Blues per il Pianeta Rosso

Marte, nonostante l’immaginario collettivo, non è un buon posto per viverci noi, piccoli e fragili esseri umani, a meno di poderosi progressi tecnologici e investimenti. Per ora è molto meglio lasciare che macchine automatizzate ci mostrino il Pianeta Rosso da vicino.

Credit: HiRISE, MRO, LPL (U. Arizona), NASA

Sembrano ricami dorati in un immacolato abito da sposa.
In realtà sono camini di ghiaccio secco che si scoprono verso la fine dell’estate marziana nell’emisfero sud del pianeta quando la calotta polare sublima.
Marte, ce lo dicono tutte le missioni robotizzate che hanno raggiunto il pianeta, è bellissimo e desolato. Un unico immenso deserto rosso con due calotte di bianchissimo ghiaccio secco e ghiaccio d’acqua che si espandono e contraggono col variare delle stagioni.
La superficie marziana è composta da basalti e argille ricche di ferro: infatti, come hanno dimostrato le diverse missioni robotizzate di superficie – prime fra tutte le celebri sonde Viking I e II – il suolo marziano è chimicamente molto reattivo.
Il ferro contenuto nel terreno è fortemente ossidato, ed è appunto questa ruggine che conferisce a Marte il suo tipico colore rossastro.
Per questo tutte le ricerche in loco di forme di vita, ancorché batteriche, ha prodotto risultati negativi  o, al più, dubbiosi: il suolo ricco di ossidi e di argille non consente, per ora, di dare una risposta definitiva alla domanda che da secoli viene posta su Marte: “c’è vita o c’è mai stata?

La presenza di smectiti (un tipo di argille) nel suolo marziano fu accertato fin dalle missioni Viking 1 le quali posero seri problemi agli esperimenti biologici delle sonde proprio per la loro alta reattività chimica che falsava qualsiasi esperimento.
Adesso uno studio guidato da Catherine Weitz del Planetary Science Institute, 2 ha scoperto che all’interno di un gruppo di canyon chiamato Noctis Labyrintus ci sono segni evidenti della possibile presenza d’acqua allo stato liquido nel lontano passato di Marte, circa 2-3 miliardi di anni fa 3 4.
Questa scoperta è stata fatta utilizzando le  immagini ad alta risoluzione della fotocamera  High Resolution Imaging Science Experiment e dati spettrali della Compact Imaging Spectrometer for Mars Reconnaissance della navicella orbitale  Mars Reconnaissance Orbiter, unite ai modelli digitali del terreno marziano per  determinare elevazioni e visualizzare i rapporti geometrici tra le informazioni raccolte.
Probabilmente Marte ha avuto più episodi in cui l’acqua liquida può essere scorsa in quella regione  e aver depositato i minerali che aveva disciolto più a monte.
Nel corso del tempo può aver scavato il gruppo di canyon, differenziando i depositi per era geologica come avviene sulla Terra. Forse anche il  vulcanismo della zona di Tharsis può aver liberato acqua liquida dal sottosuolo che ha dilavato i canyon in epoche successive.
Quest’ultimo meccanismo spiega le presunte differenze di acidità (Ph) dell’acqua responsabile dei diversi depositi identificati dal team (il Ph dell’acqua modifica la composizione chimica dei depositi di cui è responsabile).

LE ERE MARZIANE

PRENOACHIANO
 Il Prenoachiano  inizia con l’accrescimento e la differenziazione del pianeta circa 4,5 miliardi di anni fa  e la formazione del bacino da impatto Hellas, tra 4,1 e 3,8 miliardi di anni fa. Quasi tutte le testimonianze di questo periodo geologico sono state cancellate dall’erosione atmosferica e da impatti meteorici nelle ere successive. 
 NOACHIANO
  Il Noachiano (dal nome della regione di Noachis Terra) è l’intervallo di tempo tra 4,1 e 3,5 miliardi di anni fa. Le regioni originatesi in questo periodo sono caratterizzate da crateri d’impatto abbondanti e di notevoli dimensioni. Si pensa che durante quel periodo su Marte sia esistita acqua allo stato liquido abbastanza da di creare mari interni.
 ESPERIANO
 L’Esperiano (dal nome dell’Hesperia Planum) si estende da 3,5 a 2 miliardi di anni fa 5, ed è caratterizzato dalla formazione di pianure laviche particolarmente estese che hanno contribuito al catastrofico rilascio di acqua dal sottosuolo che formò effimeri mari nelle pianure dell’emisfero nord.
 AMAZZONIANO
L’Amazzoniano (dal nome diAmazonis Planitia) è l’attuale era marziana che inizia con la fine dell’Esperiano. Le regioni formatesi in questo periodo sono relativamente povere di crateri, e la loro struttura è unicamente dovuta all’attività geologica. L’acqua liquida in superficie scompare e Marte diventa un freddo deserto secco.

Comunque sia, l’ipotesi che in un lontano passato Marte abbia ospitato le condizioni climatiche favorevoli per l’esistenza di acqua allo stato liquido è affascinante, perché sono le stesse condizioni di contorno richieste dalla Vita a Base Carbonio come quella sulla Terra.

Permettetemi una riflessione 6:

All’inizio Marte, dopo la sua formazione, aveva una composizione chimica dell’atmosfera molto simile agli altri due pianeti interni: Venere e Terra, cioè metano, anidride carbonica e ammoniaca.
Per tutto il Noachiano e gran parte dell’era successiva questa composizione permise a un poderoso effetto serra di mantenere la temperatura superficiale oltre il punto di congelamento dell’acqua, la quale arrivava sulla superficie attraverso il massiccio bombardamento di materiale cometario verso i pianeti interni che caratterizzò i primi 2 miliardi di anni del nostro sistema solare.
Assieme all’acqua cometaria arrivò sul Pianeta Rosso anche materiale organico precursore della Vita che trovò un ambiente favorevole per svilupparsi.
Anche qui, come sulla Terra, si svilupparono forme fotosintetiche di batteri,  i quali si resero responsabili, come sulla Terra, di una Catastrofe del’Ossigeno 7 marziana, spiegando così il terreno fortemente ossidato ancora presente.
Verso la fine  dell’Esperiano il progressivo rilascio nell’atmosfera di Marte  di ossigeno provocò la scomparsa dei gas serra che avevano garantito le relativamente alte temperature di prima. Mentre la Terra si congelò completamente con i suoi oceani, Marte vide assottigliarsi la sua atmosfera che, a causa del minor peso dell’ossigeno molecolare che aveva sostituito il metano e l’anidride carbonica, iniziò a disperdersi nello spazio grazie alla bassa velocità di fuga del pianeta, che è poco meno della metà di quella terrestre.

Credit: NASA Jet Propulsion Laboratory - California Institute of Technology

Così credo che Marte sia diventato il luogo freddo e inospitale che  è adesso. Un pianeta che ha vissuto i primi istanti della nascita della Vita Batterica e che però poi non è stata in grado di continuare il suo percorso evolutivo perché ha distrutto il fragile ecosistema del piccolo pianeta su cui era nata.
Dopo 2 miliardi e mezzo di anni non sarà facile trovare tracce di vita su Marte, dovremo accontentarci di prove indirette e supposizioni. Se esistono ancora forme di vita estremofile sarà un bel grattacapo riuscire a scovarle direttamente, a meno che la ormai prossima missione Mars Science Laboratory col suo rover Curiosity non  faccia davvero la tanto attesa scoperta.

Ottobre, il mese delle stelle cadenti

Abbiamo avuto un paio di giorni fantastici pieni di Scienza. Non che negli altri giorni questa manchi, solo che tra la scoperta -per ora presunta – dei neutrini muonici superluminali e la caduta del satellite UARS, la Scienza almeno per un paio di giorni è stata protagonista delle prime pagine dei giornali.
Peccato per lo scivolone del titolare del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, che improvvidamente non ha prestato la dovuta attenzione il suo comunicato di congratulazioni 1. Come si insegna agli infanti: “quando non si sa cosa dire, meglio tacer ” forse in quel caso sarebbe stata più opportuna … una bella scena muta!

Il radiante delle Draconidi - Credit: Il Poliedrico

Il prossimo mese inizierà alla grande, cielo permettendo: la Terra sarà investita come ogni anno tra il 7 e il 10 di ottobre dallo sciame meteorico delle Draconidi.
Questo sciame è originato dalla cometa periodica 21P/Giacobini-Zinner, una cometa che ha l’afelio poco oltre l’orbita di Giove, il perielio pressappoco all’altezza dell’orbita terrestre ed è quasi perpendicolare all’eclittica, per questo lo sciame a lei associato sembra provenire quasi dal Polo Nord Celeste.
La 21P/Giacobini-Zinner raggiungerà il nodo discendente intorno al 18-20 febbraio 2012, arricchendo così la quantità di materiale meteorico per le Draconidi del prossimo anno, che probabilmente sarà più interessante del passaggio di quest’anno, cui peraltro le previsioni danno uno ZHR discreto 2.
Nel 2018 la 21P addirittura sarà al perigeo con la Terra proprio in prossimità del nodo intorno al 20 di settembre, ripetendo quindi più o meno le condizioni del 1985, quando fu registrato uno dei massimi picchi delle Draconidi del secolo scorso.

Tornando allo sciame delle Draconidi, quest’anno sarà disturbato dalla presenza della Luna quasi piena, limitando di fatto la visibilità delle meteore più deboli.
Anche chi si volesse cimentare nelle riprese fotografiche dovrà tenere conto che la luminosità diffusa del cielo porterà a saturazione i sensori o le pellicole molto presto, a scapito della ripresa. Comunque provarci con la tecnologia attuale ormai non costa niente.

Ottobre sarà un mese molto attivo per le stelle cadenti. Già in questi giorni sono iniziate le attività delle Tauridi Sud che finiranno a novembre, la tabella che vi propongo mostra gli sciami meteorici attivi nel mese di ottobre:

SCIAME INIZIO PICCO FINE FASE 3
Draconidi 06/10 08/10 10/10 C.  88%
Tauridi Sud 10/09 10/10 20/11 C.  97%
δ Aurigidi  10/10 12/10 18/10  P. 100%
ε Geminidi 14/10 18/10 27/10  D.  68%
Orionidi 02/10  21/10 07/11  D.  37%
Leo Minoridi 19/10 24/10 27/10  D.    9%
Tauridi Nord 20/10 12/11 10/12  D.  98%

 

A questo punto non resta che scegliere la serata più adatta.

UARS: tanto tuonò che piovve

Come dissi anche ieri mattina sulla pagina Facebook di questo Blog 1 non è possibile con certezza stabilire il luogo di caduta di un satellite che si sbriciola nell’atmosfera con quella velocità orbitale.

Infatti, dopo innumerevoli annunci che davano per certo che il satellite stesse per cadere ora  nell’Oceano Indiano, ora in Europa 2 o in Canada, L’UARS ha scelto invece di innabissarsi nell’Oceano Pacifico in un’area vasta 800 chilometri, ma il luogo esatto e l’ora ancora non sono stati resi noti.

Come dire: se L’UARS piove, sceglie di piovere sul bagnato … oceano.

Neutrini più veloci della luce? forse sì forse no …

È di queste concitate ore la notizia che gli scienziati dei laboratori dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare  del Gran Sasso in collaborazione con quelli del CERN di Ginevra avrebbero scoperto che una forma dei neutrini associati al muone (\nu_\mu\,) supera la velocità della luce nel vuoto è 1 di circa 20 parti per milione.

Di per sé se venisse confermata la scoperta sarebbe semplicemente devastante: infatti per la meccanica relativistica niente può superare la velocità della luce purché abbia una massa – per quanto piccola – ma non nulla. E i neutrini, per pur piccola che sia, hanno una massa e per questo non dovrebbero nepure eguagliare la velocità della luce nel vuoto c, anche se dopo i fotoni sono le particelle più veloci.

Le prospettive che si aprirebbero a mio avviso possono essere sostanzialmente due:
la meccanica relativistica e la sua controparte quantistica potrebbero risultare essere una versione semplificata di una più ampia meccanica superluminare, forse una vera TOE (acronimo inglese per Theory Of Everything), un po’ come la meccanica newtoniana lo è per quella relativistica, oppure l’oscillazione neutrinica durante il percorso ha subìto uno strappo – ha preso una scorciatoia – sfruttando una di quelle dimensioni arrotolate che le bozze delle TOE attuali richiedono per essere coerenti.
Infine potrebbe anche essere un errore di riduzione dei dati raccolti, uno di quelli a cui proprio non si penserebbe mai, un po’ come quando si perde un pomeriggio a cercare gli occhiali e che poi si hanno sulla testa.

Basta, tra tunnel spaziali, passaggi extradimensionali, sto solo facendo della fantascienza anche se l’occasione di dire la mia era troppo ghiotta anche a costo di scadere nel ridicolo per lasciarla perdere.
Aggiungo solo che i dati della – per ora presunta – scoperta sono disponibili su Arxiv a questo indirizzo. Leggeteli e poi venite a commentare qui, o sul forum o su Facebook.

 

UARS 23/09/2011: la fine di un satellite

UARS Artist Concept - Credit: NASA

L’Upper Atmosphere Research Satellite (UARS) è stato un satellite per lo studio dell’alta atmosfera, in particolare ha monitorato la qualità dello strato di ozono che protegge la Terra dalla radiazione ultravioletta del Sole.
Al momento del lancio nel 1991 il satellite pesava 5.900 kg e la sua missione doveva durare solo tre anni, ma il buono stato degli strumenti ha permesso di prorogarla fino al 2005, quando l’UARS fu dismesso nel dicembre di quell’anno e immesso in un’orbita di rientro.

Dopo 6 anni quel momento è arrivato.
Il rientro dell’UARS è previsto per il 23 settembre (domani), con lo scarto di un giorno.

Immagine del satellite UARS ripresa dall'astrofilo Jim Saueressig II il 20 settembre 2011 a Burlington, Ks. Notate la luminosità della traccia nonostante il crepuscolo mattutino. - Credit: Jim Saueressig II

Per ora non è possibile fare previsioni certe su quale sarà l’area della caduta.
La NASA per questo ha disposto un servizio RSS per gli aggiornamenti.
Si prevede che la disintegrazione della UARS produrrà una palla di fuoco che potrebbe essere visibile anche in pieno giorno.
Ma non tutti i frammenti bruceranno durante il  rientro nell’atmosfera:  secondo gli esperti della NASA ci potrebbero essere fino a 26 detriti 1 potenzialmente pericolosi  che impatteranno la superficie in un’area di 4-500 chilometri di raggio alla velocità di 44 metri al secondo.

 Potete seguire le ultime orbite del satellite UARS attraverso il link utile che ho messo a disposizione nella colonna a lato cliccando su Satellite Tracking Flyby e cercarlo nel cielo. Buona fortuna!

La Nebulosa Polletto

 

 

 

Osservate questa meravigliosa immagine della Nebulosa Lambda Centauri, nota anche come IC 2944.
L’Osservatorio europeo meridionale (ESO) ha pubblicato questa immagine di oggi (21 settembre 2011) ripresa col Wide Field Imager sul telescopio MPG/ESO da 2,2 metri a La Silla,Cile.
Si tratta di una nube di idrogeno, illuminata da calde stelle appena nate nella costellazione del Centauro.

Qualcuno ci vede la testa di un rosso polletto,  voi?

Dalla longitudine alla velocità della luce, storia dei satelliti Medicei

…il giorno 7 gennaio del corrente anno 1610.
all’una di notte , mentre osservavo gli astri
celesti con il cannocchiale, mi si presentò
Giove, e dato che mi ero allestito uno
strumento davvero eccellente, mi avvidi che gli
stavano vicino tre Stelline invero piccole , ma
assai luminose…e mi destarono una certa
meraviglia perché, per il fatto che sembravano
disposte secondo una precisa linea retta e
parallela all’Eclittica e più luminosa di altre
di pari grandezza.
(Sidereus Nuncius, Galileo Galilei)

 

Credit: Il Poliedrico

Oramai tutti noi abbiamo presente la planimetria del nostro globo, la foma dei continenti e – più o meno – dove sono le più importanti città del mondo.
Ora per ricavare le coordinate assolute in ogni punto del pianeta richede solo una manciata di secondi e un qualsiasi navigatore GPS incluso oramai anche in moltissimi telefonini.
Beh, una volta non era così. La latitudine non era un problema, bastava misurare l’altezza della Polare per stabilirla, ma fino all’avvento delle radiocomunicazioni che permettevano la trasmissione istantanea dei segnali di tempo, era un problema calcolare la longitudine di un qualsiasi luogo.
La longitudine infatti si calcola misurando in maniera più precisa possibile il tempo locale e facendo la differenza con il tempo del meridiano di riferimento (adesso Greenwich Mean Time (GMT)).
Galileo Galilei, studiando i moti dei Satelliti Medicei si accorse ben presto che questi vanno incontro a periodici transiti dietro il pianeta gigante (occultazioni) o dietro il suo cono d’ombra (eclissi), tanto  precisi  da poterli usare come un orologio celeste.
Nel frattempo una delle potenze mondiali di allora, la Spagna, aveva promesso col suo re Filippo III una ricompensa a chiunque avesse trovato un efficace rimedio al principale problema della navigazione di allora, la determinazione della longitudine, causa principale di innumerevoli sciagure e naufragi dell’epoca.
Galilei mise a punto delle effemeridi e propose il suo metodo ai reali di Spagna, ma fu bocciato dai consiglieri del re 1.
Il metodo galileiano per produrre longitudini esatte vide il successo solo dopo la morte dell’astronomo pisano, e solo sulla terraferma, dove si poteva disporre di osservatori più stabili di un cannocchiale sul ponte di una nave. Per queste vide il successo di cronometri sempre più precisi ed affidabili 2, che facevano ricorso a un altro principio fisico scoperto da Galileo Galilei: l’isocronismo del pendolo.

Nella seconda metà del seicento, Giovanni Cassini (lo scopritore della omonima divisione negli anelli di Saturno e della celebre Macchia Rossa di Giove0) e il suo assistente danese Ole Rømer all’Osservatorio di Parigi si accorsero che vi erano delle discrepanze tra i tempi previsti dei transitti dei Satelliti Medicei e la posizione di Giove e la Terra lungo le loro orbite, in particolare i transiti anticipavano quando la distanza tra i due pianeti era minima e posticipavano quando questa era massima.
Questa fu la prima conferma sperimentale che la velocità della luce è finita. Rømer la calcolò in 210.800 chilometri al secondo, un valore inferiore a quello reale di 299.792,458 km/s dettato unicamente dalla scarsa precisione degli strumenti che Rømer e Cassini avevano a disposizione.
Come amo ripetere ai miei figli non è importante un calcolo sbagliato, quanto capire il concetto e arrivare alle conclusioni giuste. Rømer lo fece.

AP Columbæ una neonata molto vicina

Illustrazione di un gigante gassoso orbita attorno a una stella nana rossa simile a AP Columbae. (Credit: Harvard-Smithsonian Astrophisical Center)

Su questo pianeta era trascorso molto tempo dal”estinzione dei dinosauri di 65 milioni d’anni fa. Era infatti il tempo in cui si svilupparono le antenate delle prime protoscimmie che avrebbero portato al genere umano, circa 40 milioni di anni fa. Nascevano allora le grandi catene montuose come le Alpi e l’Himalaya per l’effetto della deriva dei continenti.
Il mondo allora era molto più caldo di oggi: il clima artico era più simile a quello della Foresta Amazzonica attuale che a quello della tundra odierna.

 Mentre la vita biologica su questo Pallino Blu 1 prosperava, ad appena 27 anni luce di distanza un altro miracolo si compiva: una piccola nana rossa grande appena un terzo del nostro Sole si accendeva.

AP Columbae
Epoca j2000 (ICRS)
Costellazione Colomba
Ascensione retta  06h04m52.16s
eclinazione  -34°33'36.1" 
Caratteristiche
Tipo spettrale M 5 D
Tipo di variabile Nessuno
Luminosità (bolometri) 0,001 L
Temperatura 3700 Kelvin
Età 0,04 Miliardi di anni

AP Columbæ, una debole stellina rossa dell’emisfero sud,  è ancora in fase di presequenza principale,  praticamente una stella ai primi bagliori di vita, la cui distanza è stata calcolata con precisione col sistema della parallasse.
Questa importante scoperta è frutto di una collaborazione internazionale tra il Centro di Astrofisica e Scienze dello Spazio dell’Università della California e la Scuola di Ricerca di Astronomia e Astrofisica dell’Università Nazionale Australiana (ANU).
Simon Murphy, che simpaticamente nella sua homepage si definisce un proto astronomo, è uno dei coautori della ricerca e fa presente che nonostante che AP Columbæ sia studiata da almeno 15 anni, solo ora si sono apprese le sue caratteristiche più peculiari: la sua distanza e la sua età.
Per la distanza non ci sono stati particolari problemi, questa è stata misurata col metodo della parallasse 2, ma l’età?

La risposta a questa domanda è nelle proporzioni degli elementi chimici che compongono la stella.

AP Columbae - Credit: Centre de Données astronomiques de Strasbourg

Dall’analisi spettrale della luce di AP Columbæ è stata rilevata una anomala percentuale di litio, un metallo alcalino che si è prodotto unicamente durante la prima nucleosintesi dell’Universo, quella del Big Bang insieme all’idrogeno, all’elio e al berillio. Il litio concorre al processo di fusione termonucleare della stella abbassando la soglia di innesco della fusione: la presenza di litio in una stella indica quindi che questo non è stato ancora consumato e che la stella è molto giovane.
Ricapitolando: attraverso l’analisi della luce e dello spettro si possono ricavare una quantità incredibile di informazioni di    una stella: dimensioni, massa, temperatura e perfino l’età con ragionevole approssimazione.
In questo caso si è scoperto che questa stella è circa un terzo della massa del Sole, è  luminosa appena un millesimo di questo, e ha una temperatura superficiale di appena 3700 Kelvin.
La poca distanza di AP Columbæ dalla Terra (ripeto, questa è di appena 27 anni luce) la rende un ottimo laboratorio per verificare le nostre teorie sulla formazione dei pianeti extrasolari, in particolare dei giganti gassosi – o gioviani – che per ora in qualche modo riescono ancora a sorprendere gli astronomi.

Chissà, forse per Gaia c’è un altro buon bersaglio da studiare.

Gaia, il coltellino svizzero del Cosmo

Colgo l’occasione per ringraziare l’astronomo Marco Castellani dell’Osservatorio Astronomico di Roma per aver condiviso alcune slide su Gaia da cui poi ho tratto questo articolo.

Rappresentazione artistica del telescopio spaziale Gaia Credit: ESA

Immaginate di possedere un obiettivo, un cannocchiale o – se preferite – un telescopio tanto potente e preciso da misurare lo spessore di un capello di un turista a Cosenza stando in cima al Monte Rosa.
Che attraverso questo formidabile strumento possiate vedere quanto pesa, che età ha e perfino di misurare la brezza che gli scorre sulla faccia mentre cammina.

Questo formidabile oggetto esiste e si chiama Gaia, acronimo di Global Astrometric Interferometer for Astrophysics.
Gaia è una sonda dell’ESA che nel 2013 andrà a prendere il posto di Hipparcos, l’altro famoso satellite che ha misurato con una accuratezza finora non raggiunta la posizione e la velocità radiale di ben 100000 stelle con una precisione di 2 millisecondi d’arco.
Gaia promette di andare molto più in là:  misurerà la posizione, la distanza, e  il moto proprio con una precisione di circa 7 μas (un microarcosecondo è 1 × 10−6 secondo d’arco, ovvero un milionesimo di arcosecondo) per le stelle fino alla settima  magnitudine (il mitico spessore del capello a 1000 km di distanza), 20 μas dalla 8 alla 15a magnitudine, e di 200 μas fino alla ventesima, per un totale quindi di circa un miliardo 1 di stelle – In realtà alcune incertezze risentiranno del colore della stella in esame.
Di queste saranno prese misure spettrofotometriche e di velocità radiale, consentendo così di avere la prima mappa stellare 3D dinamica del nostro angolo di cielo completa di composizione chimica delle stelle, permettendoci così di avere un quadro preciso della storia della Galassia e della sua evoluzione.

Gli indicatori standard
La luminosità di un oggetto varia con l’inverso del quadrato della distanza dall’osservatore.
Per esempio la luce di un lampione osservata a 100 metri di distanza apparirà 4 volte più brillante di uno a 200 metri e 9 volte più brillante di uno a 300 metri. Quindi sapendo la luminosità assoluta del lampione e misurando con un fotometro l’intensità luminosa del lampione osservato, si può calcolare la sua distanza dall’osservatore.
Questo è il principio base con cui vengono calcolate le distanze in astronomia.
Ci sono alcune classi di stelle variabili – Cefeidi, RR Liræ, Mira Ceti – la cui curva di luce  è legata alla luminosità assoluta, e questo ha permesso di calcolare la loro distanza e di conseguenza dell’ambiente in cui si trovano con un lieve margine di incertezza. Questo ha permesso di calibrare altre candele standard come le novæ e le supernovæ di tipo Ia.
Dopodiché si è cercato altri tipi di candele standard come la tipologia delle galassie etc, ma come potrete immaginare ìl margine di incertezza cresce con l’aumentare della distanza.

Se questo può sembrare poca cosa, Gaia farà in grande quello che già sta facendo Kepler nei pressi del Cigno: Kepler usa il metodo fotometrico, ossia la curva di luce dovuta ai transiti planetari, Gaia – oltre a questo sistema – misurerà anche le velocità radiali delle stelle consentendo addirittura di calcolare le masse in gioco e le loro orbite planetarie: un enorme passo avanti per la nostra conoscenza di altri pianeti 2.

In campo extragalattico Gaia potrà fornire un quadro più ampio di conoscenze attraverso la fondamentale opera di ricalibrazione degli indicatori di distanza che ci permettono di stimare le distanze su scala universale, la scoperta di altre lenti gravitazionali e quasar e il continuo monitoraggio delle supernovæ extragalattiche, mentre all’interno del sistema solare contribuirà a scoprire ed osservare molti corpi minori -alcuni potenzialmente pericolosi per la Terra – come gli asteroidi Near-Earth e quelli della cintura di Kuiper 3.

Se pensate che tutto questo sia poca cosa, Gaia studierà anche la curvatura dello spazio-tempo attraverso la curvatura della luce stellare in prossimità del Sole, come previsto dalla teoria della Relatività Generale  di Einstein.

Se vi pare poco ….

 

 

 

 

 

Una fine prematura per la Cometa Elenin?

Cometa Elenin fotografata dall'osservatorio solare STEREO B. Credit:NASA

Forse C/2010 x1 (Elenin) non ce la farà.
Qualche giorno prima che uscissi con l’articolo su di lei, il 19 per l’esattezza,  la cometa Elenin è stata centrata da una delle tanti eruzioni solari di  questo periodo di avvicinamento al Massimo del Ciclo Solare, compromettendo forse la sua sopravvivenza oltre il perielio, mentre era più o meno all’altezza dell’orbita di Venere.
Secondo Ian Musgrave, un astrofilo australiano che ha lavorato sulle immagini riprese dalla sonda STEREO H1B che si è accorto dell’incidente  1 la luminosità della cometa e della sua coda sono diminuite dell’80%, facendo pensare – legittimamente – che il CME che ha investito la cometa l’abbia in parte dissolta.

Pensandoci bene, le caratteristiche orbitali estrapolate a ritroso suggeriscono che la cometa Elenin provenga dalla fascia più esterna della Nube di Oort, come avevo evidenziato la volta scorsa.
Questo spiega abbastanza bene come la cometa sia meno densa della media e significa anche che la sua composizione sia particolarmente ricca di sostanze volatili che una volta raggiunto il sistema solare interno sublimano in fretta sotto l’azione poderosa del vento solare, il che spiegherebbe la notevole chioma e coda registrati tra luglio e agosto  in fase di avvicinamento a cui avevo accennato.

Il flare che ha investito C/20010 X1 era inaspettato ma che forse ha degradato la cometa fin quasi alla sua più che probabile disintegrazione al perielio, dove tra forze mareali e calore del Sole 2 metterà in gioco la sua resistenza -ed esistenza.
Se effettivamente dovesse accadere sarebbe un peccato per la mole di informazioni che potrebbe ancora darci sul suo luogo di provenienza, la Nube di Oort, di cui a stento possiamo ancora avanzare delle ipotesi.
Se accadrà, avremo probabilmente un nuovo sciame di stelle cadenti da ammirare con stupore, alla faccia dei Catastrofisti della Fine del Mondo.