Indizi vitali su Titano

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Un mare di metano su Titano

Studiando gli ultimissimi dati provenienti dalla sonda Cassini sono state scoperte  delle complesse attività chimiche che avvengono sulla superficie di Titano, il più grande satellite di Saturno. Sebbene sia  sempre e comunque bene puntualizzare il caso che anche reazioni chimiche non biologiche possono fornire una spiegazione, secondo alcuni  scienziati queste tracce chimiche sono degli indicatori plausibili di forme di vita basate sul metano in quanto soddisfano due condizioni importanti di un modello proposto dagli astrobiologi .

Questi indicatori sono la scomparsa di molecole di idrogeno atmosferico alla superficie del pianeta e la mancanza di acetilene nella mappa degli idrocarburi di Titano.
Per l’astrobiologo Chris McKay del Ames Research Center della NASA la mancanza di acetilene è importante in quanto essa potrebbe essere la migliore fonte di energia per una forma di vita a base metano, praticamente l’acetilene potrebbe essere il suo alimento, ma anche che l’idrogeno (o meglio la sua mancanza) è un ottimo indicatore perché tutti i meccanismi proposti per estrarre energia chimica dall’acetilene coinvolgono appunto l’idrogeno, l’aria che questa ipotetica forma di vita respira. Mkay aveva già proposto alcune teorie  sulle forme di vita basate sul ciclo del metano nel 2005 [cite]http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0019103505002009 [/cite].

 
Punto triplo del metano
Esso è il punto in cui le condizioni fisiche (temperatura e pressione) consentono la coesistenza delle tre forme liquida, solida e gassosa che per il metano avviene a 90,67 K (-182,48 °C) e 4,6 MPa

Fino ad ora forme di vita a base di metano sono solo ipotetiche, sulla Terra i microbi che prosperano e producono metano sono comunque forme di vita che usano l’acqua come solvente, mentre su Titano le temperature sono di appena 90° K (-183° Celsius) vicine al punto triplo del metano. A quelle temperature l’acqua non può esistere allo stato liquido necessario alle forme di vita come le conosciamo sulla Terra.

Darrel Strobel della Johns Hopkins University di Baltimora, analizzando i dati dello spettrometro a infrarossi di Cassini ha scoperto che I risultati della distribuzione dell’idrogeno atmosferico sono coerenti con le condizioni che potrebbero essere prodotte da una forma di vita a base di metano, ma che questa non può essere  una prova definitiva della sua esistenza. I modelli precedenti avevano previsto che le molecole di idrogeno, un sottoprodotto della luce solare ultravioletta che scinde l’acetilene e il metano nell’atmosfera superiore, dovevano essere distribuiti abbastanza equamente in tutti gli strati atmosferici. Invece in realtà i dati finora raccolti indicano una disparità nella densità di idrogeno che scompare verso la superficie ad una velocità di circa 10.000 trilioni di trilioni di molecole di idrogeno al secondo. Più o meno è circa lo stesso tasso di dispersione dell’atmosfera superiore.
Strobel ha detto che non è probabile che l’idrogeno sia conservato al di sotto della superficie di Titano. La superficie di Titano è così fredda che un processo chimico ha bisogno di  un catalizzatore per convertire le molecole di idrogeno e acetilene in metano, anche se complessivamente ci sarebbe un rilascio netto di energia. La barriera di energia potrebbe essere superata se ci fosse un minerale sconosciuto che agisce da catalizzatore sulla superficie di Titano
La mappatura degli idrocarburi guidato da Roger Clark, uno scienziato dell’US Geological Survey di Denver, è stata fatta esaminando i dati della mappatura visiva e dello spettrometro ad infrarossi della Cassini. Ci si aspettava che le interazioni del Sole con l’atmosfera producessero acetilene che avrebbero rivestito la superficie di Titano, ma Cassini non ha rilevato nessuna traccia di acetilene in superficie. Al contrario, lo spettrometro di Cassini ha rilevato una mancanza di ghiaccio d’acqua sulla superficie di Titano, quanto piuttosto grandi quantità di benzene e di altro materiale, che sembra essere un composto organico che gli scienziati non sono ancora stati in grado di identificare. I risultati portano a dedurre che i composti organici sono mescolati col ghiaccio d’acqua, che costituisce comunque la superficie di Titano, ricoprendolo con una pellicola di idrocarburi che varia da almeno pochi millimetri a qualche centimetro. Il ghiaccio rimane coperto anche dal flusso di etano e metano liquido su tutta la superficie di Titano che forma laghi e mari, come l’acqua fa sulla Terra.
“La chimica dell’atmosfera di Titano produce composti organici così velocemente che la superficie ghiacciata non si ripulisce nonostante che i flussi di metano ed etano liquidi li lavino via continuamente”, ha detto Clark. “Tutto ciò indica che Titano è un ambiente dinamico comandato dalla chimica organica.”
L’assenza di acetilene rilevata sulla superficie di Titano può benissimo avere una spiegazione non biologica, ha dichiarato Mark Allen, ricercatore principale con la squadra della NASA Astrobiology Institute Titan. Esiste la possibilità che sia la luce solare o i raggi cosmici a trasformare l’acetilene in molecole più complesse che cadono a terra senza la firma caratteristica dell’acetilene.
“Il conservatorismo scientifico suggerisce che una spiegazione biologica dovrebbe essere l’ultima scelta, dopo che tutte le spiegazioni non biologiche siano studiate”, ha detto Allen “Abbiamo un sacco di lavoro da fare per escludere tutte le possibili spiegazioni non biologiche. È più probabile che un processo chimico, senza la biologia, sia in grado di spiegare questi risultati – per esempio, reazioni che coinvolgono catalizzatori minerali”. 
Comunque sognare è lecito.

Il Sole in bottiglia

Sempre alla ricerca di soluzioni energetiche più efficaci, si spera e si sperimenta anche sulla fusione termonucleare controllata, ma chiunque si sia illuso sulla sua mancanza di radioattività dovrà ricredersi e se pensate di scommettere su questa forma di energia pulita, ci rimettereste dei soldi.

La speranza di avere una fonte energetica virtualmente illimitata e efficiente si scontra spesso con la sua sostenibilità ambientale, fra queste tecnologie senza dubbio va considerata la fusione termonucleare controllata, perché se è vero che essa non genera scorie radioattive, non altrettanto si può dire delle strutture che la dovrebbero produrre. Ma partiamo dall’inizio: cos’è esattamente la fusione termonucleare controllata?
Nell’insensata corsa agli armamenti nata con la fine della II Guerra mondiale, nel 1952 fu fatta esplodere dagli Stati Uniti la prima bomba all’idrogeno (o bomba H) con una potenza di 10,4 megatoni (1 megaton equivale a 4.18 × 1015 joule) sull’atollo del Pacifico Enewetac, nelle isole Marshall. Inventata da Edward Teller, essa funziona sul principio della fissione-fusione-fissione: in pratica una normale bomba atomica genera le condizioni fisiche necessarie alla fusione degli isotopi di idrogeno secondo questo schema: $$^2H + ^3H \ \rightarrow \ ^4He + n + 17,6 MeV$$
Il trizio (\(^3H\)) non è presente nella composizione iniziale della bomba ma viene prodotto dall’urto di neutroni veloci contro i nuclei dell’isotopo di litio (\(^6Li\)) e nuclei di deuterio (\(^2H\)) secondo queste due reazioni nucleari:
$$^6Li + n \  \rightarrow \ ^3H + 4He + 4,8 MeV$$
$$^2H + n \ \rightarrow \ ^3H + 6,2 MeV$$

La fissione finale è generata dai neutroni veloci generati durante la fusione che vanno a scindere gli atomi di uranio 238 superstiti dell’esplosione iniziale e del cilindro dell’ordigno, incrementando l’efficacia della bomba: il tutto avviene in appena 600 millisecondi, il tempo in cui permangono le condizioni di temperatura (3.5 × 10K) e pressione necessarie alle reazioni nucleari. Questo è un esempio di fusione termonucleare incontrollata.

Controllare questa enorme quantità di energia e poterla riprodurre in sicurezza è un sogno che i fisici di tutto il mondo inseguono da quando furono scoperte da Hans Bethe nel 1938.Certo riprodurre le condizioni fisiche necessarie con un ordigno atomico è impensabile, quindi è necessario procedere per altre vie, ma quali? Quella sfera di luce che ci riscalda di giorno, che ha permesso lo sviluppo della vita sulla Terra, e che la gente apprezza quando va al mare, è una stella, il Sole, essenzialmente una palla di plasma di idrogeno, ossia protoni ed elettroni non più legati dalle forze elettrostatiche, liberi, per quanto lo permettano le condizioni fisiche locali, di muoversi liberamente. La temperatura si può tradurre come movimento e i protoni (nuclei di idrogeno 1H) superando la barriera coulombiana per effetto tunnel (le energie tipiche dei protoni è di qualche KeV mentre per infrangere la repulsione coulombiana occorrono energie dell’ordine di MeV) riescono a fondersi formando deuterio, rilasciando un positrone (l’antimateria dell’elettrone) ed un neutrino elettronico (decadimento β+) di 0,4 MeV:$$^1H + ^1H\ \rightarrow \ ^2H \ +\ {e+} \ + \ {ve}$$ Da parte sua il positrone si annichila immediatamente con un elettrone trasformandosi in due raggi gamma. $${e+}\ +\ {e-} \ \rightarrow \ 2\gamma + 1.02 MeV$$
Questa è la forma più efficiente di produzione di energia esistente in natura: l’annichilazione della materia col suo omologo opposto infatti converte tutta la massa disponibile in energia; la famosa reazione materia/antimateria tanto cara agli autori di fantascienza, soprattutto di Star Trek.
Tutto questo processo necessario alla produzione di un nucleo di deuterio è lentissimo: occorrono 1 miliardo di anni perché si avveri la probabilità che due protoni collidano esattamente e non si respingano, ma una stella ha dalla sua i grandi numeri: ci sono 2 x 1024 protoni nel solo nucleo del Sole, più che sufficienti.
Ora che si è reso disponibile il deuterio, esso cattura un altro protone producendo un isotopo leggero dell’elio (\(^3He\)) generando altra energia:$$^2H + ^1H \ \rightarrow \ ^3He + \gamma + 5.49 MeV$$

A questo punto si aprono le strade per diversi percorsi di fusione termonucleare che gli astrofisici chiamano rami pp, illustrarli tutti ci porterebbe fuori argomento, magari sarà materia per un futuro articolo, basti comunque sapere che un nucleo di elio (\(^4He\)) pesa lo 0,7% in meno dei quattro protoni originari, il resto viene convertito in energia sotto forma di fotoni gamma energetici e di neutrini, questi ultimi  inutilizzabili. Questa è un esempio di fusione termonucleare controllata:


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È molto importante riuscire a trovare il modo di generare il trizio all’interno del reattore: primo, esso è raro in natura e si trova sulla Terra allo stato gassoso (viene prodotto nell’alta atmosfera dall’interazione dei raggi cosmici con l’azoto atmosferico);  secondo, è radioattivo con una emivita di 12,33 anni (è  nocivo solo per inalazione e ingestione); terzo, è indispensabile per molte reazioni che richiedono una bassa soglia di energia di ignizione. Il problema tecnico non indifferente però è quello rendere immediatamente disponibile il trizio per la combustione.Questa è solo una parte della teoria della fusione termonucleare controllata,  qui non esistono problemi insormontabili: questi si manifestano nella realizzazione pratica di un reattore pienamente funzionante. Innanzitutto è necessario che si realizzi quella che viene chiamata ignizione, il momento di innesco della fusione termonucleare; il  breakeven, ovvero la dimostrazione in cui un reattore genera più energia di quella necessaria ad accendere la fusione; e l’autosostentamento del processo di fusione, perché per essere sfruttabile il reattore deve riuscire a produrre energia per un lungo periodo di tempo ininterrottamente, anche mesi o anni, per poter ripagare i suoi costi di costruzione e mantenimento e generare un flusso costante di energia a costi abbastanza bassi da essere economicamente conveniente.

La camera bersaglio del National Ignition Facility. Guardate il tecnico: la capsula di combustibile è grande come un chicco di pepe in punta alla matita.

Il plasma però è esso stesso una gran brutta bestia: confinare in un volume sempre più piccolo il plasma è un po’ come prendere un budino in mano: come si stringe il pugno questo sguscia via: e infatti vengono studiati vari metodi di confinamento del plasma,  bottiglie magnetiche, fasci di radiazione laser, campi elettrici etc. che finora hanno saputo dare risultati solo parziali e estremamente limitati nel tempo, dell’ordine di frazioni di secondo.
Poi vi ricordate dei neutroni? essi sono importanti per i processi di fusione, ma hanno la spiacevole abitudine di essere totalmente insensibili ai campi elettromagnetici, l’unico modo per fermarli è quello di farli impattare contro il nucleo di un altro atomo con lo spiacevole inconveniente di radioattivare la materia: una camera di contenimento, detta blanket, per esempio in acciaio, in pochi anni sarebbe inutilizzabile per l’effetto dei neutroni più energetici. Per questo si stanno studiando delle soluzioni che vanno dall’impiego di leghe metalliche come Pb-Li a materiali ceramici di Li-Be [1].  Il litio è importante perché oltre che essere fondamentale per la produzione del trizio, è anche un eccellente moderatore di neutroni.
Quindi sono tanti, forse troppi, gli ostacoli tecnici ancora da superare. Probabilmente quando questi saranno risolti avremo sviluppato altre fonti energetiche pulite e più convenienti da rendere la fusione termonucleare utile solo in assenza di altre alternative.

In fondo se ci pensiamo abbiamo già una centrale termonucleare gratuita e potente da sfruttare: il Sole. Invece di reinventare la ruota sarebbe più saggio studiare il modo più efficace e conveniente per raccogliere ed utilizzare la sua immane energia il cui unico difetto è quello di essere democratica e soprattutto gratuita.

tre… due… uno… via!


Domenica scorsa ho avuto un piccolo incidente: sono caduto malamente e mi sono fratturato il perone destro. Per questo non ho potuto scrivere quello di cui avrei voluto e mi dispiace con i miei lettori. Non che mi fossero mancati gli argomenti, ma scrivere con una gamba dolente e appesa non mi riesce ancora  molto bene e francamente non ho proprio voglia di prenderci l’abitudine. Dimenticavo: non ho avuto bisogno di un argano come questo nel clip per tirarmi su.

Vehicle-Assembly-Building-July-6-2005[1]
Vehicle Assembly Building (Cortesia NASA)

Questo video è stato creato con migliaia di singoli fotogrammi dai fotografi Scott Andrews, Stan Jirman e Philip Scott Andrews che sono riusciti a condensare sei settimane di duro lavoro in tre minuti e 52 secondi. La storia inizia nell’hangar Orbiter Processing Facility al Kennedy Space Center della NASA dove lo space shuttle Discovery è stato attrezzato per la sua missione STS-131. Il veicolo viene quindi sollevato a 160 metri di altezza nel Vehicle Assembly Building, un edificio talmente vasto che può capitare  che in alcune giornate umide al suo interno si formino nuvole di pioggia, issato in posizione verticale e successivamente riabbassato sul suo serbatoio esterno di carburante e i due booster gemelli a propellente solido (perclorato di ammonio). Quindi  la navetta completa viene trasportata verso il complesso di lancio 39 col gigantesco Mobile Launcher Platform alla folle velocità di 1,5 chilometri orari, trainata dal trattore più grande del mondo, il Crawler-transporter. 24 ore prima del lancio lo shuttle viene incassato nella sua protettiva Rotating Service Structure fino a poco prima del lancio. Quell’enorme fumata che si vede al momento del lancio è vapore: la base della rampa è una enorme vasca in cemento che viene inondata al momento del lancio con semplice acqua per evitare che le sollecitazioni acustiche possano danneggiare sia la navetta che la struttura di lancio.
Bello, no?

Vita di Polvere di Stelle

In queste ore sta rimbalzando sulle agenzie mondiali quella che potrebbe essere la scoperta scientifica dell’anno,  se venisse confermata, la creazione di una forma di vita artificiale con un DNA completamente risequenziato dall’uomo.
La notizia, di per sé eccezionale, non mi sorprende poi più di tanto, sono sicuro delle capacità umane e convinto che la vita in tutte le sue varie forme e combinazioni sia un fenomeno naturale estremamente comune nell’universo. Proverò a spiegarlo su questo Blog, anche se non Vi sarà facile seguirmi e se dovessi urtare la Vostra sensibilità, vi prego di perdonarmi.
Credits: NASA – ESA – Hubble Heritage (STScI/AURA)
ESA/Hubble Collaboration
L’Universo è pieno di enormi nubi di polvere, sappiamo che da esse nascono le stelle.
Un gruppo di studio internazionale che comprendeva ricercatori dell’Accademia Russa delle Scienze, l’Istituto Max Planck in Germania e dell’Università di Sydney, ha pubblicato nel 2007 un articolo sul New Journal of Physics che annunciava una scoperta che per le sue implicazioni era altrettanto esplosiva di quella dei nostri giorni.
Questo team, ha scoperto che la polvere cosmica è in grado di autorganizzarsi in presenza di plasma, creando  formazioni chiamate cristalli di plasma.
La scoperta indica che questi cristalli possono essere più sofisticati di quanto finora realizzato. Nelle simulazioni che coinvolgono polvere cosmica, i ricercatori hanno visto che i cristalli di plasma assumono alcune delle caratteristiche elementari della vita, ovvero la caratteristica struttura del DNA, un comportamento autonomo, riproduzione ed evoluzione.
Questo studio potrebbe rivoluzionare  la visione che abbiamo finora avuto della vita aliena.
Rappresentazione grafica
di una molecola di DNA
Per poter spiegare il meccanismo (i più coraggiosi invito alla lettura dell’articolo completo apparso sulla rivista), prima parliamo di plasma. Il plasma è il quarto stato della materia. Quando il gas è surriscaldato, gli elettroni sono strappati dagli atomi e questi diventano liberi di fluttuare. Il gas ionizzato assume allora una carica elettrica positiva. Questo mix surriscaldato di gas ionizzato e di elettroni liberi si chiama plasma. Le stelle sono fatte di plasma, come circa il 99 per cento della materia dell’universo, anche se il plasma è molto meno comune sulla Terra, dove di solito riconosciamo  solo tre stati della materia: solido, liquido e gas.
Di plasma è anche il vento solare (che abbiamo già incontrato sul Blog) e i venti interstellari, che non sono altro che i venti delle singole stelle sommati assieme e che spesso entrano in contatto con nubi di polvere come quelle studiate dai ricercatori.
Quando il plasma entra in contatto con una nube di polvere, le particelle di polvere raccolgono una carica elettrica fino ad assorbire tutti elettroni dal plasma circostante. La polvere, così caricata negativamente, attira gli ioni di plasma con carica positiva, formando i cristalli di plasma.
Le simulazioni che sono state eseguite sulla Stazione Spaziale Internazionale e in un ambiente a microgravità presso il centro di ricerca tedesco, hanno prodotto spesso cristalli di plasma  in cui si sono generate forme a cavatappi o addirittura forme a doppia elica tipiche del DNA.
In particolare questi cristalli a forma di elica si sono dimostrati in grado di trattenere una carica elettrica e di possedere una certa capacità di auto-organizzazione.
Una volta immersi in un altro ambiente non organizzato i cristalli elicoidali sono stati in grado di riprodursi in due eliche identiche, mostrando quindi  memoria delle loro strutture.
Il diametro di queste eliche varia in tutta la struttura e la disposizione di queste varie sezioni si replica negli altri cristalli, mostrando lo stesso comportamento di quello che si potrebbe definire una sorta di code genetico.
Queste strutture sembrano persino in grado di evolversi. Le formazioni diventano più robuste nel tempo e le strutture più deboli scompaiono.
I ricercatori vogliono verificare se le polveri in un ambiente non simulato, come ad esempio quelli negli anelli di Saturno, possa avere gli stessi comportamenti. Ma i cristalli di plasma sono molto fragili e difficili da verificare.  Esse richiedono inoltre un consistente flusso di plasma, per esistere.
Urano con i suoi anelli
Se queste strutture si presentano nelle simulazioni di laboratorio, i ricercatori ritengono che gli organismi di cristallo possano formarsi anche tra gli anelli di Urano e Saturno, che sono costituiti da piccoli granelli di ghiaccio.
Se l’esistenza in natura di queste forme cristalline dovesse essere confermata, non dovremmo anch’esse considerarle una forma di vita? Essa si nutre di plasma, si riproduce, si evolve e muore: non sono gli stessi requisiti che si richiedono ad una forma di vita?
Oppure, come il fuoco, esso nasce, si evolve e si riproduce per poi spegnersi, ma non è vivo?

Verso la sconfitta di Apophis

L’agenzia spaziale russa sta valutando seriamente tutta una serie di progetti volti a eliminare il pericolo Apophis, l’asteroide così chiamato in memoria della divinità egizia del Caos e scoperto nel 2004.
Sui progetti mirati a scongiurare il rischio di impatto di 99942 Apophis ho scritto lungamente sul Blog, ma perché nonostante i migliori scienziati e i migliori strumenti di calcolo ancora si parla di rischio e probabilità e non certezza?
Perché i dati in nostro possesso sull’asteroide sono ancora troppo pochi, non sappiamo bene, ad esempio, quanto la luce solare possa influire sulla sua traiettoria, stime parlano che questa può alterare significativamente l’orbita dell’asteroide tra i 20 e i 700 chilometri nei prossimi 19 anni, rendendo impossibili accurate previsioni future per i succcessivi 7 anni, tanto da avere un scarto d’errore successivo che va dai 500.000 ai 30 milioni di chilometri; poi c’è l’influenza di altri corpi asteroidali che incontra durante la sua orbita, la posizione dell’asse e la velocità di rotazione e tanti altri fattori che possono rendere vani gli sforzi per una analisi completa e compiuta della sua orbita:  ecco dunque l’origine dell’incertezza.
Migliori e più accurate analisi dei parametri orbitali di Apophis si potranno avere tra il 2011 e il 2013 utilizzando anche il radiotelescopio di Arecibo come radar (qui uno studio del JPL), per poter valutare la probabilità del rischio di impatto, che non è previsto, ricordiamolo,  per il prossimo incontro ravvicinato del 2029, ma per quello successivo, il 13 aprile 2036.
Curioso che sia lo stesso giorno dell’anno del passaggio precedente e che avvenga di Pasqua, sicuramente ci sarà qualche catastrofista che userà questa data per fissare una delle tante future fini del mondo e, se per me il mondo non cesserà prima, sarò lì a rinfacciarglielo.
Le analisi astrometriche dovranno dirci se nel 2029 Apophis attraverserà quella finestra gravitazionale larga appena 600 metri che potrà portarlo a collidere con la Terra nel 2036, e se è necessario intraprendere una serie di missioni spaziali volte  a scongiurare l’evento.
In quest’ottica il direttore dell’agenzia spaziale russa Roscosmos Anatoly Perminov ha fatto molto bene a muoversi in anticipo, proponendo addirittura di inviare una sonda che analizzi le reali condizioni di Apophis meglio di quanto possa fare qualsiasi analisi compiuta da terra.
Io andrò più in là: propongo che qualunque sia l’esito delle analisi astrometriche, un tentativo di modificare la traiettoria  di un vero asteroide debba essere comunque fatto: sono tanti e troppi i rischi di una futura collisione con corpi superiori ai 50-100 metri che una rete di difesa planetaria, sotto il controllo e la responsabilità di un’organismo globale come le Nazioni Unite sarebbe necessaria e urgente. 
Ben vengano quindi le conferenze come quella di Granada, Spagna, dell’aprile 2009, ma è ora che venga proposto anche  un organismo ufficiale stabile e che soprattutto sia condiviso e riconosciuto da tutte le Nazioni e i Popoli della Terra e non soggetto agli sforzi, seppur lodevoli, delle singole agenzie spaziali nazionali.


Long Life and Prosperity, little big Probe!

Dopo aver letto di alcune tesi su presunte interferenze aliene alla Voyager 2, ho deciso di rispondere all’argomento su questo Blog, non avevo parlato prima di quanto accaduto alla sonda perché non volevo trasformare il mio sito nel portavoce ufficiale del Jet Propulsion Laboratory in lingua italiana, ma vedo che purtroppo simili notizie si prestano ad essere distorte fino a minare la credibilità della ricerca scientifica.
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una sonda Voyager
Se potessi scegliere a chi o a cosa intitolare una piazza o una via, non avrei dubbi: lo intitolerei alle sonde gemelle Voyager e a tutte le persone che hanno contribuito all’innegabile successo di queste missioni.
La Voyager 2 in questi giorni ha subìto un piccolo problema: la nobile sonda interplanetaria (e anche interstellare) il 22 aprile ha incominciato ad inviare dati incomprensibili a causa di un malfunzionamento del programma di formattazione dati, che è anche lo stesso che elabora i dati di volo.
Come conseguenza di una manovra di rollio in volo, comunque pianificata, la Voyager 2 ha ripreso contatto con la Terra il 30 aprile, giorno in cui gli ingegneri sono potuti intervenire per controllare lo stato di efficienza della navicella,  trovandola comunque a posto. La Voyager 2 è a una distanza tale che occorrono 13 ore perché il suo flebile sussurro arrivi al potente orecchio elettronico del NASA Deep Space Network e altrettante ne occorrono per inviare qualsiasi comando (la Voyager 2 è ora a 13,8 miliardi di chilometri dalla Terra).
Adesso il software della Voyager 2 è stata messo in modalità diagnostica, che consente di monitorare lo stato di salute della navicella.
Dopo 33 anni di volo interplanetario e a 13 ore luce di distanza era abbastanza plausibile che potesse insorgere simili problemi, senza ricorrere ad astruse spiegazioni che tirano in ballo gli E.T., come ha fatto il Bild tedesco in questo  articolo, dove è andato a pescare un esperto di alieni….
voyager20100430-browse[1]
Rappresentazione grafica
della Voyager 2 ai confini
del Sistema Solare
Comunque tornando a quel capolavoro di ingegneria che è la Voyager 2, essa
ha superato i confini del sistema solare  il 30 agosto 2007, convenzionalmente  indicati con l’eliopausa, ovvero il punto in cui l’azione del vento stellare del Sole si mescola con i venti interstellari.
Il vento solare è un gas sottile di particelle elettricamente cariche (plasma) emesso nello spazio dal Sole. Il vento ovviamente soffia in tutte le direzioni, e questa bolla  si estende oltre l’orbita di Plutone. Questa bolla è chiamata eliosfera e la navicella gemella Voyager 1 è stata la prima sonda a esplorare il suo strato esterno nel dicembre 2004 (la Voyager 1 è a 16,9 miliardi di chilometri da noi).
Purtroppo la Voyager 2 cesserà di funzionare il 2025, quando la sua batteria RTG smetterà di funzionare. Ma i contatti quasi sicuramente saranno persi molto prima, probabilmente entro cinque anni, quando i giroscopi che consentono di mantenere l’antenna orientata verso la Terra cesseranno di funzionare.

N.E.O. Warning

 
Ne avevo già accennato nel primo articolo pubblicato da questo Blog: L’estinzione prossima ventura, di alcune proposte per salvare la Terra da asteroidi e comete che possono essere in rotta di collisione col nostro pianeta.
Innanzitutto va scartata l’opzione del bombardamento nucleare, ovvero quella di ridurre in frantumi il corpo celeste con ordigni nucleari, in quanto essa non fa altro che trasferire il danno di una collisione da singola a molte altrettanto pericolose.
L’unica scelta che rimane è quella di modificare l’orbita dell’oggetto in modo tale che non rappresenti più un pericolo per la Terra; più facile a dirsi che a farsi? Forse no, agli scienziati di tutto il mondo le idee in proposito non mancano di certo, tutto sta alla volontà politica delle Nazioni di volersi impegnare in un progetto che è altrettanto importante del Global Warming ma che, contrariamente ad esso, non è influente per l’economia.
Un team del dipartimento di Ingegneria Aerospaziale dell’Università di Glasgow guidato dal Dr. Massimiliano Vasile ha compiuto nel 2007 uno studio scientifico sulle tecniche per deviare i corpi celesti in rotta di collisione, analizzando nove diverse tecniche e prendendo come esempio l’asteroide 99942 Apophis:
  1. Esplosione nucleare

    Un ordigno a fusione viene fatto esplodere ad una distanza ottimale dall’asteroide, in questo modo parte della superficie viene vaporizzata cambiandone la quantità di moto e quindi la traiettoria.

  2. Impatto cinetico

    Sparare una sonda contro l’asteroide per cambiarne il vettore di velocità, l’effetto è minore del precedente ma almeno non avremmo ordigni nucleari da mandare nello spazio.

  3. Collettore Solare

    Riprendendo un’idea del 1993 del planetologo H. J. Melosh, è quella di usare uno specchio gigante per focalizzare la luce solare sull’asteroide per vaporizzarne parte della superficie ed ottenere un getto di gas che sia in grado di modificarne l’orbita, un po’ come già succede alle comete in prossimità del Sole. Una alternativa consiste in una schiera di sonde con specchi più piccoli che focalizzano nel medesimo punto: Questa proposta è attualmente studiata anche dalla Planetary Society.

  4. Motore a getto di massa

    In questo caso è una sonda che atterra sull’asteroide e che proietta il materiale scavato nello spazio: Il risultato è discreto, il 50% dell’energia disponibile viene convertita in energia cinetica per produrre un cambiamento nel momento lineare: per contro la missione appare un po’ troppo complessa.

  5. Motore a ioni

    Anche qui si prevede di far atterrare una navicella dotata di un propulsore a ioni e usarlo per modificare la traiettoria e velocità dell’asteroide.

  6. Rimorchio gravitazionale

    Uno studio di due scienziati e astronauti statunitensi, Edward Lu e Stanley Love, pubblicato su Nature nel 2005, propone l’invio di un enorme razzo per rimorchiare via gli oggetti in questione.
    Questo veicolo stazionando sopra l’asteroide è in grado di deflettere l’orbita dell’asteroide quanto basta per spostarlo fuori pericolo. Una massa di 20 tonnellate si può tranquillamente deflettere un asteroide di 200 metri in circa un anno di tale rimorchio gravitazionale. Semmai il problema sarà quello di inviare una simile sonda fuori dalla Terra, a meno che non venga costruita con materiale lunare.

Questi sono solo alcuni studi sulle possibili soluzioni al problema dei N.E.O.  e, come potete aver letto, nessuno di questi è fuori portata dalle tecnologie attuali o di quelle di cui potremmo disporre in un prossimo futuro. I rischi di un impatto sono tangibili, la comunità scientifica e astronomica tiene sotto osservazione con programmi come l’Asteroid Watch centinaia di asteroidi e molti nuovi vengono continuamente scoperti ogni giorno.
Quello che ora manca sono le istituzioni politiche internazionali, come l’ONU e i paesi membri del G8 che devono dare una risposta. Occorre un organismo sovranazionale, come lo è ad esempio l’OMS, che si faccia finalmente carico di queste responsabilità e produca un piano di investimenti e di intervento: l’appuntamento con 99942 Apophis è previsto nel 2036.

I dati di questo articolo sono stati tratti dalla Conferenza per la Difesa Planetaria  del 6 Marzo 2007

Le origini della Vita (seconda parte)

La «panspermia» è una teoria riguardante l’evoluzione e l’origine della vita sulla Terra alla luce delle attuali scoperte scientifiche di cui disponiamo.
Essa sostiene che la vita sulla Terra proviene dallo spazio, e che solo l’evoluzione della vita a forme più elevate possa essere stata autoctona.

Al contrario di si potrebbe supporre, la panspermia non è una teoria del tutto nuova, il primo a parlarne fu il filosofo greco Anassagora, che a sua volta influenzò il pensiero di Socrate. Tuttavia, il pensiero aristotelico della generazione spontanea fu scelto dalla scienza per più di 2000 anni. Poi nel 1864 il chimico francese Louis Pasteur dimostrò coi suoi esperimenti l’infondatezza di questa teoria smentendo l’ipotesi della generazione spontanea. Nel 1870 il fisico inglese Lord Kelvin e il fisico tedesco Hermann von Helmholtz incoraggiati dagli studi di Pasteur ipotizzarono che la vita potrebbe essere arrivata dallo spazio, ma fu nel primo decennio del 1900, che il chimico e premio Nobel svedese Svante Arrhenius teorizzò che spore batteriche provenienti dallo spazio possono essere stati i semi della vita sulla Terra.
Nel 1920, il biochimico russo Aleksandr Oparin e indipendentemente il genetista inglese Haldane, riproposero la dottrina della generazione spontanea in una forma più sofisticata. Nella nuova versione, a sostegno di questa teoria, nel 1953, i chimici americani Stanley Miller e Harold Urey dimostrarono che alcuni amminoacidi possono formarsi chimicamente da una miscela di ammoniaca e metano sotto l’azione energetica di radiazioni. Questo esperimento è ormai famoso, e la teoria di Oparin-Haldane prevale ancora oggi.
A partire dagli anni 1970, gli astronomi britannici Fred Hoyle e Chandra Wickramasinghe riaccesero l’interesse nella panspermia. Essi proposero che le comete, che sono in gran parte fatti di ghiaccio d’acqua, veicolino la vita batterica attraverso le stelle proteggendola dai danni della radiazione interstellare con il loro ambiente.
È dimostrato infatti da campagne di osservazione eseguite principalmente con i radiotelescopi che la polvere interstellare contiene composti organici  e ormai è universalmente accettato che lo spazio contenga gli “ingredienti” della vita.
Questo sviluppo potrebbe essere il primo indizio di un cambiamento di paradigma enorme. Ma la scienza tradizionale non ha ancora accettato gli assunti della panspermia moderna, nonostante che molti membri della comunità scientifica internazionale ne condividano le idee.
Hoyle e Wickramasinghe inoltre estesero il concetto di panspermia per farle includere una nuova comprensione dei meccanismi dell’evoluzione. Pur accettando il fatto che la vita sulla Terra si è evoluta nel corso di circa quattro miliardi di anni, che l’evoluzione non può essere spiegata solo con mutazioni casuali e la ricombinazione tra i geni per gli organismi unicellulari, anche se essi si svolgono in un ampio arco di tempo: quindi anche i programmi genetici devono venire da qualche parte oltre la Terra. Questa loro teoria estesa è chiamata «panspermia forte».

Nel frattempo, su una pista diversa, nei primi anni 1970, il chimico e inventore britannico James Lovelock ha proposto la teoria che la vita stessa controlli l’ambiente per renderlo adatto a sè stessa. La teoria, chiamata Gaia, è diventata oggetto di un piccolo ma crescente culto. Tuttavia, vista da una prospettiva darwiniana, la teoria di Gaia sembra assumere le caratteristiche di una vera teologia. È difficile immaginare come i processi proposti da Gaia che richiedono milioni di anni possano essere scoperti per tentativi ed errori. In risposta a tali critiche, Lovelock stesso ha proposto una versione meno audace di Gaia.La nuova proposta è che i processi di Gaia non sono esclusivi allaTerra, ma questi preesistono e sono universali in quanto la vita dallo spazio porta con sé i processi di Gaia. In questo modo i meccanismi di Gaia che sono necessari per lo sviluppo di forme superiori di vita possono realizzarsi su qualsiasi pianeta.
Questa nuova teoria della panspermia ampliata si chiama «Ascendenza Cosmica» e questo nuovo modo di pensare l’evoluzione e l’origine della vita sulla Terra è profondamente diverso dal paradigma scientifico dominante.
Non sono le risposte che riesce a dare la nuova teoria a scatenare il dibattito filosofico, ma le sue nuove domande:
l’Ascendenza Cosmica implica quindi che la vita non può che discendere da antenati evoluti almeno come sé stessa, e quindi che in passato non ci possa essere stata l’origine della vita dalla materia non vivente. Senza quindi cercare un intervento soprannaturale, dunque, possiamo concludere che la vita debba essere sempre esistita, quantomeno in potenza.
A tale domanda la risposta arriva dai postulati del principio antropico che afferma se una o più delle costanti fisiche fondamentali avessero avuto un valore differente alla nascita dell’universo, allora non si sarebbero formate le stelle, né le galassie, né i pianeti e la vita come la conosciamo non sarebbe potuta esistere.
Anche se queste conclusioni attraversano i confini tra scienza, filosofia e religione, l’unica misura della giustezza di una teoria scientifica è data unicamente dalle osservazioni (metodo scientifico).
Sono molte le osservazioni osservazioni scientifiche a sostegno della teoria della panspermia, fino a ipotizzare che la versione conosciuta come Ascendenza Cosmica  non sia solo un interessante esercizio puramente accademico ma che possa essere almeno l’embrione di un nuovo modo di pensare l’Universo e il ruolo che ricopriamo in questo.
Farò altri articoli per illustrare queste osservazioni, intanto vi lascio con una lista di nomi di alcuni scienziati che appoggiano l’ipotesi della panspermia e vi chiedo di scrivere il Vostro punto di vista in proposito.

Il pianeta padre degli dei

GIOVE
Pubblico volentieri questa ricerca fatta da mio figlio (col mio aiuto, lo ammetto, ma poco poco) per la scuola; buon sangue non mente
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Giove è il 5° pianeta del nostro Sistema Solare a partire dal Sole ed è conosciuto fin dall’antichità (i primi a studiarlo furono gli Assiri) essendo il 4° oggetto più luminoso del cielo (gli altri sono il Sole, Luna e Venere).
Per la maestosità della sua luce gli fu attribuito il nome del Padre degli Dei greco-romani: Giove.
Giove fu uno dei primi pianeti ad essere osservato al telescopio da Galilei, il quale scoprì i suoi più grandi satelliti che intitolò al granduca di Firenze Cosimo II dei Medici, ma un altro personaggio (Simon Marius) si attribuì la scoperta e li battezzò con i nomi attuali: Io, Europa, Ganimede e Callisto.
clip_image003Io è un satellite naturale di Giove, il più interno dei quattro satelliti medicei. Il suo nome deriva da quello di Io, una delle molte amanti di Zeus secondo la mitologia greca. È un satellite geologicamente attivo grazie al calore interno sviluppato dall’azione gravitazionale di Giove e, come la Terra, ospita vulcani attivi ma che a differenza di quelli terrestri emettono zolfo, conferendogli così un bel colore giallo-arancio.
clip_image004Il nome di Europa deriva da quello di Europa, un’altra delle molte amanti di Zeus. La superficie di questo satellite è composta da ghiaccio d’acqua sovrastante un unico immenso oceano d’acqua liquida grazie al calore interno del pianeta dovuto all’azione mareale di Giove come per Io. Per questo Europa sembra una grande palla da biliardo quasi perfettamente liscia.
clip_image006Ganimede è il principale satellite naturale del pianeta Giove e il più grande dell’intero sistema solare; supera per dimensioni (ma non per massa) un altro pianeta del Sistema Solare: Mercurio. Lui deve il suo nome al personaggio di Ganimede, coppiere degli dei della mitologia greca, amato da Zeus. La sua composizione dovrebbe essere di ghiaccio d’acqua e rocce nella stessa proporzione ed ha una curiosa particolarità: La superficie di Ganimede è asimmetrica; l’emisfero “anteriore”, che guarda cioè verso la direzione di avanzamento della luna sulla sua orbita, è più luminoso rispetto a quello posteriore. Lo stesso accade su Europa, mentre su Callisto accade la situazione opposta.
clip_image007Callisto è il satellite naturale più pesantemente craterizzato del sistema solare. In effetti, i crateri da impatto e i loro anelli concentrici sono la sola struttura presente su Callisto; non vi sono grandi montagne o altre caratteristiche prominenti. Questo dipende probabilmente dalla natura ghiacciata della sua superficie, dove i crateri e le montagne più grandi vengono cancellati dallo scorrimento del ghiaccio durante tempi geologici.   È il terzo satellite dell’intero Sistema Solare in virtù delle sue dimensioni, confrontabili con quelle di Mercurio. Callisto era il nome di una ninfa consacrata ad Artemide di cui Zeus si innamorò; Era scoperto il tradimento la trasformò in orsa e Artemide la uccise, ma Zeus la trasformò nella costellazione dell’Orsa Maggiore.
Con l’uso dei telescopi si è scoperto che Giove è un pianeta gassoso e che la sua massa lo rende il più grande pianeta del Sistema Solare, circa 2,5 volte la massa di tutti gli altri pianeti messi assieme.
Giove compie un’orbita (rivoluzione) intorno al Sole in 11,86 anni a una distanza media di 778 milioni di chilometri dal Sole, mentre compie una rotazione completa (giorno) in appena 9 ore e 55 minuti all’equatore e 9 ore e 50 minuti ai poli.
clip_image008Il fatto che sia gassoso fa sì che la sua rotazione sia diversa all’equatore rispetto ai poli, questo meccanismo innesca le strisce orizzontali che vediamo sulla sua superficie, che è caratterizzata anche da una gigantesca macchia bruna (la Grande Macchia Rossa) che è in realtà un gigantesco uragano che va avanti da secoli (fu osservata per la prima volta da Giovanni Cassini nel 1665) ed è sufficientemente grande da contenere due o tre pianeti delle dimensioni della Terra.
clip_image010Il pianeta è composto per almeno ¾ da gas: il 75% da idrogeno e il 24% da elio, mentre il restante 1% è suddiviso in gas più complessi come metano, ammoniaca, ossigeno, neon e zolfo e altri gas più complessi.
A causa del suo enorme peso Giove si contrae di circa 2 cm all’anno, sviluppando in questo modo quasi altrettanto calore di quanto ne riceva dal Sole.
clip_image011La sua elevata velocità di rotazione fa sì che si comporti come una enorme dinamo, originando un enorme campo magnetico che crea la magnetosfera gioviana che, come accade sulla Terra, la protegge dai raggi cosmici ma che genera delle aurore polari perenni dovute alle attività vulcaniche dei satelliti gioviani (principalmente di Io) che interagiscono con questa ed è sede di intense radioemissioni. 

clip_image013È grazie alla grande massa di Giove che il nostro Sistema Solare è abbastanza stabile fisicamente in quanto la sua orbita stabilizza quella di altri corpi minori impedendo che questi cadano verso il Sole e verso i pianeti più interni come la Terra. In questo disegno qui accanto si può osservare come Giove funga da “spazzino” e pulisca la sua orbita e organizzi quella degli asteroidi arrivando perfino a catturarne qualcuno che così diventa un altro dei suoi satelliti minori.
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Giove è uno dei pianeti più a lungo studiati anche attraverso sonde automatiche inviate dall’uomo e che ci hanno permesso di apprendere di più di questo magnifico pianeta, il più grande di tutto il Sistema Solare, mentre il più importante rimane la nostra vecchia cara Terra. Nell’ordine le sonde sono state:

· missioni Pioneer 10 e 11 (1973-1974)
la sonda numero 10 è l’oggetto che finora è andato più lontano creato dall’uomo
Come la sua nave-sorella Pioneer 10, anche Pioneer 11 porta una placca dorata con dei messaggi indirizzati a una intelligenza aliena.

· missioni Voyager 1 e 2 (1979)
Voyager 1 porta con sé un disco registrato d’oro (che contiene immagini e suoni della Terra, assieme a qualche istruzione su come suonarlo, nel caso qualche civiltà extraterrestre lo trovi. È ancora in attività per studiare i confini del Sistema Solare.
Come la prima anche la Voyager 2 porta con sé il disco d’oro. È finora l’unica sonda umana che abbia studiato i pianeti Urano e Nettuno.

· missione Ulysses (1992-2004)
questa è una missione che studiava i poli del Sole e che nella sua orbita ha incontrato Giove 2 volte. Dopo il suo spegnimento avvenuto il 30 giugno del 2009, la sonda continuerà ad orbitare intorno al Sole come se fosse una cometa costruita dall’uomo.

· Missione Galileo  (1995)
Durante il viaggio verso il pianeta ha scoperto il primo satellite di un asteroide, è stata la prima sonda ad orbitare per 8 anni attorno a Giove e a lanciare una piccola sonda nella sua atmosfera per studiarne la composizione.

· missione Cassini (2000)
Sviluppata dalla NASA in collaborazione con l’ESA (l’agenzia spaziale europea) e con l’ASI (l’agenzia spaziale italiana), la sonda Cassini è un prodigio della tecnologia spaziale del XX secolo, costituita da due componenti distinte: un orbiter e una sonda secondaria (Huygens). Pensata per studiare Saturno , ha incrociato durante il viaggio anche Giove, per sfruttarne l’effetto fionda per raggiungere il pianeta degli anelli. Il robottino Huygens è poi atterrato sul satellite principale di Saturno, Titano ed è finora la più lontana sonda atterrata su un altro pianeta.

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Le origini della Vita (prima parte)

«Da questo spirito poi, che è detto vita dell’universo, intendo nella mia filosofia provenire la vita et l’anima a ciascuna cosa che have anima et vita, la qual però intendo essere immortale; come anco alli corpi. Quanto alla loro substantia, tutti sono immortali, non essendo altro morte».
Giordano Bruno

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Giordano Bruno a
Campo de’ Fiori (Roma)
Nei giorni scorsi Stephen Hawking ha fatto un’affermazione che per gli scienziati è abbastanza scontata, basta leggersi qualsiasi intervista o lavoro sull’argomento “forme di vita extraterrestri” prodotto dalla comunità scientifica per scoprire le stesse cose. Hawking ha solo presentato una serie di documentari per Discovery Channel che subito i media, profani, di tutto il mondo hanno gridato al pericolo extraterrestre.
Ma cosa ha detto mai Hawking?
Hawking ha cercato solo di spiegare che in universo composto da miliardi di galassie ognuna di esse con centinaia di milioni di stelle è assai improbabile che la vita (per Grazia Divina) si sia sviluppata soltanto qui sulla Terra, è quello che dai tempi di Giordano Bruno la Scienza cerca di dire e che alle persone di buon senso questa affermazione appare ovvia, anch’io ho trattato quest’argomento agli albori  di questo Blog con una serie di articoli (Dove sono l’omini verdi(prima parte)(seconda parte)(terza parte) ).
Poi Hawking ha affermato che molte di queste altre forme di vita potranno essere soltanto degli organismi semplici, anche per la Terra è stato così per gran parte della sua esistenza (da 3,8 miliardi di anni fa fino a 600 milioni di anni fa, Precambriano). Le relativamente poche forme di vita intelligente, potrebbero costituire una potenziale minaccia per il genere umano come lo è stato nella storia del genere Umano ogni volta che civiltà più evolute tecnologicamente si sono incontrate con quelle meno progredite, per questo bastano e avanzano gli esempi storici dell’avanzata europea nel mondo: gli spagnoli in Sud America, gli inglesi in Asia e Nord America, etc.
Un’altro pericolo reale è che queste altre forme di vita possono essere portatori di letali malattie come lo è stata per noi la peste nel XIV secolo o il virus Ebola (nel libro “La guerra dei mondi” di Herbert George Wells i marziani devastano le città terrestri ma muoiono tutti a causa delle malattie di cui noi però possediamo gli anticorpi), ma lo stesso può valere per l’inverso.
Più o meno le stesse cose le affermava anche Carl Sagan ad esempio, anche se per Sagan il contatto con altre civiltà sarebbe potuto esserci solo per via radio, viste le distanze siderali che ci separerebbero dalle altre civiltà, praticamente insormontabili per la fisica come la conosciamo, ma efficaci, come ho anch’io illustrato nei miei suddetti precedenti articoli, di gettare nel panico le nostre convinzioni basate sull’unicità dell’Uomo nell’Universo e di sconvolgere la nostra civiltà.

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Rappresentazione artistica
della fascia degli asteroidi
Cortesia NASA

Ora, è notizia di queste ore, che una ricerca guidata dall’astronomo Andrew Rivkin della Johns Hopkins University durata sei anni, abbia portato alla scoperta di acqua e composti organici a base carbonio sull’asteroide 24 Themis, che orbita nella fascia principale di asteroidi  a 479 milioni di chilometri dal Sole, L’eccezionalità della scoperta è che a quella distanza si riteneva improbabile che l’acqua si potesse essere conservata per 4,6 miliardi di anni, dalla nascita del Sistema Solare, ma il bello della Scienza è quello di dubitare sempre sui dogmi e di rimettersi continuamente in gioco e così che è stata fatta la scoperta.
La scoperta di acqua nel nostro sistema solare non è propriamente una novità, sappiamo che essa esiste sulle lune dei pianeti esterni, nelle comete e recentemente è stata scoperta anche sulla Luna. Sappiamo anche di composti organici a base carbonio scoperti nelle comete (sonda Giottocometa di Halley, 1986) e nell’Universo grazie ai radiotelescopi.
Quello che sta a significare la scoperta è che essa è un’altro importante punto a favore all’ipotesi che la vita, o comunque i suoi mattoni fondamentali possono essere nati al di fuori ,e comunque non necessariamente, sulla Terra.
Questa è la teoria della Panspermia.
Ora se credete che l’Universo sia nato il 23 ottobre del 4004 a.C. verso mezzogiorno, ossia siete dei Creazionisti, vi conviene fermarvi qui e non andare oltre, perché l’argomento di cui parlerò nella second

a parte potreste giudicarlo blasfemo.

(continua)