Uno scrigno nel cielo australe

Nebulosa Tarantola. Credit: ESA/NASA

Uno dei miei desideri è quello di andare a vivere  nell’emisfero sud del mondo per qualche anno e così osservare le meraviglie celesti del cielo meridionale: le Nubi di Magellano, la Nebulosa Carena, la Croce del Sud … l’elenco è talmente vasto che occorrerebbe un atlante per contenerlo, qui non è proprio il caso.

Questa fotografia ripresa dal telescopio spaziale Hubble mostra uno di questi oggetti: la Nebulosa Tarantola o NGC2070 o 30 Doradus , a seconda di come ognuno scelga di chiamarla, situata nella Grande Nube di Magellano.
La 30 Doradus è enorme: 200 parsec 1 e dista 160-170 mila anni luce da noi: se si scambiasse di posto con la Nebulosa di Orione apparirebbe 60 volte più grande della Luna Piena e riuscirebbe proiettare ombre!
La sua natura nebulare fu riconosciuta sotanto nel 1751 dall’astronomo e abate francese  Nicolas Louis de Lacaille, noto per aver dato un nome a molte costellazioni dell’emisfero sud, prima si pensava che fosse soltanto una normale stellina di ottava grandezza.

La regione stellare R136 al centro della Nebulosa Tarantola Credit: ESA/NASA

In realtà 30 Doradus è la più grande regione di formazione stellare conosciuta nell’Ammasso Locale: una regione di idrogeno  ionizzato enorme, spazzata da venti stellari prodotti da antiche e nuove supernove e da giovani stelle blu, come quelle della regione R136 riprodotta qui a fianco.
Sono praticamente tutte delle giganti azzurre del tipo O3 2, uno scrigno di gioielli veramente unico!

Un giorno probabilmente 30 Doradus si evolverà in un ammasso globulare, uno dei tanti che circonda la nostra Galassia.

Sapete perché continuo a chiamare la nebulosa col nome di 30 Doradus? io non sopporto i ragni….

Le maree scatenano i terremoti?

Il mito della Superluna.

La teoria della Superluna: L’attrazione gravitazionale della luna piena al perigeo è in grado di deformare la crosta terrestre fino a scatenare i terremoti

In questi immediati momenti susseguenti una catastrofe naturale come il sisma in Giappone o lo tsunami del Natale 2004, ci sono strani personaggi che fantasticano sulle più disparate teorie sulle cause degli eventi e sulle certezze di poterli prevedere per il futuro.
Uno di questi – un astrologo –  chiama in causa un fenomeno lunare che lui chiama Superluna 1, ossia una luna piena che avviene al momento della minima distanza Terra-Luna chiamato perigeo.
Peccato che al momento del terremoto giapponese né l’una nè l’altra condizione si sia verificata, ma che questa si verificherà,ad esempio, il 19 di marzo 2011.

Parametri orbitali Luna
(All’epoca J2000)
Perigeo 363 104 km
Apogeo 405 696 km
Circonf. orbitale 2 413 402 km
Periodo orbitale 27,321 661 55 giorni
(27 d 7 h 43,2 min)
Periodo sinodico 29,530 588 giorni
(29 d 12 h 44,0 min)
Velocità orbitale
968 m/s (min)

1 022 m/s (media)

1 082 m/s (max)
Inclinazione
sull’eclittica
5,145396°
Inclinazione rispetto
all’equat. di Terra
da 18,30° a 28,60°
Eccentricità 0,0554

Questo è un fenomeno che, contrariamente a quanto racconta lo ‘strologo,  si verifica piuttosto spesso, ogni 413 giorni, anche se, la contemporaneità dei due eventi – l’opposizione esatta della Luna col Sole e il suo perigeo – è più difficile che combacino.
Anche l’evento del 19 non fa eccezione: infatti la luna piena sarà alle 18:06 UT, mentre il perigeo sarà alle 19:00 UT.
Il problema per la teoria della Superluna è che il terremoto  si è verificato invece proprio nel momento in cui l’azione mareale della Luna – a meno del primo quarto – e con la Luna che non era certo al perigeo (l’apogeo la Luna l’aveva raggiunto il 6 di marzo).
Questo dimostra senza ombra di dubbio che il mito della Superluna è sfatato.

Cosa sono le maree.

Le maree 2  sono alterazioni della superficie terrestre dovuti all’interazione gravitazionale dei corpi celesti con la Terra.
Le più evidenti e note sono quelle marine, che seguono l’andamento della  posizione della Luna nel cielo. Se la Terra fosse ricoperta da uno strato uniforme di acqua, queste avrebbero un’oscillazione di circa due metri, ma siccome  – per nostra fortuna – non lo è, l’escursione di una marea dipende anche da altri fattori come l’altezza dei fondali, la morfologia dei litorali etc.

La distanza media tra il centro della Luna e il centro della Terra (trascurando quindi il fatto che l’orbita lunare è ellittica) è di circa 384400 chilometri; questo significa che la parte della Terra rivolta alla Luna è 6373 chilometri più vicina e la parte opposta è altrettanto più lontana. Ponendo quindi a 1 la distanza tra la faccia rivolta alla Luna e il suo centro, la parte opposta è 1.0337 più lontana; non sembra molto, ma significa che sul lato opposto la Luna esercita un’attrazione che è il 93.58% rispetto al lato a lei rivolto.
L’effetto di questa differenza di attrazione è che entrambi i lati si gonfino, uno in direzione della Luna, l’altro dalla parte opposta.
La frizione dovuta al continuo rigonfiamento e rilascio della superficie terrestre e dei mari dissipa parte dell’energia di rotazione della Terra equivalenti a circa 1 secondo ogni 100000 anni. Se questo ritmo fosse stato costante avremmo perso circa 12 ore da quando si è formata la coppia Terra-Luna, ma il ritmo di dissipazione nel lontano passato era sicuramente molto più importante, data la vicinanza della Luna di allora rispetto alla Terra.
Infatti, rallentare la rotazione di un corpo significa una perdita del momento angolare, che per la legge di conservazione non può essere perso. Quindi questo comporta un allontanamento della Luna dalla Terra, quello che viene perso nella rotazione dalla Terra  viene recuperato in momento angolare attorno al più distante centro di gravità comune con la Luna.

Quanto incidono i corpi celesti sulla crosta terrestre.

Mentre la differenza gravitazionale tra i lati opposti del pianeta è sufficiente per una azione sensibile sulle masse liquide slegate come mari e oceani,  per quanto riguarda la parte solida della crosta terrestre, l’influenza  è molto più piccola, ma non del tutto insignificante.
L’effetto mareale dei corpi celesti si estende ovviamente anche alle parti solide della crosta, a cui si attribuiscono 55 centimetri di variazione per effetto mareale lunare e circa 15 centimetri per effetto del Sole all’equatore. Queste deformazioni della crosta sono importanti per la calibrazione dei sistemi GPS, ma anche per il corretto funzionamento degli accelleratori di particelle 3.
Anche queste, come le maree marine,  seguono lo stesso ciclo di 6 ore, ma a causa della maggiore inerzia della crosta solida le maree sulla componente solida del pianeta sono in fase con la Luna con un ritardo di circa 2 ore.
Il Sole è 27 milioni di volte più massiccio della Luna ma 389 volte più lontano,  quindi il suo effetto mareale è solo il 46% di quello lunare, mentre quello di Giove, il pianeta più massiccio del sistema solare, è appena un centesimo di quello sempre della Luna.

Se le variazioni di altezza sono evidenti  sulla componente liquida della superficie terrestre, molto meno lo sono quelli della componente solida. Ma queste sollecitazioni possono scatenare un terremoto?
Semplicemente non lo sappiamo. Certo è che la continua interazione mareale  può contribuire allo stress delle faglie tettoniche, ma è il calore interno del pianeta la principale fonte di energia delle placche.
Al loro reciproco movimento, le placche oppongono una grande resistenza che si accumula, un po’ come se cercaste di far scorrere due fogli di carta vetrata o di gomma antisdrucciolo tra loro. All’inizio questi non si muovono per l’effetto dell’attrito, ma poi uno dei due fogli cede sotto la spinta e si muove all’improvviso, senza alcun preavviso. È quindi questo che rende imprevedibile un terremoto, magari può capitare che un evento minore scateni l’energia fino ad allora accumulata da una faglia, come questa sia insensibile all’evento. Oppure un processo lubrificante come l’acqua o la composizione chimica o minerale di un punto particolare di una faglia impedisca a questa di accumulare abbastanza energia da scatenare un sisma violento; le variabili in gioco sono migliaia dove tutte sono importanti e nessuna è necessaria.

Non sono un geologo, ma non credo che possa esserci un metodo universalmente efficace e sicuro che possa aiutarci a prevedere un terremoto, né tanto meno può dircelo la posizione della Luna nel cielo.

La condivisione delle idee

Oggi non parlerò di scienza, di astronomia o politica.

Voglio solo farvi sapere che alcuni articoli de Il Poliedrico sono stati ripubblicati col mio consenso in altri siti. I siti in questione sono TuttiDentro e Gruppo Locale.
Sono orgoglioso che il lungo lavoro di ricerca e la cura che cerco continuamente di mettere nello scrivere per gli altri sia stata così ricompensata. Potrà capitare come è successo in passato che alcuni preziosi lavori di questi due siti vengano ospitati su Il Poliedrico che comunque continuerà la sua opera di divulgazione originale.

A questo punto volgo un ringraziamento a Sabrina Masiero per la sua preziosa collaborazione, invitandola a scrivere qualcosa di originale per il Blog.

La condivisione delle idee è stata fondamentale per lo sviluppo della civiltà umana.
Immaginate se la scoperta del fuoco, l’invenzione della ruota o della scrittura non fossero mai state condivise; se la matematica araba non fosse stata diffusa in Occidente, se Newton avesse raccolto e mangiato la mela 1 e avesse tenuto per sé le sue idee sulla gravitazione….
Oggi saremmo ancora vestiti di pelli d’animale, costretti a morire per un banale taglio sulla pelle e moriremmo a venti – trenta anni di vecchiaia, o forse non esisteremmo più, estinti principalmente per il nostro egoismo primitivo.
Invece oggi, abbiamo gli antibiotici 2 che ci curano dalle abrasioni, sappiamo – non tutti – leggere scrivere e far di conto, mentre tutti abbiamo le automobili con quattro ruote fatte di ferro. Il risultato è che abbiamo quasi quadruplicato la nostra aspettativa di vita e siamo una cività – nonostante i danni ambientali che purtroppo combiniamo.
Quindi tutto sommato l’aver condiviso esperienze e scoperte e avere inventato la scrittura, ci ha resi un pochino migliori di quello che eravamo.

A questo aspira anche Il Poliedrico, ad essere migliore. Cosa ne pensate voi lettori di questa nuova collaborazione?
Lasciate un commento…

La gola del Bottaccione

C’era una volta… un re!
Ehhh no, questa volta: c’era una volta un asteroide!
Un asteroide grande grande grande, era lungo più di dieci chilometri ed era in rotta di collisione con la Terra!

L’impronta del cratere di Chicxulub, dove avvenne l’impatto.

Il resto della storia credo che ormai la sappiamo tutti, 65  milioni e 638,477  anni fa 1 – giorno più giorno meno – un asteroide grande più dell’Everest si schiantò sulla Terra in quella che ora si chiama penisola dello Yucatan. Quando un’estremità toccò la superficie, l’altra era ancora fuori dell’atmosfera!
Gli effetti dell’impatto furono devastanti: quasi tutte le forme di vita sulla Terra vennero spazzate via nel giro di poche settimane, l’America del Nord fu immediatamente devastata dall’onda d’urto e dagli incendi, tsunami giganteschi spazzarono l’oceano Atlantico più volte con onde alte centinaia di metri.
Terremoti giganteschi fecero vibrare la Terra per giorni e i vulcani ripresero la loro attività preferita mentre altri nacquero. L’asteroide vaporizzò immediatamente nell’impatto e le sue polveri insieme alle ceneri vulcaniche e quelle degli incendi globali rimasero in sospensione nell’atmosfera per mesi, oscurandola in un terribile, glaciale inverno globale.
Le ceneri e le polveri si depositarono al suolo con piogge acide che inquinarono fiumi e laghi e quando tutto questo finì, arrivò una terribile estate senza fine dovuta all’anidride carbonica sprigionata dagli incendi delle foreste del pianeta.

Fu così che circa il 75% delle forme di vita del pianeta si estinse quasi immediatamente, tutti gli animali più grandi che fino ad allora avevano dominato il pianeta scomparvero, lasciando campo libero a piccoli roditori mammiferi che seppero adattarsi meglio al nuovo ambiente.
Alla Terra occorse quasi un milione di anni per riprendersi da quell’inaspettato evento, tanto fu devastante.

Le polveri prodotte dalla sublimazione dell’asteroide che avevano avvolto il pianeta nel lungo inverno artificiale ricaddero al suolo formando uno straterello grigiastro che quando fu scoperto nel 1980 dal geologo Walter Alvarez nella Gola del Bottaccione 2 vicino Gubbio, in Italia.

Credit: Il Poliedrico

Eccolo qua il significato del quiz La roccia misteriosa: la profonda fenditura rappresenta lo Strato K-T trovato da Alvarez nell’80. I forellini circolari sono saggi prelevati per studiare i dintorni dello strato.
Queste rocce si sono formate sul fondo di un antico oceano chiamato Tetide. Le rocce più antiche dello Strato K-T – sul lato destro dell’immagine – sono composte da carbonato di calcio originato dal deposito di milioni di microorganismi fossili (conchiglie e plancton), mentre le rocce più giovani – lato sinistro – sono composte da argilla, le tracce di forme di vita si interrompono immediatamente con l’Evento K-T.

Anche questa è storia, l’inizio della storia dei sopravvissuti che hanno permesso alla loro discendenza di dominare il pianeta.

Luce cinerea con sorpresina!

Qualche volta anche una banale fotografia riserva qualche sorpresa…

Credit: Il Poliedrico

Questa fotografia mostra la Luna ai primi istanti del primo quarto alle 18;44 di questa sera, 6 marzo 2011. Qui si vede la celeberrima luce cinerea, ovvero l’intero disco lunare in ombra che risalta seppur di poco dal fondo del cielo.
Essa è dovuta alla luce riflessa dalla Terra che riesce ad illuminare la parte in ombra del nostro satellite.
In pratica è un modo per misurare l’albedo del pianeta che, purtroppo, sembrava calare inesorabilmente fino a circa tre anni fa, ma che adesso, per fortuna, sembra che voglia risalire.
L’albedo è l’indice di riflessione della luce da parte di un corpo che va da 0 == massimo assorbimento, a 1 == massima riflettività.
Nel caso dei pianeti indica la quantità di luce solare che questi riflettono verso lo spazio esterno e che quindi non trattengono ad esempio come calore.
Nel caso della Terra, maggiore è l’estensione dei ghiacciai e delle nubi, maggiore è l’albedo e minore è la radiazione solare che il pianeta trattiene e che converte in calore.
Se non credete che la luce cinerea sia dovuta alla Terra, guardate qua:

Credit: Il Poliedrico

questa è la stessa fotografia rielaborata sommariamente, nella parte in ombra si intravedono i mari lunari!

Brillamenti solari e tempeste geomagnetiche

Abbiamo visto nello scorso articolo quanto le aurore polari possano rappresentare un rischio per la nostra società, ma quanto questo rischio è reale?

Credit: NASA/SDO

Se un evento ha anche una sola probabilità di accadere, in un lasso di tempo sufficientemente lungo, questo accadrà.
Nel 1859 (Evento Carrington)  una massiccia tempesta solare mise fuori uso  la rete telegrafica degli Stati Uniti e in Europa, altri eventi minori più volte hanno temporaneamente messo fuori uso la nostra tecnologia basata sull’elettricità in varie parti del mondo, dimostrando – casomai ce ne fosse ancora bisogno – di quanto sia fragile l’equilibrio su cui si regge la nostra società tecnologica.

Tutto questo ha origine dalla rotazione differenziale del Sole (la velocità di rotazione all’equatore è  maggiore che ai poli) tipica dei corpi non solidi che genera tubi di flusso magnetico al di sotto della superficie stellare (zona convettiva).
Si chiama attività solare la presenza di zone più fredde  sulla superficie del Sole con cicli di 11 anni. Queste zone più fredde paiono più scure rispetto alla fotosfera circostante, per questo sono chiamate macchie solari,  e sono provocate da questi flussi magnetici che inibiscono il riscaldamento convettivo della materia che racchiudono, al momento che raggiungono la superficie.
Le linee di questi campi magnetici a causa della rotazione differenziale, si avvolgono a tal punto che spesso si annichiliscono e  rilasciano una immensa quantità di energia sotto forma di flare e di espulsioni di massa coronale che mantengono memoria del campo magnetico che le ha generate.

Il campo magnetico del Sole – come quello terrestre – non è perfettamente allineato con l’asse di rotazione. Sotto la spinta del vento solare il flusso magnetico non si chiude subito ma si disperde nello spazio per circa 160 U.A.  creando una forma a spirale.
La componente del vento solare responsabile di questo fenomeno si chiama corrente interplanetaria diffusa.
Inoltre il flusso di vento solare è più forte verso il massimo del ciclo solare per poi ridiminuire successivamente verso il minimo, questo ha notevoli ripercussioni sia sulla magnetosfera terrestre che, curiosamente sul clima e il riscaldamento dell’atmosfera terrestre in modi davvero inaspettati 1.
La Terra quindi si viene a trovare periodicamente immersa nelle diverse polarità del campo magnetico solare e, come conseguenza, la magnetosfera terrestre si espande e si contrae ciclicamente. Questo ciclo dura 27 giorni, come un giorno solare all’equatore.
Un’altra peculiarità del campo magnetico solare è che esso inverte la propria polarità ad ogni ciclo solare.

La corrente interplanetaria diffusa è prodotta dall’influenza del campo magnetico del Sole sul plasma del mezzo interplanetario.

Per riassumere in pratica abbiamo un ciclo di campo magnetico solare di 22 anni in cui questo si inverte di polarità (11 anni o un ciclo solare) per poi ritornare alla precedente condizione (22 anni o 2 cicli solari) e un ciclo di 27 giorni dove la componente magnetica trasportata dal vento solare si inverte di segno.

Il dipolo magnetico terrestre attualmente è SN (Sud-Nord), quindi la magnetosfera terrestre è particolarmente sofferente quando la componente del campo magnetico interplanetario ha una polarità NS.
Durante i cicli di massima attività solare, la pressione del vento solare con l’opportuna polarità può far arretrare la magnetosfera fin della metà  2 per effetto della riconnessione magnetica dei due campi magnetici opposti.
A questo punto basta che la bolla di plasma liberata dal brillamento abbia l’energia sufficiente e l’opportuna polarità NS per far collassare il campo geomagnetico e lasciar campo libero al plasma solare di ionizzare l’atmosfera fino alle basse latitudini, come accadde nel 1859.
Ma cosa accadde esattamente nel 1859?

Il flare di per sè fu eccezionale, ma anche eccezionale fu la sua velocità: appena 17 ore e 40 minuti contro le normali 30 ore o più per andare dalla superficie del Sole alla Terra impiegati mediamente da altri brillamenti, un tempo relativamente breve che probabilmente impedì al plasma di perdere parte  della sua forza .

A questo punto lo scenario è semplice: un potente flare genera un bolla di plasma magnetico con la stessa polarità del mezzo interplanetario opposti però al campo magnetico terrestre.
Il risultato di questo spiacevole mix è che i raggi X generati dal flare dopo appena 8 minuti potrebbero distruggere lo strato D della ionosfera causando un blackout  nelle onde corte in tutto l’emisfero  illuminato.  Lo strato di ozono verrebbe impoverito dal  5 al 10%, provocando una maggiore insolazione ultravioletta che andrebbe a riscaldare l’atmosfera 3.
Dopo 20-30 ore la bolla di plasma farebbe collassare la magnetosfera inondando l’atmosfera del pianeta con protoni energetici, generando i magnifici colori tipici prodotti dalle interazioni di questi con gli atomi dell’aria. Le radiazioni generate da queste interazioni raggiungono  la superficie terrestre danneggiando i componenti elettrici ed elettronici che incontrano principalmente per effetto Compton.

Ice core data shows a strong spike (red bar) in the atmospheric nitrate (NOx) abundances during the 1859 storm, along with lesser spikes for many other storms since 1500

La barra rossa indica una forte concentrazione di nitrato atmosferico (NOx) prodotto durante la tempesta 1859, insieme agli eventi minori registrati a partire dal 1561. Credit: NASA

Comunque lo scenario apocalittico appena descritto potrebbe avere poche possibilità di avverarsi a breve.
Ricerche effettuate su carote di ghiaccio prelevate  in Groenlandia e in Antartide, gli scienziati Michael Smart, Donald Shea e Kennith McCracken presso l’Air Force Research Lab e l’Università del Maryland hanno mostrato che le concentrazioni di nitrati intrappolati nel ghiaccio si impennavano in concomitanza dell’attività solare. Questi marcatori sono stati chiamati Solar Event Proton 4 e hanno permesso di risalire a eventi piuttosto importanti a partire dall’anno 1561.
In queste registrazioni naturali l’unica supertempesta che si è abbattuta sul nostro pianeta è quella appunto del 1859, una soltanto in 450 anni!
Sono appena 19 le altre tempeste importanti registrate, con una media di una ogni 23 anni circa, ma non sono uniformi nel tempo come ci si dovrebbe aspettare per fare una previsione.
Gli ultimi 40 anni non si sono registrate grosse tempeste, tranne che nell’agosto del 1972 e nel marzo del 1991, cosa che è accaduta solo durante il Minimo di Maunder 5.
In confronto nei periodi tra il 1850 e il 1930 ci sono stati ben 10 eventi più intensi di quello del 1972.

A questo punto per sapere come sarà stato il Ciclo 24 e se ci saranno supertempeste dovremmo solo aspettare.

Le aurore polari: belle e pericolose

Credit: Marketa Stanczykova, Iceland-Reykjavik Feb. 21, 2011

Il 18 febbraio un nuovo gruppo di macchie solari, il numero 1161 – subito sotto al gruppo n. 1162, ha generato un altro brillamento di classe M 6,6 alle 10:11 Tempo Universale.  Quindi dopo al vivace gruppo 1158 responsabile dei grandi brillamenti dei giorni precedenti, anche questi si sono mostrati particolarmente attivi durante il periodo della loro visibilità. Ormai i gruppi 1161 e 1162 stanno per scomparire verso il bordo orientale portandosi sull’altro emisfero.

Le tempeste solari ci regalano  le magnifiche aurore polari di questi giorni, ma possono essere concretamente pericolose per la nostra civiltà che, rispetto a solo 20-30 anni fa, fa un affidamento massiccio sui satelliti artificiali per telecomunicazioni e ai sistemi di geolocalizzazione GPS nel traffico aereo e navale.

Una tempesta che è entrata nella storia fu  quella del 29 agosto 1859, che mandò in tilt nei giorni successivi  per 14 ore  la neonata tecnologia del telegrafo che all’epoca si avvaleva di impulsi elettrici su cavi aerei di rame. I cavi si comportarono come una enorme antenna ricevente, accumulando un grandissimo potenziale elettrico che li distrusse, e nei giorni successivi furono osservate aurore polari fino a Cuba.
Nel 1972 un flare solare bloccò le comunicazioni telefoniche a lunga distanza nell’Illinois e nel 1989 un’altra tempesta solare provocò un blackout in tutta la regione del Quebec in Canada. Un altro evento importante accadde il 14 luglio 2000 1: un brillamento solare di classe X5  si sprigionò dal gruppo di macchie chiamato 9077 e il CME susseguente provocò blackout nelle radiocomunicazioni in diverse parti del pianeta e intense aurore boreali visibili fin nel sud degli Stati Uniti 2 3. L’eccezionalità della tempesta fu registrata anche dalle sonde Voyager 1 e 2.

L’impulso EMP

EMP sta per electromagnetic pulse, un impulso elettromagnetico generato da un’esplosione nucleare appena fuori dell’atmosfera dell’ordine del megatone. Gli effetti sono nulli per la popolazione e gli edifici, ma distrugge tutte le infrastutture elettriche: una bomba da un paio di megatoni appena fuori dall’atmosfera è capace di inginocchiare gli interi Stati Uniti.

Immaginate adesso cosa può fare un evento simile a quello del 1859 alla nostra civiltà: lo spessore dei conduttori nei circuiti integrati delle nostre apparecchiature elettroniche si misura in micrometri, l’effetto Compton su di queste sarebbe fatale, ma anche le linee aeree dell’elettricità e i trasformatori di potenza delle centrali elettriche sarebbero seriamente in pericolo.
Ora che tutta la nostra civiltà si basa sui calcolatori e telecomunicazioni potrebbe subire danni incalcolabili, l’economia andrebbe a picco, i mercati borsistici crollerebbero, niente sarebbe più come prima: niente Internet, i computer e i cellulari  diverrebbero inutili scatole piene di cosi fusi, etc, colpiti dall’EMP naturale.
È stato stimato che ai soli Stati Uniti potrebbe costare fino a due miliardi di dollari in riparazioni nel primo anno e  che a questi potrebbero occorrere fino a 10 anni per riprendersi completamente 4

Nel 1976 un pilota di caccia russo disertò in Giappone e consegnò il suo MIG 25 Foxbat all’Occidente.  Le Forze Armate Occidentali ritenevano il Mig 25 un aereo superiore e furono sorpresi che questo  era costruito in nichel e aveva le apparecchiature di bordo a … valvole! Il caccia sovietico si dimostrò meno vulnerabile agli impulsi elettromagnetici di quanto lo fossero gli omologhi occidentali 5.

Questo aneddoto spiana la strada alle tecniche per proteggersi da una catastrofe come il flare del 1859: la gabbia di Faraday.
Le cariche elettriche si distribuiscono spazialmente sulle superfici, per questo si usano cavi di sezione più grande – e quindi di superficie maggiore – per le correnti più elevate.Una gabbia di Faraday in sostanza è una struttura di materiale conduttore – che scarica a terra –  che isola elettricamente l’ambiente che racchiude da quello esterno.
Per questo i forni a microonde hanno una griglia metallica allo sportello: per isolare l’ambiente interno saturo di microonde dall’osservatore;  così come un cavo di una antenna televisiva ha nella sezione più esterna una fitta maglia di materiale conduttore – detta calza, che serve per proteggere  il segnale di pochi millivolt che viaggia nel conduttore interno dalle interferenze elettriche esterne.
A questo punto sembrerebbe che l’unica protezione sia nell’isolare con strutture metalliche i milioni di chilometri di cavi elettrici delle linee elettriche e tutti i nodi di produzione e ridistribuzione dell’energia, gli edifici etc., potrebbe essere la soluzione ma sarebbe antieconomica. Nell’attesa che soluzioni ingegneristiche tengano conto degli effetti di un EMP  fin dalla fase di progettazione di nuove strutture che rimpiazzino quelle esistenti, per ora è possibile ridurre i rischi di sovraccarico semplicemente spegnendo le centrali di produzione elettrica e mettendo a terra i conduttori e i nodi di distribuzione, evitando così che un EMP possa danneggiarli, per il resto la soluzione potrebbe essere quella che prendiamo quando si scatena un temporale: isolare le apparecchiature elettroniche e assicurarsi della loro messa a terra. Alcuni  guasti  saranno inevitabili, ma almeno saranno evitati i più gravi.

Per questo è importante un  monitoraggio continuo del Sole e della sua attività: per darci quel minimo di preavviso per evitare che un evento come quello del 1859 metta in pericolo la nostra civiltà.

La roccia misteriosa

Credit: Il Poliedrico

Questa foto è piuttosto banale e bruttina, ma racchiude un interessante particolare.
Non svelo altro per non essere deliberatamente d’aiuto, perdonatemi.
A voi il compito di scoprirlo attraverso il sondaggio di questo mese.

  1. Un rigagnolo di una sorgente ormai essiccata.
  2. Il limite K-T (Cretaceo-Terziario).
  3. Gli strani fori nelle rocce.
  4. I particolari colori di diversi tipi di calcare.

Come sempre la risposta arriverà tra due settimane, mi raccomando votate e commentate.

Luci di San Valentino e megaflare

Credit: Øystein Lunde Ingvaldsen, Bø in Vesterålen,14 Feb. 2011- nord Norvegia

L’attività del groppo di macchie solari numero 1158 continua.
Dopo aver generato il primo flare di classe M (flusso dei raggi x superiore a 1.00e-5 w/m^2) il 13 febbraio scorso 1, poco dopo la mezzanotte – Tempo Universale – del 15 febbraio ne crea un altro ancora più intenso, questa volta di classe X (flusso dei raggi x  superiore o uguale a  1.00e-4 w/m^2).
Il risultato è stato una espulsione di massa coronale così registrata dalla sonda STEREO-B 2

Nelle ore in cui scrivo c’è una discreta instabilità geomagnetica che sta provocando intense aurore intorno ai poli. Questa dovrebbe essere ancora l’ondata del CME del 13 febbraio, che fin da ierisera ha allietato con meravigliosi spettacoli di luci danzanti nei cieli circumpolari. Quella del CME di oggi dovrebbe arrivare tra domani sera e giovedì.

Insomma il Sole non farà dormire neppure di notte

L’aurora di San Valentino

Flare di classe M registrato da SDO. Credit: NASA/SDO

Questa è la più grande eruzione solare di questo ciclo. È arrivata alla scala M6.6 dei raggi X alle 17:38 UT del 13 febbraio 2011. Credit: NASA/SDO

Anche il nostro Sole ha voluto festeggiare San Valentino con una magnifica eruzione che ha superato la magnitudine 6 nei raggi X 1 2.
Il brillamento del 13 febbraio 2011 è partito dal gruppo di macchie solari numero 1.158 scatenando il più forte brillamento solare di questo ciclo solare, un’esplosione di radiazioni che ha percorso tutto lo spettro elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi X e gamma.
La sonda NASA Solar Dynamics Observatory ha registrato un intenso lampo di radiazione ultravioletta estrema. Comunque, secondo i dati delle sonde STEREO e SOHO, pare che il grandioso flare non sia accompagnato da una grande espulsione di massa coronale (CME).

Quindi fra stasera e domani ci saranno comunque delle stupende aurore ad accompagnare gli innamorati, ma solo per quelli che abitano alle alte latitudini.