono responsabili di circa il 10% della produzione annua di questo gas rilasciato nell’atmosfera. Finora non erano note esattamente le cause della presenza del metano nell’atmosfera di Marte: si era creduto a una sporadicità magari derivata da un qualche impatto cometario  passato inosservato. Ma a causa dell’ambiente continuamente bombardato dalle radiazioni ultraviolette del Sole, il metano marziano rilasciato nell’atmosfera non potrebbe esistere per più di 100-300 anni, in contrasto quindi con quanto viene registrato fin dall’anno della scoperta della sua presenza (si tratta pur sempre di una manciata di molecole per miliardo vista la tenuità dell’atmosfera marziana) e soprattutto in seguito quando vennero scoperti dei rilasci altamente localizzati di metano ritenuti allora sporadici.
Per questi si era teorizzata una qualche forma di attività geotermica ancora esistente ma si sa anche che Marte ha cesaato ogni sua attività vulcanica importante da miliardi di anni. 
La scoperta della ciclicità stagionale del metano atmosferico marziano è la notizia. Questa è la conferma che l’ambiente marziano risente del cambiamento stagionale ben più di quanto finora era stato supposto. Qui i principali indiziati potrebbero essere i clarati 1 intrappolati nel sottosuolo che per effetto del mutare delle condizioni di insolazione e temperatura stagionali possono venire decomposti. l’acqua così liberata potrebbe anche avviare i processi di serpentinizzazione del basalto arricchendo così le quantità di metano rilasciato nell’atmosfera.

Questa scoperta è illustrata meglio nell’articolo di Science e nei suoi allegati che vi invito a leggere [15] nell’attesa che scriva anche la seconda parte.
Cieli sereni.

Alba cosmica

Appena tre  articoli fa avevo stimato in un paio di miliardi di anni a partire dal Big Bang l’intervallo di tempo ragionevole per il crearsi delle condizioni minime necessarie per lo sviluppo degli elementi chimici più pesanti dell’idrogeno (per gli astrofisici questi sono chiamati tutti metalli a prescindere del loro peso atomico) necessari alla vita come la conosciamo, che io per comodità qui su questo Blog ho sempre chiamato Vita con la maiuscola.
Ma forse mi sbagliavo, quelle condizioni potrebbero essersi sviluppate molto prima: almeno 2/3 di quel lasso di tempo: appena 250-500 milioni di anni dopo il Big Bang. Quella fu la prima, vera, alba del Cosmo? difficile dirlo per ora; certo è che la primissima generazione di stelle apparve molto, molto, presto.

Nella grande immagine a sinistra, le numerose galassie dell’ammasso galattico MACS J1149 + 2223. Le lenti gravitazionali del cluster hanno permesso di scoprire una galassia 15 volte più lontana: MACS 1149-JD. In alto a destra vediamo lo zoom della regione mentre MACS 1149-JD è in evidenza nel dettaglio in basso a destra. Credit: NASA / ESA / STScI / JHU

MACS1149-JD1 non è una galassia appena scoperta e nemmeno la più grande — è appena un centesimo della Via Lattea. Fu scoperta dai telescopi spaziali Hubble e Spitzer nel lontano 2012 grazie all’azione di  lensing gravitazionale mediato dall’ammasso di galassie MACS J1149.6+2223, nella costellazione del Leone. Ma è nota per essere tra le più distanti dell’Universo osservabile — ha un redshift \(z \) di 9.6. La luce che oggi osserviamo abbandonò quella lontana galassia circa 13.3 miliardi di anni fa, cioè circa 500 milioni di anni dopo il Big Bang ed è talmente stirata per effetto dell’espansione dell’Universo da essere visibile solo nell’infrarosso (redshift cosmologico).

Ma seppur notevole non è questa la notizia più clamorosa che coinvolge MACS1149-JD1 [16]: un team di astronomi hanno studiato la luce di questa minuscola e debolissima galassia con ALMA (Atacama Large Millimeter/submillimetr Array)  e il VLT (Very Large Telescope) dell’ESO scoprendo così in essa il debole segnale dell’ossigeno ionizzato. Questo significa che nei suoi 500 milioni di anni era lì esistita una primissima generazione di grandi stelle che alla fine del loro ciclo vitale avevano cosparso il cosmo con le loro ceneri ricche di elementi pesanti tra cui l’ossigeno.
Già nel 2016 ALMA aveva permesso di scoprire tracce di ossigeno ionizzato in un altro oggetto del profondo cielo, la galassia SDXF-NB1006-2 [17], distante 13.1 miliardi di anni luce. Anche se la quantità di ossigeno allora rivelata risultava essere circa 10 volte meno di quella presente attualmente nella nostra galassia, in linea con quanto ci suggeriscono le simulazioni, indicava anche che l’intensa radiazione ultravioletta di quelle lontane stelle stava ionizzando una enorme quantità di gas, ben più di quanto ci si aspetterebbe se  la quantità di polvere e di carbonio fosse in linea con le proporzioni osservate dell’ossigeno. In pratica non c’era per SDXF-NB1006-2 quell’estinzione della componente ultravioletta che ci si sarebbe aspettato.
Ora MACS1149-JD1, oltre a spostare ancora più indietro nel tempo la presenza di ossigeno nell’Universo e di conseguenza la generazione stellare che l’ha creato, potrebbe contribuire a spiegare se la carenza di polveri era una caratteristica di quella lontana epoca oppure no.

The Grand Tack

Riprendo qui un argomento di cui avevo iniziato a parlare a dicembre [18] riguardo all’Intenso Bombardamento Tardivo e la curiosa Dicotomia Marziana. La scoperta di un asteroide ricco di carbonio, \(2004 EW_{95}\), nella Fascia di Kuiper potrebbe essere la “pistola fumante” del Grand Tack, la Grande Virata.

 

La linea rossa in questa immagine mostra l’orbita dell’asteroide 2004 EW 95 nella Fascia di Kuiper , in verde invece sono mostrate le orbite di altri corpi del Sistema Solare .
Credit: ESO / L. Calçada

Se da un lato la scoperta di altri sistemi planetari in orbita a altre stelle ci ha permesso di comprendere definitivamente che il nostro sistema solare non è una eccezione nel cosmo, dall’altro ci mostra che questo comunque possiede qualcosa di precipuo: la sua struttura. Una recentissima indagine sui sistemi multiplanetari scoperti da Kepler [cite]https://arxiv.org/abs/1706.06204[/cite] sottolinea questa peculiarità: la stragrande maggioranza dei sistemi sinora scoperti possiede ‘grappoli’ di pianeti, ossia una sfilza di pianeti con caratteristiche e distanze piuttosto simili fra loro. In altre parole, se una stella possiede un pianeta di taglia terrestre, i precedenti e i successivi non sono poi così dissimili, e la stessa osservazione pare valere per una stella che abbia pianeti di stazza gioviana: anche in questo caso gli altri pianeti di quel sistema appaiono piuttosto simili.
Al contrario invece, la taglia dei pianeti del Sistema Solare è piuttosto disomogenea.

Giove errante

Questo diagramma mostra la distribuzione orbitale in scala logaritmica dei pianeti extrasolari più piccoli di Giove che sono stati rilevati dalla missione di Keplero, in confronto alle orbite di Mercurio, Venere, Terra e Marte. La maggior parte di questi pianeti extrasolari sono molto più vicini alle loro stelle di accoglienza di quanto non lo siano i pianeti più interni del nostro Sistema Solare. Credit: Batygin e Laughlin, PNAS

L’idea che un giovane Giove errante possa essere stato il grande protagonista della storia dei primordi del Sistema Solare risponde ai tanti quesiti ancora irrisolti sulle sue tante peculiarità.
Questa nuova teoria si deve a Konstantin Batygin , uno scienziato planetario del Caltech, e Gregory Laughlin dell’UC Santa Cruz  [19].
Qui si propone che il Pianeta Gigante si sia formato fra 3 e le 5 U.A. dal Sole mentre il Sistema Solare interno si stava popolando di oggetti anche più grandi della Terra stessa. Man mano che la sua massa diventava sempre più importante, la viscosità della nebulosa interplanetaria ancora presente lungo la sua orbita l’avrebbe rallentato spingendolo verso il Sole in orbite via via più piccole 1. Tale decadimento avrebbe spinto Giove fino a una distanza di circa 1,5 U.A. dal Sole, perturbando così le orbite di tutti gli altri pianeti interni e spingendo su altrettante orbite fortemente ellittiche tutti i planetesimi che perturbava.
Intanto un altro corpo celeste si stava formando poco più indietro, e a lui si deve la nostra fortuna: Saturno. Il secondo corpo massiccio in formazione poco dietro il primo Giove entrò presto in risonanza orbitale 2:1 con questo: due orbite del primevo Giove corrispondevano a una singola orbita di Saturno.
Tale risonanza ebbe l’effetto di riaccelerare Giove e di trainarlo di nuovo verso le 5 U.A. nell’arco di 100 mila anni e di spingere Saturno oltre le 7 U.A.: un po’ come la piroetta che si dà un lanciatore del martello in atletica. Giove riacquistò così abbastanza velocità orbitale e momento angolare a scapito di Saturno e insieme la coppia dei pianeti giganti si stabilì dove più o meno sono oggi, dove la risonanza si è interrotta. In seguito poi Saturno si sarebbe stabilizzato attorno alle 9 U.A.
L’incursione di Giove nel Sistema Solare interno ebbe alcuni importanti effetti: quando vi entrò destabilizzò le orbite dei planetoidi — alcuni probabilmente erano anche più grandi della Terra — che si erano già formati spingendoli verso il Sole e quando vi uscì portò via con sé un bel po’ di materiale asteroidale che avrebbe poi creato la Fascia Principale di asteroidi e quelli che orbitano intorno ai punti lagrangiani della sua orbita. Il risultato fu un sistema interno talmente povero di materiale che ce ne fu appena per formare Venere e Terra. Altri corpi minori del Sistema Solare interno, come \(2004 EW_{95}\)[cite]https://arxiv.org/abs/1801.10163[/cite]  furono espulsi fino alla Fascia di Kuiper [20].
Inoltre, con l’uscita dell’influenza di Giove del Sistema Solare interno non restò neppure abbastanza materiale per la crescita di Marte (avendo Marte un’orbita assai più grande della Terra avrebbe dovuto raccogliere molto più materiale di questa e di conseguenza essere anche più grande) e gli altri piccoli corpi in orbite fortemente ellittiche non ancora caduti sul Sole finirono per alimentare l’Intenso Bombardamento Tardivo di 3.9 miliardi di anni fa e le cui tracce si scoprono oggi sulla Luna. 

No, ai suoi albori il Sistema Solare non era quel luogo tranquillo come lo è oggi, con pianeti su orbite stabili e quasi circolari per i pianeti più grandi. A causa di Giove e Saturno i primi milioni di anni furono tremendi ma è anche grazie a questi se oggi viviamo in un sistema planetario relativamente tranquillo e sicuro. Oggetti come \(2004 EW_{95}\) potrebbero raccontarci molto su ciò che era in quella remota era il Sistema Solare, come è nato,m la sua composizione e forse anche come è nata la vita qui sulla Terra. Sarebbe bello poter esplorare in futuro questi corpi, hanno ancora tanto da dirci!

Il messaggio in bottiglia

Potrebbe essere che il nostro approccio alla ricerca di vita intelligente sia del tutto sbagliato: che ci ostiniamo a guardare nel modo sbagliato e che dovremmo invece sondare la vastità dell’oceano cosmico con metodi molto diversi. Magari basterebe sedersi sulla riva ed aspettare che il messaggio approdi dalle nostre parti.

Sono ormai diversi anni che si è trovato il modo di scrivere interi libri completi di immagini e della formattazione del testo in una sequenza di DNA. La densità di informazione che una catena di DNA può contenere è enorme: intorno a un milione di gigabit per millimetro cubico [21] [22]: l’intera Biblioteca del Congresso di Washington 1 potrebbe risiedere in appena poco più di questi 3 cubetti.
È vero, leggere il DNA risulta essere un processo molto più lento che leggere da un vetusto floppy degli anni ’80 o anche da un nastro magnetico, ma l’informazione  contenuta in esso può resistere inalterata per miliardi di anni: a confronto l’unico altro processo di conservazione dell’informazione che resiste nel tempo, ma non altrettanto a lungo, è l’incisione rupestre! Inoltre il DNA lo si può replicare esattamente una miriade di volte e non richiede alcuna energia per la sua conservazione. Tutti questi fattori rendono la comunicazione di informazioni attraverso il DNA — o catene polimeriche simili —un mezzo ideale: basti pensare che in esso è contenuta tutta l’informazione necessaria al corretto funzionamento di qualsiasi organismo biologico che conosciamo.

Supponendo che una razza aliena tecnologicamente evoluta voglia intenzionalmente mostrarsi al cosmo, potrebbe altresì essere cosciente dei limiti che ha una comunicazione interstellare attraverso le onde elettromagnetiche, come ad esempio la degradazione del segnale (non dimentichiamoci della legge dell’inverso del quadrato della distanza)  e prendere atto del rischio che una simile trasmissione potrebbe comunque rimanere inascoltata per le ragioni che ho espresso sopra: queste considerazioni potrebbero scoraggiarla dall’intraprendere questa strada e decidere di seguire altre vie per annunciare la sua presenza o rinunciarvi del tutto.

Oppure, e qui mi addentro nella pura speculazione scientifica, decidere di lasciare una traccia di sé, una testimonianza o il suo epitaffio, alle correnti dello spazio in forma di spore. Sarebbe un metodo meno costoso e assai più efficace: esso non richiederebbe una fonte costante di energia come per generare un segnale elettromagnetico e non conoscerebbe il problema della degradazione del segnale. Le spore se adeguatamente protette dalle radiazioni ionizzanti [23] potrebbero resistere inalterate per eoni e diffondersi per l’intera Galassia in un arco di tempo misurabile tra decine e centinaia di milioni di anni. Tutto il lavoro lo farebbero le onde di marea galattiche [24] [25] e i venti interstellari [26] che rimescolano incessantemente il gas e il pulviscolo del mezzo interstellare. In un certo senso è quello che abbiamo fatto anche noi coi dischi delle Voyager e le placche dorate delle Pioneer: annunciare la nostra presenza al cosmo a chiunque in un futuro molto lontano potrà scoprirle ed interpretarle. Per noi, come civiltà agli albori dell’era spaziale,  è stato un po’ l’equivalente più evoluto di una tavoletta sumera di argilla,  un niente in confronto a quanto una singola catena di DNA, una spora o anche un virus può contenere ma era quanto di più longevo potessimo offrire con la tecnologia degli anni settanta del XX secolo.

La panspermia

Nel progetto SETI, sono stati proposti molti modi in cui una possibile civiltà extraterrestre potrebbe rivelarsi: la produzione di onde radio e microonde, raggi laser e maser (una versione della tecnologia laser nelle microonde), modulazione pilotata di una sorgente naturale come una stella (in questa tecnologia potrebbe essere inserito il concetto della Sfera di Dyson [27]) o una pulsar, e così via: tutti sistemi che richiederebbero uno sforzo costante nel tempo, costoso e faraonico, ma con un importante limite temporale: la durata della civiltà. Niente dura per sempre: anche le stelle prima o poi si spegneranno, le galassie si disperderanno e l’Universo stesso finirà per cessare del tutto. Una civiltà aliena potrebbe aver preso in considerazione che il suo tempo è comunque limitato e scegliere quindi un modo più efficace per lasciare la sua testimonianza comunque. Lasciare il proprio epitaffio nel cosmo sotto forma di spore protette nei nuclei cometari della loro Nube di Oort quindi potrebbe essere ben più allettante che impegnarsi in un progetto che prevedrebbe l’uso di tecnologie di trasmissione da manutenere costantemente.
Cosa potrebbe scrivere una civiltà così avanzata in un segmento di DNA? Praticamente di tutto, la sua storia, la sua cultura e le sue aspirazioni. Ma.

La traiettoria iperbolica di ‘Oumuamua dentro il Sistema Solare interno. La posizione dei pianeti è stata fissata alla data del suo perielio mentre la traiettoria del corpo è stata calcolata ogni sette giorni. Le date seguono la notazione inglese. Credit: Wikipedia

Appunto, ma. Sappiamo che una singola catena di DNA può contenere tutta l’informazione necessaria alla riproduzione di ogni essere vivente qui sulla Terra e da poco abbiamo imparato anche come editare direttamente tale contenuto [28]. Non mi sento quindi di escludere il dubbio che una civiltà evoluta possa essere accarezzata dall’idea di voler trascendere al proprio declino cercando di trasmettere sé stessa oltre tale limite. Indirizzare lo sviluppo e l’evoluzione della vita sui pianeti di altre stelle con le sue stesse caratteristiche potrebbe quindi apparirle più allettante ed economico di una qualsiasi trasmissione  lasciata al caso.
In verità questa non è un’idea originale ma è vecchia quasi quanto la nostra cultura: AnassagoraLord KelvinSvante Arrhenius e Fred Hoyle, solo per citarne alcuni,  l’hanno sostenuta. Francis Crick (lo scopritore della struttura a doppia elica del DNA), verso il 1970 credeva che il DNA potesse essere il frutto di una tecnologia aliena, salvo poi ricredersi aprendo alla possibilità che il DNA si fosse spontaneamente sviluppato qui sulla Terra da forme ancora più elementari. Si chiama teoria della panspermia [29] forte. Una teoria estrema, quasi fantastica, ma che poggia comunque su solide basi scientifiche: tutto sta a verificarla. Lo  scorso anno apparve nel nostro sistema solare ‘Oumuamua, il primo corpo extrasolare mai identificato finora [30], a conferma che corpi di provenienza esterna possono viaggiare dentro i sistemi stellari senza problemi.

Nonostante ogni sforzo, finora ancora non siamo riusciti a comprendere come possa generarsi la Vita. Abbiamo creato nuove sequenze genomiche, batteri col più basso numero di cromosomi necessari per vivere, qualsiasi cosa. Eppure nonostante tutto il passaggio fondamentale tra la non-vita e la vita ci rimane ancora ignoto. Ricorrere alla panspermia non è altro che rimandare il problema: dire che la vita come la conosciamo potrebbe essere provenuta da addirittura fuori del Sistema Solare e per giunta per un disegno intelligente sarebbe soltanto un pagliativo e un passaggio in più da spiegare. Eppure l’ipotesi che una antica civiltà abbia disseminato spore vitali per la galassia con l’intento di preservare la sua esistenza passando per altre forme è oltremodo affascinante e a mio avviso merita di essere analizzata. Dopotutto le speculazioni servono a questo.

Ascoltando il silenzio

Nell’articolo precedente ho illustrato la base minima su cui partire per cercare di comprendere il mio pensiero: non credo alla colossale panzana degli ufini ma neppure mi sento di escludere a priori l’esistenza di altre entità biologiche extraterrestri intelligenti che condividono con noi l’interesse di studiare e di esplorare il cosmo.

La vita come la conosciamo è basata sulla chimica del carbonio. Il carbonio a sua volta non è sempre esistito ma è uno dei prodotti di scarto delle reazioni nucleari delle stelle. Le prime stelle dell’Universo apparvero piuttosto presto: appena un centinaio di milioni di anni dopo il Big Bang. Ammettendo un paio di miliardi di anni come ciclo vitale delle prime grandi stelle, potremmo ragionevolmente affermare che l’Universo è in grado di sostenere la vita basata sul carbonio da almeno 9/10 della sua esistenza: cioè circa 12 miliardi di anni 1 [cite]https://arxiv.org/abs/1312.0613[/cite]. Se a questo dato dovessimo aggiungere l’intervallo che potrebbe essere necessario per traghettare la vita verso le forme dotate di intelletto almeno pari al nostro, prendendo la Terra come termine di paragone — in fondo è l’unico che per ora abbiamo, potremmo estrapolare che un cosmo potenzialmente abitabile da specie intelligenti sia possibile da almeno 8 miliardi di anni. È comunque un arco di tempo notevole che in qualche modo fa presente che una eventuale civiltà extraterrestre non va immaginata qui e ora ma cercata anche nella vastità del tempo.
Ogni tipo di comunicazione o segnale, per le nostre attuali conoscenze fisiche, non può essere più veloce della velocità della luce nel vuoto: ogni volta che osserviamo un qualsiasi oggetto, che sia l’albero di fronte a noi o il quasar più lontano nel cosmo, noi lo vediamo come era nel momento \(t – t_1\) in cui la luce lo ha lasciato ( \(t_1  = d / c\)).
Questo significa che anche se domani dovessimo scoprire segnali radio o di qualsiasi altra natura provenienti da una civiltà tecnologica extraterrestre, noi non potremmo prendere atto altro che del fatto che in un certo istante nel passato essa è esistita e che potrebbe essere, al momento della sua scoperta, ormai scomparsa. 
Un altro aspetto assai spesso trascurato è che ogni emissione elettromagnetica non è mai a costo zero: essa richiede energia per esistere, sia che si tratti dell’emissione di una stella o della luce di una lampadina o di una trasmissione radio. Certo, si potrebbe obbiettare che per una civiltà tecnologicamente avanzata la produzione di energia potrebbe non essere un problema ma questo a mio avviso non è, anche scientificamente parlando, corretto.
Inoltre, e questo è curioso oltreché vero, che le radioemissioni involontarie provenienti da una ipotetica civiltà extraterrestre che potrebbero rivelarci la sua presenza potrebbero essere assai limitate nella sua storia. Come ho spesso affermato su queste pagine anche in passato, le trasmissioni broadcast radiotelevisive di una potenza significativamente grande sono esistite per poche decine di anni, presto soppiantate da satelliti per le comunicazioni rivolti a illuminare aree limitate del nostro pianeta e cavi in fibra ottica transoceanici. Anche i nostri più perfezionati telefoni cellulari ci consentono di comunicare istantaneamente con ogni altra parte del globo con meno di un watt di radioemissione appoggiandosi a una rete di trasmettitori a bassa potenza e alle tecnologie satellitari, mentre il rumore elettromagnetico di fondo prodotto dalla nostra tecnologia basata sull’elettricità è aumentato a dismisura.
Una civiltà extraterrestre a 100 anni luce che ascoltasse la Terra potrebbe rivelarci tra 20-30 anni per poi vedere il nostro segnale crescere significativamente per una cinquantina d’anni e poi ridiscendere improvvisamente per lasciare il posto a un brusio di fondo molto forte alle frequenze più basse.
Per lo stesso motivo non potremmo percepire la presenza di un’altra civiltà con una storia evolutiva molto simile alla nostra molto a lungo a meno che i suoi segnali non coincidano col nostro periodo di ascolto: le loro emissioni potrebbero aver attraversato il Sistema Solare quando noi attraversavamo gli oceani su fragili caravelle o all’epoca della Guerra Civile Americana e oggi non saremmo più in grado di sentirli. A meno che non lo volessero di proposito ma quella è un’altra storia.

 Il paradosso di Fermi

È questo il vero problema e che potrebbe proporre una plausibile risposta al celebre paradosso: noi conosciamo la tecnologia radio soltanto da un centinaio di anni e solo da ottanta di essi questa tecnologia si è significativamente evoluta: su 8 miliardi di anni noi abbiamo la radio da un 100 milionesimo di questo arco di tempo. Pretendere che ascoltando qualche migliaio di stelle si capti una trasmissione intelligente in così poco tempo è statisticamente impensabile 2. Senza contare che le tecnologie di ricezione e di elaborazione del segnale si fanno ogni anno sempre più complesse ed efficaci: magari quella che allora era sembrata una spuria captata dall’arcaico Progetto OZMA oggi — o in futuro — potrebbe essere interpretata come un segnale intelligente.
Ma comunque qui ancora una volta sfugge una cosa fondamentale che può fallare ogni nostro sforzo: il nostro approccio alla ricerca di vita e intelligenza extraterrestre è comunque basato sul nostro grado di conoscenza e tecnologia, Cerchiamo segnali elettromagnetici — come le onde radio — perché in sostanza essi sono fondamentali nella nostra tecnologia, ma possono esserci altre forme di comunicazione e noi ignote o che non consideriamo come tali. Prendiamo il linguaggio umano: esso è basato sul suono, ossia la compressione modulata del mezzo in cui siamo immersi: l’aria. Ma molte specie di animali comunicano attraverso l’emissione e la ricezione di stimoli chimici come i ferormoni o altre molecole più elementari.

Stiamo ascoltando il silenzio e, a parte alcune ottimisti previsioni, continueremo a farlo per un bel po’. Qualcosa ancora certamente pare sfuggirci. Alla prossima …

 

(Continua…)

Dubium sapientiæ initium

Su un numero stimato di 200 miliardi di stelle nella Via Lattea, è abbastanza lecito ipotizzare che almeno più della metà di queste posseggano i requisiti minimi per poter ospitare pianeti adatti a sostenere la vita. Dal 1995, data della scoperta del primo pianeta extrasolare, ne sono stati scoperti per adesso quasi 4000, perlopiù in un’area grande quanto un piccolo francobollo di cielo. È vero, per ora conosciamo solo un pianeta su cui è presente la vita: questo; ma le leggi fisiche che governano la chimica della vita sono universali ed è quindi ragionevole supporre che essa possa essere presente anche su innumerevoli altri mondi in altrettante fantastiche forme.
Molti di quei pianeti – per ora soltanto stime – saranno semplicemente inadatti a sostenere la vita, altri potrebbero essere terribilmente inospitali e altri ancora invece potrebbero ospitare entità biologiche dalle più semplici alle più complesse per noi immaginabili. Ipotizzare l’esistenza di altre forme di vita complesse e intelligenti sparse qua e là nel cosmo non merita di essere considerata una semplice fantasticheria ma un esercizio di apertura mentale che già più di 450 anni fa Giordano Bruno, e prima ancora di lui anche altri filosofi, invitavano a compiere. Il programma di ricerca SETI (Search of ExtraTerrestrial Intelligence) cerca di rispondere proprio a questo. E se un giorno venisse confermata l’esistenza, passata o presente, di una civiltà extraterrestre tecnologicamente evoluta abbastanza da lasciare il segno della sua presenza?

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Innumerevoli Soli e innumerevoli Terre [31]
Quanti possono essere i pianeti potenzialmente in grado di ospitare la Vita secondo i canoni terrestri? Non lo sappiamo, ma già oggi possiamo stimare quanti pianeti ci sono nella Via Lattea.

Non passa praticamente giorno che da qualche parte del mondo qualcuno affermi di aver scorto un UFO nel cielo. A me, che più o meno sempre osservato il cielo, non è mai capitato ma conosco persone che sono pronte a giurare di averne visti.
Una volta verso il tramonto vidi verso Nord-Est rispetto alla mia posizione una “stella” arancione che stimai ad occhio di magnitudine -4 (più o meno come Venere). Ricordo che stavo guidando e che addirittura mi fermai per vedere meglio. Era apparsa così, all’improvviso e sembrava quasi immobile nel cielo. Pochi secondi dopo questa si affievolì e scomparve. Non poteva essere Venere o un altro pianeta perché l’evento era lontano dal piano dell’eclittica e il Sole non era ancora tramontato e neanche poteva essere una vera stella o un fulmine o una meteora, che sarebbe stata indubbiamente più veloce. Quell’episodio avrebbe potuto essere preso per un tipico avvistamento UFO: un puntino luminoso che improvvisamente appare e scompare nel cielo. Ma scrutando meglio nel punto in cui la luce era scomparsa vidi una macchiolina, un puntino scuro che proseguiva la sua rotta: era un aereo che per un attimo aveva brillato della luce riflessa del Sole al tramonto e che per una fortuita coincidenza mi ero trovato nel giusto angolo di riflessione.
Ho visto bolidi e stelle cadenti, assistito a eventi Earth-grazer 1 e una volta quand’ero piccolo ho visto anche un fulmine globulare, ma ahimè neanche un UFO piccino picciò o a qualcosa che potrei definire tale.

Quanto è mai credibile la tesi che vuole navicelle spaziali aliene che si schiantano sulla Terra dopo un viaggio cosmico di migliaia di miliardi di chilometri?

Però, giusto per il fatto che io non ne abbia mai visto uno, non posso arrivare a negare che là fuori nel cosmo possa esserci, o esserci stata, una qualche altra forma di vita intelligente seriamente intenzionata ad esplorare lo spazio come abbiamo intenzione di fare noi. Solo che ritengo altamente improbabile che una qualche civiltà aliena spedisca qualche sua astronave a migliaia di anni luce giusto per ingaggiare un balletto di luci con qualche nostro aereo militare, succhiare il sangue di qualche pecora e rapire qualche contadino semialfabeta di qualche fattoria isolata. E poi questi benedetti UFO crash che qualcuno immagina essere quasi voluti per far progredire la tecnologia umana: non vi pare altrettanto assurdo che le stesse civiltà di sopra viaggino per migliaia di anni luce superando difficoltà gravitazionali, nubi cosmiche e radiazioni indotte per poi non saper come atterrare sulla superficie di un pianeta senza rischio alcuno?
Piuttosto mi aspetterei che una qualche civiltà aliena interessata a noi possa tentare un approccio più serio cercando di mostrarsi a tutto il genere umano o almeno con le sue emanazioni politiche. Qualcuno senza giudizio è arrivato ad affermare che questo sia già realtà almeno fin dai tempi del Presidente Eisenhower e che i governi di tutto il mondo fin da allora collaborino o comunque che siano bene a conoscenza della presenza di extraterrestri sulla Terra e che su questa notizia mantengono il riserbo più assoluto. Ma gli stati sovrani indipendenti e riconosciuti sulla Terra sono 196 e in settant’anni un simile segreto ormai non sarebbe più tale nonostante tutto; nondimeno, la stragrande maggioranza di essi sono rappresentazione diretta e partecipata dei loro cittadini, quindi è bizzarro credere che una notizia di questa portata possa essere così bene occultata per tanto tempo.

Gli sprite, o spiritelli rossi per via del loro colore, furono documentati scientificamente soltanto nel 1989. Raramente sono visibili a occhio nudo.

No, non credo che le cose stiano così e che tutta la faccenda degli UFO così come vuole descrivere una certa vulgata sia una colossale sciocchezza giusto per attirare qualche turista in qualche bizzarra località e vendere qualche libro-spazzatura buono per gente senza arte né parte.
Ma nondimeno, come ho affermato in passato [32], ritengo che sia doveroso non sottovalutare il fenomeno. Ad esempio per migliaia di anni abbiamo creduto che i fulmini si propagassero solo verso terra o le altre nubi, oggi sappiamo che possono propagarsi anche verso lo spazio scatenando una enorme potenza (gli sprite).
Magari altre scoperte importanti si celano dietro quei — pochi — fenomeni ancora inspiegati. È compito della scienza indagare prima che ciarlatani e buoni a nulla insozzino tutto con la loro spazzatura.