Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta, la massa

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Nella prima parte ho dimostrato come si possono ottenere con dei semplici calcoli alcune proprietà di un ipotetico pianeta in orbita ad una stella remota. La parte più difficile è però calcolare la massa dell’esopianeta, una sfida difficile ma ricca di soddisfazioni.

Credit: Il Poliedrico.

Credit: Il Poliedrico.

La Seconda Legge del Moto di Newton e la Legge di Gravitazione Universale mostrano che esiste un elegante rapporto tra il semiasse maggiore dell’orbita e il periodo di rivoluzione di un qualsiasi pianeta.
Di conseguenza, conoscendo esattamente il periodo orbitale e la distanza che divide un pianeta dal suo centro di massa con la stella a cui appartiene è possibile estrapolarne la massa:
\begin{equation}
\frac{P^2}{a^3}=\frac{4\pi^2}{G(M_{\bigstar} +M_{p})}
\end{equation}

Pertanto osservando le leggi universali del moto e della gravitazione di Newton potrebbe sembrare che sia abbastanza semplice estrapolare la massa di un esopianeta 1; quello che occorre è la conoscenza più accurata possibile degli elementi orbitali dell’esopianeta.
La distanza prospettica tra la proiezione della corda di transito e la corda del massimo transito è descritta matematicamente come $b=a \hspace{2} cos(i)$, dove $a$ è il raggio dell’orbita del pianeta, assumendo per assurdo che l’orbita dell’esopianeta osservato sia perfettamente circolare ($\varepsilon =0$ e velocità orbitale costante). Osservando la figura qui sotto si nota che il cateto $l$ opposto all’ipotenusa $R_{\bigstar}+R_{p}$ e pari alla metà del percorso del pianeta davanti alla sua stella, lo si può scrivere come :
\begin{equation}
l=\sqrt{\left( R_{\bigstar} + R_{p}\right)^2 – b^2}
\end{equation}.

Pertanto il percorso osservato del’esopianeta (A -> B) sul disco stellare è pari a 2$l$.
Osservando la figura all’inizio è evidente che l’esopianeta mentre transita davanti alla stella muovendosi tra A a  B  compie un angolo (espresso in radianti) $\alpha$ dove il centro è il centro di massa del sistema 2.
Così si ha per il triangolo $\overline{AB}$ e il centro di massa, la durata visibile del transito:
\begin{equation}
sin \left( \frac{\alpha}{2}\right)=\frac{l}{a}
\end{equation}\[\rightarrow\]\begin{equation}
D_{transito}= P\frac{\alpha}{2\pi}=\frac{P}{\pi}sin^{-1} \left(\frac{l}{a}\right)=\frac{P}{\pi}sin^{-1} \left(\frac{\sqrt{\left( R_{\bigstar} + R_{p}\right)^2 – b^2 }}{a}\right)
\end{equation}

Per procedere oltre, occorre stimare la durata massima del transito, come se si osservasse il piano orbitale  proprio di taglio, quando il pianeta cioè attraversa la stella sul suo equatore. Infatti la durata del transito osservato è generalmente minore rispetto a quella massima possibile che si avrebbe solo quando il piano planetario è parallelo all’osservatore, data la casualità dei piani planetari delle altre stelle rispetto all’osservatore.

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Come è possibile osservare nella figura qui sopra la proiezione del pianeta sul disco stellare è falsata dall’angolo $i$, inteso come l’angolo compreso tra la linea di vista e il piano orbitale effettivo dell’esopianeta ($i$=90° se il piano orbitale è sulla stessa linea di vista). Conoscere l’ampiezza dell’angolo $i$ restituisce l’idea di come è pertanto posizionato nello spazio il sistema planetario extrasolare rispetto all’osservatore. Quindi in realtà la durata del transito osservata sarà pari a $D_{transito}= D_{max} \cdot sin(i)$. Ma non solo, come è possibile osservare nella simulazione qui a fianco,  lo sviluppo del transito su una corda diversa dalla corda massima (il diametro) influenza anche la curva di transito osservata, accorciando il periodo del picco minimo osservabile e stirando i periodi parziali [cite]http://arxiv.org/abs/astro-ph/0210099[/cite].
Adesso la durata massima del transito si può descrivere matematicamente come:
\begin{equation}
\frac{P\frac{\alpha}{2\pi}}{sin \left (i \right)}
\end{equation}

perché la lunghezza della corda di transito è falsata (e quindi minore) rispetto alla corda massima disponibile dal $sin(i)$.
Quindi applicando la legge dell’anno siderale di Gauss  si scopre che:
\begin{equation}
\frac{2\pi}{k}=D_{max}\frac{2\pi}{\alpha}
\end{equation}\[\rightarrow
\]
\begin{equation}
\alpha / D_{max}=k
\end{equation}

Il periodo orbitale rilevato dalla frequenza dei transiti restituisce la durata dell’anno siderale reale, ovvero quello che è prodotto con il contributo delle due masse, quella stellare e quella planetaria. Viceversa l’anno gaussiano del pianeta tiene conto solo della massa della stella. La differenza tra i due diversi periodi restituisce il contributo dovuto alla sola massa del pianeta.

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Il Telescopio nazionale Galileo – Credit: Sabrina Masiero[/fancybox]

La tecnologia osservativa attuale basata sui transiti non è ancora così precisa da consentire di rilevare differenze così piccole 3. Diversa storia invece per l’analisi spettrografica che consente con molta maggiore accuratezza di risolvere le velocità relative del sistema esoplanetario; per ora rimane infatti il solo modo per stabilire con sufficiente approssimazione la massa di un pianeta extrasolare.
Per questo strumenti spettroscopici di grandissima risoluzione sono ospitati nei maggiori complessi astronomici del mondo. Due di questi, gli HARPS sono ospitati in strutture europee: l’HARPS è ospitato presso l’Osservatorio di La Silla, in Cile sul telescopio da 3,6 metri dell’ESO fin dal 2002. L’altro, l’HARPS-N, è stato montato nel 2012 sul Telescopio Nazionale Galileo, all’Osservatorio del Roque de Los Muchachos nell’isola di La Palma, alle Canarie.
Il metodo delle velocità radiali rilevate spettroscopicamente  è molto simile a quello che qui è descritto, solo che è molto più efficace grazie a questa nuova classe di spettroscopi ultra precisi a cui gli HARPS appartengono. Se adesso è possibile fare una stima della massa ad un esopianeta lo si deve ad essi.


Note:

Come ti calcolo le proprietà di un esopianeta (prima parte)

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La scoperta di un enorme numero dei pianeti extrasolari in questi ultimi vent’anni ha sicuramente rivoluzionato l’idea di Cosmo. A giugno di quest’anno erano oltre 1100 i pianeti extrasolari scoperti e accertati nel catalogo di exoplanet.eu, facendo stimare, con le opportune cautele dovute a ogni dato statistico, a circa 60 miliardi di pianeti potenzialmente compatibili con la vita. Questo impressionante numero però non deve far credere immediatamente che 60 miliardi di mondi siano abitabili; Venere, che dimensionalmente è molto simile alla Terra, è totalmente incompatibile con la vita terrestre che, probabilmente, si troverebbe più a suo agio su Marte nonostante questo sia totalmente ricoperto da perossidi, continuamente esposto agli ultravioletti del Sole e molto più piccolo del nostro globo.

In concreto come si fa a calcolare i parametri fisici di un pianeta extrasolare? Prendiamo l’esempio più facile, quello dei transiti. Questo è il metodo usato dal satellite della NASA Kepler, che però soffre dell’handicap geometrico del piano planetario che deve giacere sulla stessa linea di vista della stella,o quasi. Ipotizziamo di stare osservando una debole stellina di 11a magnitudine, che però lo spettro indica come una K7:

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diagramma di luce

La distanza

La tabella di Morgan-Keenan suggerisce per questo tipo di stella una massa di 0,6 masse solari,  una temperatura superficiale di appena 4000 K. e un raggio pari a 0,72 volte quello del Sole. Analizzando invece questo ipotetico diagramma del flusso di luce 1 proveniente dalla stella, appare evidente  la periodicità dell’affievolimento (qui esagerato) della sua luce.
Un periodo pari a 76,86 giorni terrestri, un classico evento tipico anche di una semplice binaria ad eclisse per esempio, solo molto più veloce. Un semplice calcolo consente di trasformare il periodo espresso qui in giorni in anni (o frazioni di esso). Pertanto il suo periodo rispetto agli anni terrestri è $76,86/365,25= 0,2104$. A questo punto è sufficiente applicare la terza Legge di Keplero per ottenere la distanza del pianeta dalla sua stella espresso in unità astronomiche:

\begin{equation} D_{UA}^3=P_y^2\cdot M_{\bigstar}= \sqrt[3]{0,2104^2 \cdot 0,.6}= 0,2983 \end{equation} Quindi l’esopianeta scoperto ha un periodo orbitale di soli 76,86 giorni e orbita a una distanza media di sole 0,2368 unità astronomiche dalla stella, ossia a poco più di 44.6 milioni di chilometri dalla stella. Una volta scoperto quanto dista il pianeta dalla stella è facile anche calcolare la temperatura di equilibrio del pianeta, per vedere se esso può – in linea di massima – essere in grado di sostenere l’acqua allo stato liquido.

La temperatura di equilibrio

\begin{equation}\frac{\pi R_p^2}{4\pi d^2} = \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2\end{equation} L’energia intercettata da un pianeta di raggio $R_p$ in orbita alla sua stella  a una distanza $d$

Per comodità di calcolo possiamo considerare una stella come un perfetto corpo nero ideale. La sua luminosità è perciò dettata dall’equazione: $L_{\bigstar}=4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4$, dove $\sigma$ è la  costante di Stefan-Boltzmann che vale  $5,67 \cdot{10^{-8}} W/m^2 K^4$). Qualsiasi pianeta di raggio $R_p$ che orbiti a distanza $d$ dalla stella cattura soltanto  l’energia intercettata pari alla sua sezione trasversale $\pi R_p^2$ per unità di tempo e  divisa per l’area della sfera alla distanza $d$ dalla sorgente. Pertanto si può stabilire che l’energia intercettata per unità di tempo dal pianeta è descritta dall’equazione: \begin{equation} 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Ovviamente questo potrebbe essere vero se il pianeta assorbisse tutta l’energia incidente, cosa che per fortuna così non è, e riflette nello spazio parte di questa energia. Questa frazione si chiama albedo ed è generalmente indicata con la lettera $A$. Quindi la precedente formula va corretta così: \begin{equation} \left ( 1-A \right ) \times 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Il pianeta (se questo fosse privo idealmente di una qualsiasi atmosfera) si trova così in uno stato di sostanziale equilibrio termico tra l’energia ricevuta, quella riflessa dall’albedo e la sua temperatura. L’energia espressa dal pianeta si può descrivere matematicamente così: $L_{p}= 4\pi R_{p}^2\sigma T_{p}^4$ e, anche qui per comodità  di calcolo, si può considerare questa emissione come quella di un qualsiasi corpo nero alla temperatura $T_p$. Pertanto la temperatura di equilibrio è: \begin{equation}

4\pi R_{p}^2\sigma T_{p}^4 =\left ( 1-A \right ) \times 4\pi R_{\bigstar}^2\sigma T_{\bigstar}^4\times \left ( \frac{R_p}{2d}\right )^2 \end{equation}

Ora, semplificando quest’equazione si ottiene: \begin{equation} T_{p}^4= (1-A)T_{\bigstar}^4 \left ( \frac{R_{\bigstar}}{2d}\right )^2 \rightarrow T_{p}=T_{\bigstar}(1-A)^{1/4}\sqrt { \frac{R_{\bigstar}}{2d}} \end{equation}

Con i dati ottenuti in precedenza è quindi possibile stabilire la temperatura di equilibrio dell’ipotetico esopianeta ipotizzando un albedo di o,4: \begin{equation}

T_{p}=4000 \enskip K \cdot 0,6 ^{1/4}\sqrt { \frac{500 000 \enskip km}{2\cdot 4,46\cdot 10^7\enskip km}} =263,47 \enskip K.

\end{equation}

Risultato: l’esopianeta pare in equilibrio termico a -9,68 °C, a cui va aggiunto alla superficie l’effetto serra causato dall’atmosfera. Ma in fondo, anche le dimensioni contano …

Il raggio

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Il calo della luminosità indica le dimensioni dell’oggetto in transito: $r^2/R^2$

Nel momento del transito, si registra un calo della luminosità della stella.  L’ampiezza di questo calo rispetto alla luminosità standard della stella fornisce una stima della misura del raggio del pianeta. Il calo non è immediato, ma segue un andamento proporzionale alla superficie del pianeta occultante, uguale sia in ingresso che in  uscita. In base a queste osservazioni si possono ricavare i flussi di energia luminosa (indicati appunto dalla lettera $F$) provenienti nei momenti del transito. $F_{\bigstar}$ è la quantità di energia luminosa osservata nella fase di non transito, normalmente normalizzato a 1, mentre l’altra $F_{transito}$ rappresenta il flusso intercettato nel momento di massimo transito:. la differenza tra i due flussi ( $\frac{\Delta F}{F}=\frac{F_{\bigstar}-F_{transito}}{F_{\bigstar}}$) è uguale alla differenza tra i raggi della stella e del pianeta.

\begin{equation} R_p=R_{\bigstar}\sqrt{\frac{\Delta F}{F}} \end{equation}

Il diagramma (ipotetico) a destra nell’immagine qui sopra mostra che il punto più basso della luminosità è il 99,3% della luminosità totale. Risolvendo questa equazione per questo dato si ha: \begin{equation} \frac{R_{p}}{R_{\bigstar}}=\sqrt{\frac{\Delta F}{F}} =\sqrt{\Delta F} = \sqrt{1-0,993}=\sqrt{0,007}=0,08366 \end{equation}

Conoscendo il raggio della stella, 500000 km, risulta che l’esopianeta ha un raggio di quasi 42 mila chilometri,  quasi il doppio di Nettuno!

Seconda Parte

 

 Errata corrige

Un banale errore di calcolo successiva all’equazione (1) ha parzialmente compromesso il risultato finale dell’equazione (7) e del risultato della ricerca. Il valore della distanza del pianeta dalla sua stella è di 44,6 milioni di chilometri invece dei 35,4 milioni indicati in precedenza. Ci scusiamo con i lettori per questo spiacevole inconveniente prontamente risolto.


Note:

L’indice ESI (Earth Similarity Index)

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Il metodo dei transiti, che è quello usato da Kepler è basato sulla lievissima variazione di luce di una stella dovuta al transito di un pianeta davanti a questa. Per un pianeta come la Terra, il transito davanti a una stella simile al Sole causa una variazione di luminosità pari a soltanto 84 parti per milione. Invece il transito di un pianeta come Giove provoca l'affievolimento della luce della stella di circa l'1-2%. La figura mostra in scala sia un transito di Giove attraverso l'immagine del nostro sole sulla sinistra e un transito terrestre sulla destra. L'effetto della Terra è paragonabile a quello di una pulce che passa sui fari di un'auto visto da diversi chilometri di distanza.Image credit: NASA

Il metodo dei transiti, che è quello usato da Kepler è basato sulla lievissima variazione di luce di una stella dovuta al transito di un pianeta davanti a questa. Per un pianeta come la Terra, il transito davanti a una stella simile al Sole causa una variazione di luminosità pari a soltanto 84 parti per milione. Invece il transito di un pianeta come Giove provoca l’affievolimento della luce della stella di circa l’1-2%. La figura mostra in scala sia un transito di Giove attraverso l’immagine del nostro sole sulla sinistra e un transito terrestre sulla destra. L’effetto della Terra è paragonabile a quello di una pulce che passa sui fari di un’auto visto da diversi chilometri di distanza.Image credit: NASA

Appena la tecnologia lo ha permesso, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla scoperta di nuovi pianeti in orbita attorno ad altre stelle. I primi sistemi planetari rilevati erano anche quelli in cui gli effetti gravitazionali erano più evidenti, come i sistemi con i gioviani caldi o con pianeti in orbite caotiche e retrograde; tant’è che all’inizio si era addirittura supposto che i modelli di formazione planetaria sviluppati per spiegare il nostro Sistema Solare non fossero poi così universalmente validi.
Con l’affinarsi dei mezzi e della ricerca, ecco comparire sistemi planetari un po’ più ordinari e ordinati, simili al nostro. Magari più spesso questi appartengono a stelle un po’ più piccole del Sole – che comunque non è affatto un gigante, semplicemente perché l’influenza di un sistema planetario sulla sua stella è anche in questo caso più facilmente misurabile.
Sono principalmente due le tecniche che hanno permesso, dal 1995 ad oggi, di individuare il maggior numero di pianeti extrasolari: la tecnica delle velocità radiali e quella dei transiti. La tecnica delle velocità radiali misura la variazione della velocità della stella mente si muove attorno al baricentro del sistema stella-pianeta. Infatti, non è corretto dire che il pianeta orbita attorno alla stella: i pianeti orbitano attorno al baricentro comune  del sistema stella-pianeta, un punto che nel caso del sistema Sole-Terra si trova all’interno del Sole e molto vicino al suo centro. Non solo il pianeta orbita attorno al baricentro del sistema, ma anche la stella orbita attorno allo stesso punto. Poiché questo movimento è legato, tramite le leggi di Keplero, alla massa della stella e del pianeta, se si conosce la massa della stella si ricava anche la massa del pianeta.
C’è un problema però: se si osservasse il nostro Sistema Solare dall’esterno e si volesse vedere l’effetto della variazione della velocità radiale della Terra sul Sole si dovrebbe fare una misura della velocità radiale con una precisione di un centimetro al secondo, cosa che al momento non è ancora possibile fare con l’attuale strumentazione. Lo strumento HARPS-N, definito il cacciatore di pianeti extrasolare e montato al Telescopio Nazionale Galileo (TNG), permette di misurare la variazione della velocità radiale delle stelle con una precisone dell’ordine del metro al secondo. Quindi, di fatto pianeti come la Terra attorno a stelle di tipo solare alla distanza Terra-Sole non sono ancora in questo momento identificabili.

L’indice ESI non è universalmente accettato dalla comunità scientifica. Per i pianeti extrasolari confermati, la massa del pianeta indicata spesso ha solo un limite inferiore e non è poi comunque molto precisa. Poi per gli esopianeti indicati da Kepler spesso non c’è una stima della massa ma solo del raggio. D’altra parte, la maggior parte pianeti extrasolari confermati non hanno una stima del raggio. Inoltre, anche la temperatura teorica si basa su ipotesi che potrebbero essere sbagliate anche di centinaia di gradi centigradi. Per finire, nell’attuale formula, l’ESI attribuisce un esponente molto alto alla temperatura col risultato di deviare anche di molto l’indice rispetto al valore effettivo del dato. Questo significa che da uno a tre parametri utilizzati per calcolare l’indice ESI è frutto di supposizioni, calcoli e raffronti col Sistema Solare, senza alcuna evidenza osservativa diretta. Alla luce di queste considerazioni, l’utilità della ESI è certamente discutibile.

La tecnica dei transiti, quella che Kepler ha sfruttato fino al default dei sui giroscopi, è teoricamente una tecnica ancora più efficiente nel trovare pianeti. Però la probabilità di avere un pianeta come la Terra in transito davanti ad una stella come il Sole è dell’ordine dell’1 percento. Inoltre, la diminuzione della luminosità del Sole durante il transito della Terra è meno di 80 parti su un milione per un periodo di appena 8 ore in un anno: una quantità infinitamente piccola in un periodo smisurato di tempo. Questa sensibilità si può ottenere solo con i telescopi spaziali, quelli terrestri sono troppo limitati dalla turbolenza atmosferica.
A  giugno di quest’anno i pianeti extrasolari accertati erano 1795, suddivisi in  1114 sistemi planetari, di cui 461 sono sistemi multipli come il nostro (fonte exoplanets.eu).  Molti di questi sono stati individuati dal fortunato telescopio spaziale Kepler della NASA che ha studiato soltanto un piccolissimo fazzoletto di cielo compreso tra le costellazioni del Cigno e della Lira grande appena 12° quadrati. Una regione  abbastanza vicina al Piano Galattico da potersi ritenere, con le opportune cautele necessarie per un qualsiasi calcolo statistico, abbastanza significativa. È così che Kepler ha potuto studiare oltre 100 ooo stelle comprese tra 600 e 3 000 anni-luce di spazio, portando a supporre che la Galassia ospiti qualcosa come 60 miliardi di pianeti potenzialmente compatibili con la vita.
Come si sia giunti a questo numero è ancora oggetto di dibattito, ma in nocciolo è tutto nel numero delle nane rosse (classi K e M) presenti nella Via Lattea, stimato in almeno 75 miliardi. Anche supponendo che solo il 6 per cento di queste abbia un pianeta compreso nella Fascia Goldilocks si arriva a ben 4,5 miliardi di pianeti considerati biologicamente compatibili. Altri studi sulla sostenibilità planetaria [cite]http://arxiv.org/abs/1307.0515[/cite] fanno lievitare la stima fino a 60 miliardi.
Però dire che ci possono essere fino a 60 miliardi di mondi potenzialmente adatti alla vita e stabilire quali possono esserlo davvero è un altro discorso. Per risolvere questo problema viene in soccorso uno strumento matematico ideato dal Dott. Schulze-Makuch , professore alla School of Earth and Environmental Sciences dell’Università statale di Washington, l’Earth Similarity Index (ESI) – in italiano Indice di Somiglianza alla Terra – che esprime il grado di similitudine tra un qualsiasi pianeta extrasolare – può essere applicato anche ai grandi satelliti naturali  – e la Terra in un valore compreso tra zero (nessuna similarità) e uno (identico alla Terra) [cite]http://online.liebertpub.com/doi/abs/10.1089/ast.2010.0592[/cite]. I parametri dell’equazione vengono calcolati partendo da una o più variabili note, come il periodo orbitale e la distanza del pianeta dalla sua stella. Queste variabili sono ovviamente influenzate dal metodo di osservazione utilizzato, e anche le altre stime successive,  quando non sono conosciute, sono frutto di  calcoli ponderati. Ad esempio, la temperatura della superficie è influenzata da una infinità di altri fattori come l’irraggiamento, l’albedo, l’inclinazione assiale e l’effetto serra atmosferico; quando questa non è conosciuta a priori viene fatto riferimento alla temperatura di equilibrio di irraggiamento.
In sostanza l’ESI è una cifra, o figura, di merito; uno strumento matematico molto usato nell’industria e in ingegneria per indicare un parametro che ne racchiude molti altri. In questo caso però i parametri fondamentali di cui si tiene conto sono indicati nella tabella 1.

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Come vediamo questi parametri sono solo quattro. Si tratta di quattro parametri fisici facilmente ricavabili matematicamente dai dati orbitali della scoperta.

  • Raggio medio
    La scala delle dimensioni dei pianeti extrasolari è pressoché infinita; anche nel nostro Sistema Solare, la Terra è piccola rispetto a Giove e Saturno. Tuttavia alcuni studi suggeriscono che solo i pianeti che hanno un nucleo fluido in rotazione differenziale rispetto al mantello del pianeta possono avere un campo magnetico capace di proteggere la propria ecosfera dal vento stellare e dai raggi cosmici  [cite]http://arxiv.org/abs/1010.5133 [/cite]. Questi dati indicano che pianeti con un raggio superiore a due raggi terrestri possono avere difficoltà a mantenere liquido un loro  nucleo di ferro, mentre altri studi indicano che oltre 1,75 raggi terrestri debbano essere considerati sub-nettuniani i [cite]http://arxiv.org/abs/1311.0329 [/cite]
  • Densità
    Anche le densità che i pianeti extrasolari possono assumere è pressoché infinita. Per appartenere alla classe di Pianeta Roccioso simile alla Terra si considera generalmente una densità compresa tra 0,7 e 1,5 quella terrestre (4,4 -8,3 g/cm3). Questo perché una densità troppo bassa nelle dimensioni indicate, suggerite alla voce precedente, potrebbe indicare un corpo senza un nucleo metallico liquido e quindi senza un campo magnetico ben sviluppato. Questo vale anche per un pianeta troppo massiccio, il cui nucleo cristallizza per la pressione eccessiva  e si ferma.
  • Velocità di fuga
    La velocità di fuga è un parametro fondamentale per stabilire la presenza o meno di una atmosfera planetaria. Anche qui si ritiene che per un pianeta simile alla Terra la velocità di fuga debba poter trattenere gli atomi come l’azoto – e quindi anche il vapore acqueo, l’anidride carbonica e l’ossigeno,  a una temperatura di superficie media compresa tra 0 e 50° Celsius (273-323 K). Questo è un intervallo minimo, ma abbastanza ampio, in cui l’acqua si presenta allo stato liquido e può quindi esercitare il suo ruolo di solvente, funzione fondamentale per la vita.  mentre l’idrogeno, molto più leggero, è libero di disperdersi nello spazio. Pertanto la velocità di fuga di un pianeta compatibile con la vita di tipo terrestre può ritenersi compresa  tra 0,4 e 1,4 volte quelle della Terra (pari rispettivamente a sei volte la velocità di fuga dell’azoto atomico a  -18° C (255 K) e a sei volte quella dell’idrogeno atomico alla medesima temperatura).
  •  Temperatura superficiale
    Credit: Il Poliedrico

    Credit: Il Poliedrico

    La temperatura di equilibrio termico è la temperatura che possiederebbe un pianeta in assenza di una atmosfera e il cui unico fattore di regolazione è rappresentato dall’albedo ed è unicamente dettata della legge di Stefan-Boltzmann 1 e la Legge dell’Inverso del Quadrato. La temperatura di equilibrio della Terra è di soli -18°c che l’effetto serra atmosferico porta a + 15° C.

 

\[

ESI = \prod_{i=1}^n \left(1 – \left| \frac{x_i – x_{i_0}}{x_i + x_{i_0}} \right| \right)^\frac{w_i}{n}

\]

l’equazione dice come questi parametri devono essere utilizzati:

  • x i è il valore del i-esimo parametro planetario (ad esempio la temperatura superficiale)
  • x I0 è il valore del i-esimo parametro planetario di riferimento (la Terra)
  • w i è l’esponente di ponderazione assegnato al i ° parametro planetario (valore arbitrario che indica il valore relativo)
  • n è il numero di parametri planetari trattati

In questo modo vengono definiti tre diversi  indici ESI del pianeta in esame:

  • ESI Interno $\rightarrow ESI_I=(ESI_{r} \cdot ESI_{\rho})^{1/2}$
    Tiene conto del raggio del pianeta (peso dell’esponente = 0,57) e la sua densità (peso dell’esponente =  1,07). Questo indice indica il grado di somiglianza fisica dell’esopianeta alla Terra.
  • ESI Superficiale $\rightarrow ESI_S=(ESI_{ve} \cdot ESI_{Ts})^{1/2}$
    Questo è regolato dai parametri di temperatura della superficie (peso dell’esponente = 5,58) e dalla velocità di fuga (peso dell’esponente =  0,70).
    Questo esprime invece la somiglianza delle caratteristiche ambientali in riferimento alla Terra.
  • ESI Globale $\rightarrow ESI_G=(ESI_{I} \cdot ESI_{S})^{1/2}$
    È il computo basato su tutti i e quattro i parametri nella matrice di calcolo. Pertanto quantifica esattamente quanto un esopianeta sia nel suo complesso simile alla Terra o ‘Earth-like‘ per usare l’espressione anglofona più diffusa.

Riassumendo tutti i dati qui sopra elencati, si deduce che un pianeta per essere considerato simile alla Terra (e l’indice ESI quantifica proprio quanto questo si avvicini) deve essere tra 0,5 e 1,75 raggi terrestri (mantenendo nel caso più grande una densità intorno ai 4,5 g/cm3) e una massa compresa tra 0,1 e 4 volte quella della Terra. Un bel margine che lascia comunque sperare che prima o poi un pianeta davvero molto simile alla Terra si trovi.
Con molta probabilità nel corso dei prossimi vent’anni, grazie alla messa in orbita di nuovi telescopi – quali per esempio Gaia, Cheops e Plato –dotati di una strumentazione più precisa, sarà possibile trovare pianeti dimensionalmente simili alla Terra che orbitano attorno a stelle più simili Sole (classe G) a distanze paragonabili e con indici ESI molto prossimi a 1. E forse saremo anche in grado di rispondere alla domanda: la Terra è l’unico mondo che ospita la vita nell’Universo?


Note:

Materia esotica per le stelle a neutroni

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I componenti della materia sono fatti di leptoni (come l’elettrone e i neutrini) e quark (che costituiscono protoni, neutroni ed altre particelle). I quark sono molto diversi dalle altre particelle. Oltre alla carica elettrica particolare ($\frac{1}{3}$ o $\frac{2}{3}$ quella dell’elettrone e del protone), essi possiedono infatti anche un diverso tipo di carica ​​chiamato colore. Il peculiare meccanismo in cui opera questa carica può aiutarci a far luce su alcuni oggetti astrofisici più esotici: le stelle di neutroni.

Le combinazionii di carica  colore devono produrre un colore neutro (ovvero si devono annullare) per produrre una particella libera dalla Interazione Forte.

Le combinazioni di carica colore devono produrre un colore neutro (ovvero si devono annullare) per produrre una particella libera dalla Interazione Forte.

I quark sono particelle elementari (fermioni,  cioè che obbediscono alla statistica di Fermi-Dirac e  al principio di esclusione di Pauli) che risentono dell’Interazione Forte, una delle 4 forze fondamentali. I mediatori principali di questa forza sono i gluoni, bosoni senza massa come gli analoghi del campo elettromagnetico, i fotoni. Ma a differenza di questi che non hanno carica, i gluoni sono portatori di una particolare forma di carica chiamata colore 1, per analogia al comportamento dei colori primari dello spettro visibile, non perché essi siano colorati. Per il modo in cui la forza forte agisce, è impossibile osservare un quark libero.

La carica di colore  è esapolare, composta cioè da 3 cariche (verde, rosso e blu) e 3 anticariche (anti-verde, anti-rossso e anti-blu) ) che si comportano in maniera analoga ai colori primari: quando la somma delle cariche di colore restituisce un colore neutro, come il bianco, , allora la particella composta è rilevabile. Così si possono avere particelle di colore neutro composte da tre quark con i colori verde rosso e blu chiamate barioni (i protoni e i neutroni sono i barioni più comuni), oppure particelle composte da due soli quark possessori di un colore e il suo corrispettivo anti-colore chiamate mesoni, che svolgono un ruolo importante nella coesione del nucleo atomico. Per l’interazione forte, questi sono solo i più comuni modi per ottenere un adrone. Infatti è previsto che ci siano anche altre combinazioni di carica colore per formarne una di colore neutro. Uno di questi, il tetraquark, combina fra loro quattro quark, dove due di essi hanno un colore particolare e gli altri due posseggono i corrispettivi anti-colori.

LHCb-Z (4430)

La particella$Z (4430)^-$ appare composta da un quark charm, , un anti-charm , un down e un anti-up. I  punti neri rappresentano i dati, la curva rossa il risultato della simulazione dello stato previsto per la $Z (4430)^-$. La  curva tratteggiata marrone indica quello che ci aspetterebbe  in assenza di questa. Questo dato afferma l’esistenza dell’esotica particella con 13,9 σ (cioè che il segnale è 13,9 volte più forte di tutte le possibili fluttuazioni statistiche combinate).

Segnali sull’esistenza di questo adrone esotico si ebbero nel 2007 dall’Esperimento Belle [cite]http://arxiv.org/abs/0708.1790[/cite],  che ricevette il nome di $Z (4430)^-$ 2. Ora questa particella con una massa di $4430 MeV/c^2$  (circa quattro volte quella del protone) è stata confermata dall’Esperimento LHCb di Ginevra con una significatività molto alta (13,9 $\sigma$) [cite]http://arxiv.org/abs/1404.1903v1[/cite]. Questo significa che i quark si possono combinare fra loro in modi molto più complessi di quanto finora osservato 3. Questo è un enorme passo avanti nella comprensione di come si può comportare la materia in condizioni estreme. Barioni e mesoni esotici detti glueball 4 o una miscela di questi può esistere in un solo posto in natura: nel nucleo di una stella a neutroni.

Le stelle compatte inferiori alle 1,44 masse solari sono nane bianche, stelle in cui la pressione di degenerazione degli elettroni riesce a controbilanciare la gravità. Oltre questo limite, chiamato limite di Chandrasekhar, il peso della stella supera il limite di degenerazione degli elettroni che si fondono coi protoni dando origine a una stella a neutroni 5.

quark_star (1)

Credit: NASA/Chandra

Il risultato è una stella fatta da soli neutroni dominata dalla gravità che in questo caso vince sulla repulsione elettrica. Di questo stato esotico della materia degenere non si sa molto di più delle speculazioni teoriche, ma questo potrebbe essere solo l’inizio: si calcola che la densità media delle stelle di neutroni vada da $3,7$ a $5,9 \times 10^{14} g/cm^3$ (un nucleo atomico ha una densità stimata di circa $3 \times 10^{14} g/cm^3$), con la densità passi da circa $1 \times 10^6 g/cm^3$ della superficie fino ai $6$ o $7 \times 10^{14} g/cm^3$ del loro nucleo. Come il limite di Chandrasekhar delinea il limite inferiore di una stella di neutroni, esiste un limite superiore la quale nessun’altra forza riesce ad impere il collassso gravitazionale che porta a formare un buco nero. Questo limite superiore è il limite di Tolman-Oppenheimer-Volkoff. È in questo intervallo di massa che esistono le stelle di neutroni [cite]http://www.scribd.com/doc/219247197/The-maximum-mass-of-a-neutron-star[/cite]. È probabile che solo le stelle di neutroni più leggere siano composte di neutroni degeneri, mentre man mano sale la massa verso il limite superiore la materia di neutroni degeneri ulteriormente in prossimità del nucleo e poi sempre più verso il guscio esterno in un brodo indistinto di quark tenuti insieme dalla gravità che riesce a soppiantare perfino l’interazione forte [cite]http://www.scribd.com/doc/219246949/Nuclear-equation-of-state-from-neutron-stars-and-core-collapse-supernovae[/cite]. Il tetraquark individuato dall’LHC è sicuramente solo il primo di una lunga serie di adroni esotici che può aiutare a comprendere meglio questi stati degeneri della materia che immaginiamo essere al centro di questi minuscoli e compatti resti stellari.


Note:

Segnali di Materia Oscura nei pressi del nucleo galattico

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Una coppia di neutralini si annichila e decade in una pioggia di normali particelle elementari. Credit: Il Poliedrico

Una coppia di neutralini si annichila e decade in una pioggia di normali particelle elementari.
Credit: Il Poliedrico

All’interno del Modello Cosmologico Standard,  la Teoria della Nucleosintesi Primordiale descrive esattamente la composizione [cite]http://www.einstein-online.info/spotlights/BBN[/cite] della materia presente nell’Universo e indica che  l’84,54% di questa è di natura non barionica, cioè non è composta da leptoni e quark ma da una forma di materia totalmente sconosciuta che non possiede alcuna carica elettromagnetica o di colore chiamata WIMP (Weakly  Interacting  Massive  Particle). Questa è una classe di nuove e ipotetiche particelle con una massa compresa tra poche decine e un migliaio di $GeV/c^2$ (un $GeV/c^2$ è circa la massa di un atomo di idrogeno). L’esistenza di queste particelle è stata proposta per risolvere il problema della materia oscura teorizzata dal Modello Cosmologico Standard. L’esistenza delle WIMP non è stata ancora provata con certezza, però alcune delle caratteristiche fondamentali che queste particelle dovrebbero possedere indicano in quale direzione cercare.
L’esistenza stessa delle strutture a piccola scala come le galassie e gli ammassi di galassie esclude che da una fase inizialmente isotropa come quella descritta dalla radiazione cosmica di fondo queste si siano potute evolvere; la presenza di massicce quantità di materia oscura calda ($v >95\%  c$) avrebbe finito invece per dissolverle. Per questo, non escludendone a priori l’esistenza 1, l’esistenza di una sola forma di materia oscura calda è dubbia. A questo punto non resta che ipotizzare una forma di materia oscura che si muove a velocità non relativistiche, fino all’1 per cento di quella della luce.
Il problema nasce con il Modello Standard che non prevede altre forme di materia se non quelle finora conosciute. Per ovviare a questo inconveniente e ad altri problemi irrisolti dal Modello Standard 2 sono state elaborate dozzine di teorie alternative dette Beyond the Standard Model (BSM, ovvero oltre il Modello Standard) che propongono soluzioni – almeno in parte – i problemi menzionati nella nota e a quello oggetto di questo articolo.

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Un po’ tutte le BSM introducono nuove particelle, una di queste è la Supersimmetria. La Supersimmetria introduce una nuova classe di particelle chiamate superpartner all’interno del classico Modello Standard. Nonostante che il tentativo di identificare questi nuovi partner supersimmetrici – sparticelle – sia per ora fallito, le BSM riescono agevolmente a risolvere i problemi che il Modello Standard non è mai riuscito a superare.
Secondo queste teorie, i fermioni, che costituiscono la materia, hanno come superpartner altrettanti bosoni che trasmettono le forze, mentre i bosoni conosciuti hanno i loro fermioni superpartner. Poiché le particelle e le loro superpartner sono di tipo opposto, il loro contributo energetico al campo di Higgs si annulla.

Dalla tabella qui accanto si nota come per ogni bosone di gauge si ha un superpartner detto gaugino, mentre per il gravitone esiste il gravitino. Il problema essenziale è nella massa di questi superpartner che, almeno in teoria, dovrebbe essere la stessa delle altre particelle normali corrispondenti. In realtà non pare così. Finora nessuno di questi partner supersimmmetrici è stato ancora mai rilevato, tant’è che è stato supposto che anche per le superparticelle sia accaduto un fenomeno di rottura di simmetria, portando di fatto ad avere dei partner supersimmetrici molto più massicci dei loro corrispondenti di quanto ci si aspettasse, oltre il migliaio di $GeV$.
I più promettenti candidati della materia oscura fredda  sono quindi i più leggeri superpartners indicati dalle BSM. Escludendo i superpartners degli elettroni e dei quark che anch’essi dispongono di carica elettrica e di colore, rimangono disponibili lo zino (il superpartner fermionico del bosone Z), il fotino e l’higgsino, tutti altrettanti fermioni 3. Queste sparticelle in sé non sono rilevabili, interagiscono solo con l’interazione debole e la gravità ma possono legarsi tra loro formando una particella esotica molto particolare: il neutralino. In quanto miscela quantistica di diverse altre sparticelle, ne possono esistere fino a 4 tipi diversi di neutralini, tutti fermioni di Majorana e senza alcun tipo di carica, il più leggero dei quali è in genere ritenuto stabile. Il fatto che i neutralini  siano fermioni di Majorana è molto importante, perché dà in qualche modo la chiave per rilevarli, se esistono. Essendo sia particelle che antiparticelle di loro stessi, esiste la possibilità che due diversi neutralini dello stesso tipo si scontrino e si annichilino di conseguenza. Il risultato è una pioggia di radiazione gamma e di altre particelle elementari come sottoprodotti, esattamente come avviene per le particelle conosciute quando si scontrano  con le loro rispettive antiparticelle [cite]http://arxiv.org/abs/0806.2214[/cite].

 Le mappe a raggi gamma prima (a sinistra) e le mappe a cui è stato sottratto il piano galattico (a destra), in unità di photons/cm2 / s / sr.I telai destra contengono chiaramente significativo eccesso centrale e spazialmente esteso, con un picco a ~ 1-3 GeV. I risultati sono mostrati in coordinate galattiche, e tutte le mappe sono state levigate da una gaussiana 0,25

Le mappe a raggi gamma prima (a sinistra) e le mappe a cui è stato sottratto il piano galattico (a destra), in unità di fotoni/cm2/s/sr.
Le immagini sulla destra mostrano un significativo eccesso centrale e spazialmente esteso, con un picco a ~ 1-3 GeV. I risultati sono mostrati in coordinate galattiche, e tutte le mappe sono state levigate da una gaussiana di 0,25°.

E dove cercare la materia oscura, questi neutralini che ne sono soltanto un aspetto di un panorama ben più ampio? Se la materia oscura è davvero sensibile alla gravità, perché non cercarla dove la gravità è più accentuata, ovvero nei pressi dei nuclei galattici e nelle stelle? Nei pressi dei buchi neri centrali i neutralini sarebbero costretti a muoversi piuttosto rapidamente sotto l’influenza gravitazionale, e quindi anche a collidere e annichilirsi con una certa facilità. Il risultato delle annichilazioni e del loro decadimento successivo dovrebbe essere così rilevabile.
Appunto questo è stato fatto, studiando i dati che in  5 anni di attività il Fermi Gamma-ray Space Telescope   ha prodotto. Un gruppo di scienziati coordinato da Dan Hooper ed altri, ha esaminando i dati forniti dal satellite riguardanti il centro della nostra galassia e creato una mappa ad alta risoluzione che si estende per 5000 anni luce dal centro della galassia nel regno dei raggi gamma [cite]http://arxiv.org/abs/1402.6703[/cite]  [cite]http://arxiv.org/abs/0910.2998[/cite].
Una volta eliminato il segnale spurio prodotto da altri fenomeni naturali conosciuti, come ad esempio le pulsar millisecondo nei pressi del centro galattico, il risultato (visibile nei riquadri di destra dell’immagine qui accanto) è interessante. Qui risalta un segnale attorno ai  31-40 $GeV$ che gli autori dello studio attribuiscono all’annichilazione di materia oscura e dei suoi sottoprocessi di decadimento per una densità di materia oscura nei pressi del centro galattico stimata attorno ai 0,3 $GeV/cm^3$.
Le dimensioni di questa bolla di materia oscura non sono note, i dati di questo studio dimostrano che fino a 5000 anni luce la distribuzione angolare della materia oscura è sferica e centrata sul centro dinamico della Via Lattea (entro ~ 0,05° da Sgr A*), senza mostrare alcun andamento preferenziale rispetto al piano galattico o la sua perpendicolare.
Questo dato non è poi lontano da quello estrapolato da Lisa Randall e Matthew Reece dell’Università di Harvard, che sostengono di aver calcolato le dimensioni e la densità di un disco di materia oscura che permea la Via Lattea [cite]http://arxiv.org/abs/1403.0576[/cite] attraverso lo studio delle periodiche estinzioni di massa avvenute sulla Terra e le tracce di impatto di meteoriti di grandi dimensioni sul nostro pianeta 4. Questo disco avrebbe un raggio di circa 10000 anni luce e una densità di una massa solare per anno luce cubico.
A questo punto potrà essere il satellite Gaia, che mappando il campo gravitazionale della Galassia, potrà accertare o meno l’esistenza di questo o di un altro disco che permea la Via Lattea.

Il lavoro del gruppo di Hooper, che per ora è solo un pre-print, è piuttosto incoraggiante nella sua tesi. Se venisse confermato, o nei dati o da altre osservazioni su altre galassie, potrebbe essere la conferma dell’esistenza della materia oscura non barionica fredda che da anni è stata ipotizzata e finora mai confermata. Intanto, altri lavori [cite]http://arxiv.org/abs/1402.2301[/cite] indicano una debole emissione nei raggi X in altre galassie proprio dove ci si aspetta di trovare le traccie dovute al decadimento del neutrino sterile, un’altra ipotetica particella non prevista dal Modello Standard.
La fine di questo modello? Non credo, semmai sarebbe più corretto parlare di un suo superamento da parte delle BSM. Così come la Meccanica Newtoniana si dimostra comunque valida fino a velocità non relativistiche, e nessuno penserebbe di sostituirla con la Relatività Generale per calcolare ad esempio l’orbita di una cometa, Il Modello Standard rimarrà valido fino a quando non sarà stata scritta una Teoria del Tutto elegante e altrettanto funzionante.


Note:

Altri tasselli al puzzle della massa barionica mancante.

Il quasar UM 287 illumina la più grande nube di gas mai vista nell'Universo.

Il quasar UM 287 illumina la più grande nube di gas mai vista nell’Universo.
Credit: Nature

Oltre che la genesi e l’evoluzione, l’attuale  Modello Cosmologico Standard riesce ad indicare con discreta precisione anche la composizione dell’Universo 1 [cite]http://www.einstein-online.info/spotlights/BBN[/cite].
Nel 1933 l’astrofisico svizzero Fritz Zwicky, dimostrò una importante discrepanza tra la materia visibile e la massa misurata dell’ammasso di galassie della  Chioma 2.
Quello fu solo il primo dei tanti indizi che indicavano un’importante discrepanza tra le stime teoriche basate su leggi matematiche consistenti e i dati osservati.
Purtroppo almeno la metà della materia barionica prevista teoricamente finora è apparsa sfuggire da ogni tecnica di rilevazione diretta 3 4.

Tempo fa illustrai in queste stesse pagine [cite]http://ilpoliedrico.com/2012/09/la-materia-oscura-forse-solo-una-bolla.html[/cite] che enormi bolle di gas caldo (attorno a 1 – 2 milioni di kelvin) circondano le galassie. La massa complessiva di queste bolle è paragonabile a quello attualmente stimato per le galassie al loro centro.
Adesso altri recenti studi [cite]http://pa.as.uky.edu/circumgalactic-medium-and-galaxy-missing-baryon-problem[/cite] hanno rivelato che gli aloni galattici contengono anche una forma di gas molto più freddo (10.000° kelvin).
Gas così freddi non sono direttamente visibili ai telescopi 5 ma  alcuni aloni di questi aloni è stato possibile individuarli grazie all’impronta lasciata sulla luce di lontani quasar che li attraversano.

Il 7 gennaio scorso all’American Astronomical Society è stato presentato uno studio svolto sulla luce proveniente da diversi quasar posti accanto ad altre galassie in primo piano ripresi dal Telescopio Spaziale Hubble. Gli spettri di alcuni di questi oggetti hanno mostrato la presenza di significative quantità di carbonio, silicio e magnesio insieme alla presenza rivelatrice di tracce di idrogeno neutro (H I). Secondo i ricercatori, questo indica la presenza di aloni di gas relativamente freddo che circondano le galassie osservate attraverso la luce dei quasar. Aloni di materiale circumgalattico  freddo che possono contenere importanti quantità (dalle 10 alle 100 volte superiori di quanto finora stimato) di materia ancora nascosta e non conteggiata nelle stime della massa barionica mancante. Il team che ha realizzato questo studio è guidato da  Jessica Werk, astrofisica, dell’Università della California.

Questa sezione grande 10 milioni di anni luce simulazione del primordiale mostra come la materia si fonde in galassie collegate da filamenti di gas rarefatto. Credit: Nature

Una simulazione  del gas primordiale grande 10 milioni di anni luce  mostra come la materia riesce a fondersi in galassie collegate da filamenti di gas rarefatto.
Credit: Nature

All’incirca stessa tecnica è stata usata per osservare la più grande nube di gas conosciuta nell’Universo [cite]2014.14550[/cite]. Questa nebulosa pare essere uno dei filamenti di materia a grande scala del cosmo. Potrebbe essere la prima immagine diretta della ragnatela cosmica che pervade tutto l’Universo.
Gli autori di quest’altra scoperta sono gli astronomi Sebastiano Cantalupo e Xavier Prochaska anche loro dell’Università della California, Santa Cruz, che hanno usato il Keck Observatory, posto sulla cima del vulcano Mauna Kea alle Hawaii. Le immagini mostrano una nube di gas grande 460.000 parsec (1,5 milioni di anni luce) di lunghezza.
Sempre per il Modello Cosmologico Standard, prima della formazione delle galassie, L’Universo conteneva gas primordiale frutto della bariogenesi che disaccoppiò la materia dall’energia e che vide questa prevalere sull’antimateria e materia oscura. La materia oscura, predominante sulla materia barionica ordinaria, si addensò poi in estesi aloni gravitazionali in cui la materia ordinaria sarebbe poi finita per creare le galassie.
Ma come mostrano anche le simulazioni, non tutta la materia, sia la barionica che quella oscura, è finita per creare le galassie. Anzi, molta di questa avrebbe finito per creare la ragnatela tridimensionale che pervade il cosmo che collega tutte le galassie.
In effetti i ricercatori hanno trovato prove dell’esistenza di questi filamenti chiamati WHIM (Warm-Hot Intergalactic Medium), ovvero mezzo intergalattico caldo [cite]http://ilpoliedrico.com/2013/05/il-mistero-dei-barioni-mancanti.html[/cite].

Tutte queste nuove forme di materia -barionica – finora inosservate possono essere la risposta al dilemma della massa barionica mancante? forse è presto per dirlo ma credo di sì. Questa sarebbe un’altra prova della bontà del Modello Cosmologico Standard.


 

Note:

La caratterizzazione delle Super-Terre: Il ciclo geologico del carbonio

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Se credi che una certa cosa possa essere improbabile, almeno cerca di togliere l’impossibile e forse quello che ne rimane è potenzialmente vero.
Se un giorno riuscissimo a scoprire un’altra Terra, è altamente improbabile che questa presenti uno stadio evolutivo simile al nostro. La Terra è infatti ben lontana dall’essere un sistema statico fin dal momento della sua formazione avvenuta circa 4,6 miliardi di anni fa. Al contrario, per tutto questo tempo ha subito numerosi cambiamenti nella composizione atmosferica, nella temperatura, nella distribuzione dei continenti, senza parlare delle numerose e diverse forme di vita che l’hanno occupata. Tutti questi cambiamenti si sono riflessi nell’aspetto che potrebbe essere visto a distanze astronomiche. Ogni scenario ha avuto la sua firma caratteristica, e adesso saper riconoscere queste impronte in altri pianeti può aiutarci a capire se questi possono essere stati o esserlo nel futuro, potenzialmente abitabili.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Nel corso degli ultimi quattro anni è stato possibile scoprire parecchi pianeti nell’intervallo di massa tra 2 e 10 masse terrestri, quelli che vengono definiti  Super-Terre; alcuni di questi pianeti si vengono a trovare dentro oppure si trovano vicini alla zona di abitabilità della loro stella ospite. Recentemente sono stati annunciati nuovi pianeti delle dimensioni della nostra Terra e della nostra Luna, e questo numero sicuramente aumenterà in futuro.
Le prime statistiche hanno messo in evidenza che circa il 62% delle stelle della nostra Galassia potrebbero ospitare un pianeta delle dimensioni della nostra Terra mentre studi compiuti dalla missione Kepler della NASA indicano che circa il 16,5% delle stelle hanno almeno un pianeta delle dimensioni del nostro con periodi orbitali fino a 85 giorni.
Per poter caratterizzare queste esoterre scoperte dobbiamo prima di tutto dare uno sguardo al nostro Sistema Solare e ai suoi pianeti. La Terra è per ora l’unico pianeta conosciuto in cui esiste la vita; di conseguenza le osservazioni del nostro pianeta saranno una chiave fondamentale per lo studio e la ricerca della vita altrove.

Intanto, poter definire come un pianeta sia potenzialmente vivibile non è affatto facile, ci sono talmente tante condizioni al contorno da soddisfare che non è facile considerarle tutte. Una di queste impone che per sostenere la vita come la conosciamo, un pianeta debba permettere all’acqua di esistere allo stato liquido sulla sua superficie. Indicativamente, e forse in modo piuttosto semplicistico, spesso questa condizione viene identificata come la fascia – o zona – Goldilocks, quella zona né troppo lontana e né troppo vicina alla stella dove la radiazione consente all’acqua di esistere allo stato liquido su un pianeta. Quindi si tratta solo di un mero dato orbitale che ben poco ha a che vedere con la realtà: ad esempio, sulla Luna la presenza di ‘acqua allo stato liquido non è possibile anche se ne esiste una certa quantità allo stato solido (ghiaccio); eppure condivide con la Terra la stessa zona di abitabilità.

Quello che veramente occorre ad un pianeta perché possa essere considerato potenzialmente vivibile è un ambiente abbastanza stabile nel tempo che non sia soggetto a parossismi orbitali che periodicamente farebbero congelare o arrostire la sua superficie e un ambiente abbastanza ricco di energia da poter essere sfruttata dalle forme di vita. Se per risolvere il primo caso basta che l’eccentricità dell’orbita del pianeta sia prossima a zero, per il secondo caso il discorso si fa un attimino più complicato: occorre che la pressione ambientale consenta all’acqua di mantenere lo stato liquido in un ampio spettro di temperature e un meccanismo che garantisca che anche la temperatura sia più o meno stabile all’interno di questo intervallo 1 .

Il ciclo geologico del carbonio

Per la sua capacità di trattenere la radiazione infrarossa, l’anidride carbonica è un importante termoregolatore per la superficie di un pianeta 2.
Il modo in cui questa molecola riesce a passare dall’atmosfera al mare, al fondale marino e poi di nuovo all’atmosfera è affascinate, anche se richiede molto tempo e un prerequisito essenziale: la presenza di una tettonica a placche [cite] http://ilpoliedrico.com/2013/07/venere-e-terra-gemelli-diversi.html [/cite].

In questo ciclo alcune molecole di anidride carbonica ($CO_2$) atmosferica si disciolgono nell’acqua ($H_2O$) 3 formando acido carbonico .

\[
CO_2 + H_2O \rightleftharpoons H_2CO_3
\]

Un meccanismo molto efficace e che deve essere stato senz’altro presente fin dalle prime fasi della costituzione di una crosta solida è la pioggia. La pioggia ha anche un altro compito importante nell’evoluzione planetaria: desaturando un’atmosfera primordiale ricchissima di vapore acqueo 4 rafforza il processo di raffreddamento della superficie e facilita lo scorrimento delle prime zolle tettoniche necessarie per l’ultima fase del ciclo del carbonio.
Adesso l’acido carbonico disciolto nell’acqua è libero di dissolversi nelle rocce con cui viene a contatto, siano esse quelle esposte alle precipitazioni o i fondali marini. Una reazione che potrebbe essere piuttosto comune è la seguente, dove i silicati di calcio ($CaSiO_3$) svolgono un ruolo fondamentale nel ciclo:

\[
CaSiO_3 + 2H_2CO_3 \rightarrow Ca^{2+} + {2HCO_3}^{-} + H_2SiO_3
\]

tutti i membri di destra, gli ioni di calcio ($Ca^{2+}$), gli ioni  di idrogenocarbonato (${2HCO_3}^{-}$) 5 e l’acido silicico ($H_2 SiO_3$) sono ancora soluzioni acquose che potrebbero finire negli oceani.
Ben presto l’idrogenocarbonato viene a trovarsi in equilibrio con l’anidride carbonica disciolta nell’acqua secondo la seguente formula:

\[
{2HCO_3}^{-} \rightleftharpoons {CO_3}ì{2-} + H_2O + CO_2
\]

Quando la concentrazione di ioni carbonato (${CO_3}^{2-}$) aumenta, questi interagiscono con gli ioni di calcio visti prima e precipitano sotto forma di carbonato di calcio ($CaCO_3$) creando così minerari come la calcite e l’aragonite.
Questo è solo un esempio di come il carbonio atmosferico riesca a passare dalla forma gassosa nell’aria alla forma solida nella crosta planetaria. Il ruolo fondamentale di questo meccanismo è la presenza dell’acqua come solvente che ne consente il transito.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Rappresentazione artistica di un pianeta potenzialmente abitabile.

Il risultato di questo scambio sono minerali come la calcite che testimoniano la sottrazione del carbonio dall’atmosfera e che possono finire sepolti anche molto in profondità, al di sotto delle zolle tettoniche. Da qui poi, grazie all’attività vulcanica, il carbonio intrappolato nelle rocce potrebbe tornare di nuovo nell’atmosfera.
Se il meccanismo di sottrazione del carbonio dall’atmosfera dovesse venir meno per un calo eccessivo della temperatura globale, il naturale degassamento della crosta e del mantello tramite l’attività vulcanica dovrebbe far aumentare la concentrazione di $CO_2$ atmosferica e di conseguenza la temperatura. Altresì, un aumento eccessivo della temperatura dovrebbe permettere una maggior efficienza dei meccanismi di estrazione e quindi all’abbassamento di questa 6.
Il meccanismo del ciclo geologico del carbonio è complesso e comunque i suoi tempi di risposta sono piuttosto lunghi. Penso piuttosto a come l’equilibrio tra solvente (l’acqua del pianeta) e soluto (anidride carbonica) possa già di per sé portare ad una sottrazione dei due maggiori gas serra dall’atmosfera planetaria e alla stabilizzazione verso il basso della temperatura planetaria quando le condizioni ambientali consentono l’innescarsi di questo processo.

(continua …)


Note:

Il terribile equivoco del cianogeno

Buffo! Di solito ci attendiamo una corretta informazione dai siti scientifici ma a volte, rare volte, non è così.

La cometa di Halley al suo ultimo passaggio confrontata col suo spettro nel visibile e vicino infrarosso Credit: Uppasala University per lo spettro e NASA/W. Liller per l'immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

La cometa di Halley al suo ultimo passaggio confrontata col suo spettro nel visibile e vicino infrarosso. Credit: Uppasala University per lo spettro e NASA/W. Liller per l’immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

Tutto probabilmente nacque intorno al 1910, durante il penultimo ritorno della Cometa di Halley, quando gli scienziati resero pubblici i loro sospetti derivati da una scienza ancora agli albori, la spettroscopia: secondo i loro dati la coda della cometa conteneva elementi tossici come l’arsenico (As) e gas cianogeni  1. Ovviamente questo non avrebbe comportato alcun  problema per i terrestri, grazie alla protezione svolta dall’atmosfera e all’esigua densità della coda della cometa 2. Ma intanto alcuni venditori senza scrupoli approfittarono della notizia per vendere – e arricchirsi – inutili maschere antigas 3.

Durante il suo ultimo passaggio, nel 1986, la Halley si mostrò come nella prima immagine: aveva un colore abbastanza neutro che virava leggermente verso il violetto nella chioma di polveri e una coda di gas di un blu discreto.

Credit: ESO

Credit: ESO

Osservando lo spettro nella zona ultravioletta e violetta tra i 332 e i 432 nm si notano alcune righe di emissione:  all’estremo dello spettro visibile  4 e un’altra poco più giù attorno ai 420 nm. Altre righe importanti sono quelle prodotte dal radicale ossidrile (OH), il monossido di carbonio (CO) e il carbonio triatomico (C3).

E infatti la coda di gas ionizzato blu pallido lo conferma: i suoi colori sono quelli dei gas appena citati: cianogeno, radicale ossidrile, monossido di carbonio e carbonio triatomico.

La cometa Lemmon.confrontata col suo spettro. Credit: RobK di Bright, Vic, Australia per lo spettro e anonimo per l’immagine. Rielaborazione: Il Poliedrico

La cometa Lemmon.confrontata col suo spettro.
Credit: RobK di Bright, Vic, Australia per lo spettro e anonimo per l’immagine.
Rielaborazione: Il Poliedrico

Adesso torniamo ai giorni d’oggi e alla stupenda – per chi è riuscito a vederla – C/2012 F6 (LEMMON) dello scorso marzo.
Dallo spettro di questa cometa è evidente che del radicale cianogeno non ce n’è traccia, né a 380 nm, né ai 420 nm. Piuttosto qui il verde brillante della chioma è dato dalle intense righe del carbonio biatomico (C2).
Lo stesso errore viene ancora oggi commesso riguardo la C/2012 S1 (ISON) che – nel momento in cui scrivo – emette molto poco a 380 nm, mentre le righe del carbonio biatomico a 440 e a 520 nm sono più pronunciate, come evidenzia il primo spettro:


Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) l'11/10/2013

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) l’11/10/2013 Credit:  astrosurf.com

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) il 24/10/2013

Lo spettro di C/2012 S1 (ISON) il 24/10/2013  Credit: astrosurf.com

Credit: Wikipedia

Nel secondo spettro anche se la riga del radicale cianogeno appare molto più pronunciata del primo, il contributo di questa emissione al colore complessivo della cometa non appare evidente, come si può facilmente notare dalle innumerevoli immagini in Rete della cometa in quei momenti. Questo perché il picco di sensibilità dell’occhio umano raggiunge il massimo proprio tra i 500 e i 600 nm, giusto dove anche l’emissione del carbonio biatomico è più elevata.
Invece, tornando alla Halley del 1986, le emissioni del carbonio biatomico ionizzato erano trascurabili, tanto da far risaltare la scia azzurrognola e violetta delle emissioni di CN.
Eppure Spaceweather.comAPOD della NASA e via di seguito molti altri siti che si occupano di astronomia fanno, e hanno fatto tutti lo stesso errore; attribuire indistintamente l’aspetto verdastro di una cometa al cianogeno. Su questo tema il dibattito su alcuni forum astrofili oltreoceano è acceso, tant’è che anche un astronomo e divulgatore scientifico come Phil Plait ha riconosciuto l’equivoco 5.

Colore
Lunghezza d’onda
Violetto 380–435 nm
Blu 435–500 nm
Ciano 500-520 nm
Verde 520–565 nm
Giallo 565–590 nm
Arancione 590–625 nm
Rosso 625–740 nm

Probabilmente la spiegazione a questa errata interpretazione è molto più banale di quanto si pensi:  una riga di emissione (spesso la più intensa) del carbonio biatomico è fra i 510 e i 520 nm, proprio nel mezzo della fascia di colore che comunemente attribuiamo al colore ciano!
Molto probabilmente a partire dai tempi della scoperta dei composti cianogeni nella coda della Cometa di Halley, qualcuno in passato ha erroneamente associato il termine cianogeno col colore ciano e l’errore poi si è tramandato nel tempo e nessuno l’ha poi più corretto.

Quindi, anche se pare diventata affermazione comune associare il verde brillante della chioma di una cometa con i radicali cianogeni, questi non ne hanno alcuna responsabilità, la colpa è tutta del carbonio biatomico emesso dalla cometa che si ricombina attorno ai 520 nm.
Spargete la voce.


Bibliografia:

 

  1. Ji Hye Lee, Tae Yeon Kang, Hyonseok Hwang, Chan Ho Kwon, Hong Lae Kim, “Photodissociation Dynamics of Cyanamide at 193 nm: The CN Radical Production Channel”, Bulletin Of The Korean Chemical Society 29, 1685-1688 (2008).[08LeKaHw.CN
  2. David G. Schleicher, “THE FLUORESCENCE EFFICIENCIES OF THE CN VIOLET BANDS IN COMETS”, Astronomical Journal140, 973-984 (2010). [link to article][10Scxxxx.CN]
  3. M. Kleine, S. Wyckoff, P. A. Wehinger, B. A. Peterson, “THE COMETARY FLUORESCENCE-SPECTRUM OF CYANOGEN – A MODEL”, Astrophysical Journal 436, 885-906 (1994). [link to article][94KlWyWe.CN]
  4. Atlas of cometary spectra, Institut d’Astrophysique et de Géophysique de l’Université de Liège, Allée du 6 Août, 17 – Bât B5cB-4000 Liège 1, BELGIQUE E-Mail : hyperion@astro.ulg.ac.be

 

L’equilibrio idrostatico nelle atmosfere planetarie

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Cercare altre forme di vita complesse al di fuori del nostro pianeta non può prescindere dal cercare innanzitutto habitat anche solo potenzialmente adatti; per questo ho in passato affrontato temi importanti come la stima della CHZ (Circumstellar Habitable Zone), dello spessore delle atmosfere e della necessità di un campo magnetico planetario adeguato a protezione di queste. Solo il tempo e nuovi strumenti di indagine potranno aiutare ad individuare questi habitat alieni, io mi limito solo a indicare, anche col vostro prezioso contributo di commentatori, quali condizioni a contorno sono necessarie – allo stato attuale delle conoscenze – affinché un habitat sia potenzialmente adatto alla Vita.

equilibrio idrostatico

Gli strati di una atmosfera e il loro equilibrio idrostatico.
Credit: Il Poliedrico

Dopo avere visto quali meccanismi sono alla base della genesi di una atmosfera planetaria e quali altri elementari meccanismi regolano il suo spessore, adesso è giunto il momento di affrontare il tema forse più ostico di tutti: quali sono le condizioni fisiche di una atmosfera.
Queste condizioni non sono solo dettate dalla cruda composizione chimica ma anche dai valori di temperatura, densità e pressione presenti.
Ad esempio dalla stima della pressione è possibile ipotizzare la presenza di acqua in fase liquida sulla superficie di un pianeta per un dato intervallo di temperature sopra il suo punto di congelamento 1, una delle diverse condizioni a contorno – probabilmente – necessarie alla nascita e allo sviluppo della Vita.
La temperatura è l’energia cinetica delle particelle, più essa è alta e più velocemente gli atomi – oppure le molecole – si muovono, mentre per la densità dei gas di solito ci si riferisce al numero delle particelle per unità di volume.
La pressione di un gas è la quantità di forza esercitata su una superficie per unità di area dalle sue particelle costituenti 2 che si muovono in modo del tutto casuale e la cui velocità è proporzionale alla temperatura del gas.
Riassumendo questo concetto in termini puramente matematici scriveremmo:
\[
P_{ressione}=\frac{F_{orza}} {A_{rea}}
\]
In pratica potremmo considerarlo il peso dell’aria su una superficie al livello del mare: un chilogrammo per centimetro quadrato sulla Terra, su Venere sarebbero 92 Kg/cm2 (92 bar) e così via 3.

Questi tre parametri apparentemente così diversi sono in realtà legati 4 da una equazione di stato, la Legge dei Gas Perfetti. Adesso in natura non esiste un’atmosfera che sia un Gas Ideale, ma molti gas reali, quali azoto, ossigeno, idrogeno etc. possono essere considerati con buona approssimazione come Gas Perfetti.
Per questa legge, un raddoppio di temperatura o un raddoppio della densità di un gas porta al raddoppio della sua pressione 5.

spinta idrostatica piccolaMa come abbiamo visto nel precedente articolo, la gravità svolge un ruolo determinante per determinare lo spessore, e quindi il volume, di una atmosfera. La gravità attrae verso il suo centro tutte le sue particelle – potremmo dire verso il basso – mentre l’agitazione termica delle particelle le si oppone.
Con un volume ben definito, possiamo immaginare una atmosfera come un qualsiasi sistema (recipiente) chiuso. Qualsiasi variazione nella densità o nella temperatura di una atmosfera quindi si riperquoterà sulla sua pressione. Ma esiste un equilibrio ben preciso che lega la pressione di un gas alla forza di gravità: si chiama equilibrio idrostatico 6.
Come mostra la figura qui accanto, alla gravità si oppone una forza chiamata gradiente di pressione verticale. Una particella a una certa quota è sovrastata da un numero minore di altre particelle rispetto a una che è al suolo, per cui la pressione esercitata su di essa dalle altre decresce con l’aumentare dell’altezza. Questo spinge i gas a salire, cioè a passare da dove la pressione è maggiore verso quote dove la pressione è minore, opponendosi alla forza di gravità. Quando le due forze opposte si bilanciano si parla appunto di equilibrio idrostatico. Questo processo suddivide l’atmosfera in strati di diversa pressione e temperatura – e per certi versi anche di composizione chimica –  diversi tra loro.
Matematicamente avremmo:
\[
F_P=\Delta P \cdot A
\]
Dove $\Delta P$ è la differenza tra la pressione inferiore e quella superiore di uno strato mentre $A$ è la sua area analizzata. Invece la forza di gravità è data da:
\[
F_G = -m \cdot g
\]
dove $g$ è l’accelerazione di gravità del pianeta considerato 7 e $m$ la massa dello strato di atmosfera considerato. Se l’equilibrio idrostatico si ha quando $F_P=F_G$ e se $\Delta z$ è lo spessore dello strato indicato di densità $p$ allora:
\[
\Delta P \cdot A = -p \cdot A \cdot \Delta z \cdot g
\]
ossia
\[
\frac{\Delta P} {\Delta z} = -p \cdot g
\]
Ovviamente questa trattazione matematica è sui generis, non tiene conto di migliaia di altri fattori come l’insolazione, i moti verticali nel fluido atmosferico, la Forza di Coriolis, i venti etc. Semplicemente dice quanto la pressione – legata al prodotto tra la densità dello strato $p$ e $g$ – vari di una certa quantità $\Delta P$ al  variare di una certa quota $\Delta z$.

Con questo articolo non si conclude certo l’argomento trattato, ossia le atmosfere planetarie, ma aggiunge un altro tassello al complesso mosaico della planetologia nella speranza che un giorno potremo veramente studiare una vera atmosfera di un esopianeta roccioso. Spero che questa mia fatica ricompensi voi lettori a leggerla quanto me a scriverla.


La genesi delle atmosfere planetarie

Nello scorso articolo ho mostrato come lo spessore di una atmosfera planetaria sia sostanzialmente il risultato di un compromesso tra due forze opposte: la velocità di fuga e la velocità molecolare dei gas che la compongono. Ma per comprendere questa componente essenziale di un pianeta occorre capire come si forma.

In questa immagine del 2007 ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale si può vedere un riflesso del Sole sull'Oceano Pacifico. Questo è quello che gli astronomi tentano di rilevare. Credit: NASA

Questa immagine è stata ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale nel 2007 e mostra parte dell’Oceano Pacifico. Le nubi e l’acqua liquida rendono questo pianeta perfetto per ospitare la vita. Credit: NASA

Una atmosfera planetaria è governata principalmente da due forze contrapposte. Il risultato finale è una stratificazione dei gas che la compongono: gli elementi più pesanti e lenti occupano gli strati inferiori, contribuendo così in maniera determinante alla composizione chimica dell’atmosfera al suolo mentre quelli più leggeri – e veloci – determinano la chimica degli strati superiori.

Però purtroppo questi indizi di per sé importanti non dicono poi molto sulla composizione chimica finale che dovremmo aspettarci in un pianeta. Per quello, per ora, l’unico modo che abbiamo per cercare di capire la composizione di un’atmosfera è quella di rifarsi alla storia del nostro Sistema Solare e alle teorie più accreditate sulla formazione dei sistemi planetari 1.

La cattura nebulare

I pianeti rocciosi del nostro Sistema Solare si formarono in una zona densa e calda (circa 700-1000 Kelvin) del disco protoplanetario 2, ricca di elementi chimici pesanti – ne è la prova la densità media dei pianeti stessi – e piuttosto povera di quelli più leggeri 3. Questo significa che di elementi e composti gassosi sopravvissuti alla fase di formazione planetaria ce n’erano davvero ben pochi e le primitive atmosfere composte prevalentemente da idrogeno scomparvero appena il Sole iniziò a brillare quasi 5 miliardi di anni fa. Queste tenui atmosfere vennero spazzate via dal vento stellare che ripulì – e raffreddò – l’appena nato sistema planetario, mentre i precursori degli attuali pianeti continuarono a raccogliere i grumi di materia ormai solida che incontravano durante la loro orbita. Quei grumi, conosciuti come materiale asteroidale, ogni tanto giungono ancora oggi sulla Terra e li chiamiamo meteoriti.

Il degasaggio durante l’accrezione

Questo meccanismo è una via di mezzo tra la cattura nebulare e il degassamento tettonico. La cattura dei corpi minori che si erano solidificati dopo l’accensione della stella da parte dei protopianeti maggiori, continuò per svariati milioni di anni, seppur in maniera decrescente con l’andar del tempo 4.
Molti di questi corpi avevano incorporato e protetto dalla radiazione stellare parte del gas nebulare, altri avevano incorporato alcuni composti particolarmente volatili come ioni ossidrili (OH), acqua, carbonio, zolfo e cloro nella loro struttura chimica, altri ancora potevano aver intrappolato i composti volatili con entrambi questi metodi.
Questi corpi una volta catturati dai protopianeti avrebbero potuto liberare parte o tutto il materiale più volatile in loro possesso dando luogo a una primitiva atmosfera.

Il degassamento tettonico

I pianeti appena formati erano molto caldi, oltre il punto di fusione delle rocce. Questo era dovuto principalmente sia al continuo impatto dei corpi minori sulla loro superficie, che ai fenomeni di decadimento radioattivo degli isotopi pesanti che i pianeti avevano catturato durante il loro processo di formazione. Iniziò quindi un processo di differenziazione planetaria che portò alla separazione degli elementi chimici più pesanti da quelli più leggeri 5 e all’avvio di imponenti fenomeni tettonici che liberarono enormi quantità di gas come vapore acqueo, anidride carbonica, idrogeno, acido cloridrico, ossido di carbonio, zolfo e azoto, molto simili ai gas che ancora oggi i vulcani terrestri ancora emettono.

Nel Sistema Solare

Diagramma di fase dell'acqua. La possibilità dell'acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali. Fonte dell'immagine: Wikipedia.

Diagramma di fase dell’acqua.
La possibilità dell’acqua di rimanere allo stato liquido a pressioni molto elevate le consente di svolgere il ruolo di lubrificante delle placche continentali.
Fonte dell’immagine: Wikipedia.

Restando all’interno del Sistema Solare, Mercurio, che oltre ad essere il più piccolo pianeta roccioso del sistema, è anche il più vicino al Sole e ha la densità più alta di tutti: 5,43 g/c3. Non possiede una  atmosfera imponente come Venere e Terra, ma neppure come Marte che, nonostante sia il doppio come dimensioni, ha una gravità superficiale – e quindi una velocità di fuga – molto simile. Infatti la pressione superficiale al suolo di Mercurio è appena 10-15 bar, mentre quella di Marte è ben più importante: 0,006 bar!
Venere e Terra sono molto simili come dimensioni, massa e densità. Eppure Venere ha una gigantesca atmosfera ipersatura di anidride carbonica mentre la Terra, fortunatamente per noi ora, no. Venere è più vicina al Sole e il suo periodo di rotazione è ora di oltre 116 giorni terrestri. Sicuramente questo non è stato sempre così, la possente atmosfera e l’azione mareale del Sole su di essa hanno agito da freno sul pianeta. Su Venere l’acqua che veniva rilasciata dai fenomeni tettonici e quella catturata dalle comete non è riuscita a liquefarsi e a catturare l’anidride carbonica dall’atmosfera facendola precipitare come carbonato sul fondo degli oceani. Niente acqua liquida alla superficie vuol dire che anche l’attività di subduzione si è progressivamente fermata. Questo significa che anche il ciclo di trasporto del carbonio nel mantello del pianeta si è fermato e il calore interno adesso viene trasportato solo da fenomeni parossistici di vulcanismo che rilascia ancora ingenti quantità di altri gas serra come anidride carbonica e vapore acqueo rimasti intrappolati nel mantello dal tempo della sua formazione. Ecco perché Venere ha una atmosfera composta perlopiù da anidride carbonica (il 95%) all’incredibile pressione di 92 bar e a circa 730 Kelvin di temperatura al suolo!
Per la Terra non ho molto da dire, ho già descritto la storia della sua atmosfera in passato 6, senonché la maggiore distanza dal Sole ha permesso qui all’acqua di liquefarsi e di sottrarre l’anidride carbonica dall’aria. L’acqua liquida è arrivata fino alla parte superiore del mantello dove ha così potuto mantenere attiva la dinamica della tettonica a zolle che ha dissipato buona parte dell’energia dovuta al calore interno del pianeta che così non è finita ad alimentare un grande vulcanismo come quello venusiano. In più non dimentichiamo l’importante ruolo che ha svolto la Luna sull’evoluzione della nostra atmosfera. Infatti la Terra è l’unico pianeta roccioso del Sistema Solare ad avere un imponente satellite – Phobos e Deimos di Marte sono solo due asteroidi catturati dal Pianeta Rosso per caso. La Luna ha stabilizzato il piano di rotazione della Terra come se l’intero sistema Terra-Luna fosse un enorme giroscopio, impedendo così all’azione mareale del Sole di dominare la rotazione del nostro pianeta  – come è invece successo a Venere – e al contempo ha sottratto tanta atmosfera proprio con le sua forza di marea. Il risultato è stata una atmosfera un po’ più sottile, una rotazione più stabile e anche il meccanismo della tettonica a zolle si è giovato della forza mareale lunare. Che dalla Sorella Luna forse sia dipesa l’abitabilità – per noi terrestri -di questo mondo probabilmente è un dato di fatto.

Su Marte e la sua atmosfera ho parlato qualche giorno fa, quindi ho poco altro da aggiungere. Marte è troppo piccolo per trattenere una atmosfera apprezzabile, appena 6 millesimi di bar al suolo. Forse però in passato grazie alla sua primordiale attività geologica che ci ha lasciato imponenti edifici vulcani ha potuto pompare abbastanza gas serra per mantenere per un breve periodo – forse qualche centinaio di milioni di anni – l’acqua allo stato liquido. Forse questo breve periodo ha visto nascere la Vita sul Pianeta Rosso, o forse no. Sulla Terra sono passati almeno 600 milioni o forse più prima che le prime forme di vita procariotiche si sviluppassero; e la Terra aveva sicuramente qualche carta in più da giocare rispetto a Marte.

Adesso sappiamo anche come si forma l’atmosfera di un pianeta roccioso, manca ancora cosa aspettarci a grandi linee sulla sua composizione, ma di questo ne parlerò prossimamente. Restate all’erta!