La nascita del Progetto Drake

Il logo del Progetto Drake – Credit: il Poliedrico

Come molti di voi ormai sapranno, da una costola di questo Blog è nato ufficialmente il Progetto Drake.
È per questo motivo che sono stato piuttosto silente in questo mese. Non che gli argomenti di cui trattare mi mancassero, la cronaca scientifica ha sempre qualcosa da ricordare, ma il Progetto Drake mi sembrava qualcosa di molto più importante.

Innanzitutto occorre che vi spieghi cos’è questo progetto e come è nato.

Umby

Curo da diversi anni questo blog  che man di mano si è specializzato nel campo scientifico.
All’inizio volevo parlare di tutto un po’, scienza, politica, poesia etc., tutte cose che io reputo interessanti e di cui mi piace discutere.
Però la mia unica grande passione, l’astronomia, ha finito per prendere il sopravvento. Se sono il Gran Curiosone che sono oggi lo devo a questa disciplina. Per essa mi sono occupato di matematica, fisica, chimica e informatica in quanto mi occorrevano degli strumenti per andare oltre l’imparare le costellazioni o i nomi propri di qualche stella. Ho studiato elettronica  per ascoltare il ciclo solare attraverso la propagazione ionosferica nelle onde corte diventando anche radioamatore e CB 1.
Da autodidatta ho sacrificato tutto me stesso allo studio del Cosmo, era chiaro che anche il mio blog avrebbe seguito questo stesso percorso.

L’Equazione di Drake tenta di dare una risposta scientifica alla domanda più antica del genere umano: Siamo soli nell’Universo?
Questa fu formulata nel 1961 da Frank Drake per stimare quante altre civiltà tecnologiche in grado di comunicare nello spazio possono essere attualmente presenti nella nostra Galassia ed è alla base di molte attività di ricerca come il Progetto SETI (Search for ExtraTerrestrial Intelligence).
Definire le incognite frazionarie della celebre Equazione non è affatto facile, le discipline coinvolte sono tante e le informazioni sono sparse un po’ ovunque nella Rete, nei blog, nei forum o in articoli molto distanti fra loro.
La fisica dei gas, ad esempio, è  importante per definire l’atmosfera di un pianeta, come la presenza di un campo magnetico planetario stabile aiuta a preservarne l’integrità dai venti stellari. Oppure stabilire le condizioni di contorno che una stella deve possedere perché i pianeti non siano fritti dalle sue espulsioni di massa coronale troppo intense e frequenti.

Quello che secondo me occorre  è un posto dove questo genere di informazioni sia disponibile organizzato coerentemente alle incognite elencate da Frank Drake  cinquant’anni in fa.

È per questo che ho pensato il Progetto Drake. Un polo di aggregazione di informazioni, articoli e link che possa essere di aiuto a comprendere scientificamente le incognite frazionarie della celebre equazione e, perché no, aiutare un giorno a definirle.
Potrebbe venir fuori che quando fu scritta nel 1961 alcuni aspetti che oggi riteniamo fondamentali non siano stati compresi o presi in considerazione, o che mancassero del tutto. Questo però potremo scoprirlo solo studiando e collaborando insieme.
Tutti sono invitati a partecipare, anche in maniera occasionale. La scienza è anche questo, partecipazione e fare partecipi gli altri delle proprie conoscenze 2.


Come osservare gli oceani extrasolari

Tra la fine del XX secolo e questo decennio la ricerca dei pianeti extrasolari si è affermata a tal punto che oramai è quasi routine, ovvero non fa quasi più notizia, la scoperta di un nuovo pianeta che orbita attorno a qualche stella più o meno vicina.
Addirittura in qualche caso è stato possibile osservare la luce riflessa del pianeta e a misurarne la composizione  1 ma c’è già chi pensa che sia giunto il momento di andare oltre.

I primi pianeti extrasolari che furono scoperti erano enormi pianeti grandi quanto o più di Giove che possedevano orbite strettissime attorno alla loro stella tanto che il loro periodo di rivoluzione era solo di qualche giorno 2. Questo rendeva le loro atmosfere arroventate, sopra i 1300 Kelvin. Per loro fu coniato il termine Gioviani Caldi.
Le tecniche di osservazione e gli strumenti non erano così precisi e creati ad hoc come quelli attuali, per questo all’inizio dell’era dei pianeti extrasolari i primi che furono scoperti erano solo Gioviani Caldi: le perturbazioni stella-pianeta sul loro baricentro comune erano talmente ampie da essere rilevate anche allora.
Questo sconvolse un attimino gli scienziati a tal punto che qualcuno suggerì anche di rivedere le teorie sulla formazione dei sistemi planetari alla luce delle nuove e inattese scoperte.
Nuovi metodi di indagine e  nuovi strumenti, come ad esempio il telescopio spaziale Kepler, hanno scoperto nuovi sistemi solari più simili al nostro, dimostrando che dopotutto probabilmente l’attuale teoria del collasso di una nube protoplanetaria è la spiegazione migliore che abbiamo per spiegare l’esistenza dei sistemi planetari.

Comunque anche oggi è difficilissimo trovare un  Pianeta extrasolare con le caratteristiche simili alla Terra 3, ossia la distanza giusta, un’orbita quasi circolare – necessaria perché le escursioni termiche non siano eccessive tra un punto e l’altro dell’orbita, e la massa giusta per trattenere una atmosfera consistente 4 tale da permettere all’acqua di esistere allo stato liquido per un’ampia scala di temperature 5.
Questo perché ancora le perturbazioni al baricentro comune o le variazioni di luminosità indotte dal transito di un corpo come la Terra alla giusta distanza dalla sua stella è ancora al limite degli attuali strumenti, tanto più che occorrono diversi anni di misurazioni per ogni singola stella per ottenere dei risultati sicuri 6.

In questa immagine del 2007 ripresa dalla Stazione Spaziale Internazionale si può vedere un riflesso del Sole sull’Oceano Pacifico. Questo è quello che gli astronomi tentano di rilevare. Credit: NASA

L’importanza di scoprire l’acqua allo stato liquido su un pianeta extrasolare è  indubbia: quasi sicuramente dove c’è acqua può esserci vita.
E come ho accennato, c’è già chi si spinge oltre e pensa a come si possa individuare  la presenza di acqua liquida su questi lontanissimi pianeti – ancora da scoprire, è bene ricordarlo.

Il metodo studiato dal team di scienziati guidati da Nicolas Cowan della Northwestern University propone di rilevare la presenza di acqua su un esopianeta, sembra banale dirlo, tramite la riflessione speculare, ovvero il riflesso degli eventuali oceani.
In pratica ci si aspetta un aumento dell’albedo più la porzione del pianeta è illuminata dal suo sole. Questo perché gli oceani si comportano come giganteschi specchi se illuminati da certi angoli piuttosto che altri 7.

La falce di Venere ripresa l’8 luglio 2012. Credit: Il Poliedrico

I possibili metodi per rilevare questi oceani extrasolari sono essenzialmente tre.
Il primo metodo si basa sul fatto che gli oceani sono molto più scuri e hanno colori diversi 8 rispetto a qualsiasi altro tipo di superficie che si suppone che un pianeta roccioso extrasolare possa avere.
Quindi le variazioni di colore che un pianeta extrasolare può mostrare nel tempo a causa della sua rotazione possono indicare la presenza di oceani di acqua liquida.

Il secondo metodo si basa sulla polarizzazione mostrata dalla luce riflessa dagli oceani di acqua liquida rispetto alla luce naturale della stella 9.
Inoltre questo metodo ha anche il vantaggio di esaltare la luce riflessa dagli eventuali oceani del pianeta a discapito della luce naturale della stella.

Il terzo metodo, accennato anche prima, è quello della riflessione speculare degli oceani che riflettono la luce in un modo simile a uno specchio.
Dagli studi del team di Cowan questi riflessi si renderebbero visibili soprattutto quando il pianeta è intorno alla massima elongazione apparente rispetto alla sua stella, quando il suo aspetto assomiglia a quello che chiameremmo Quarto di Luna.
In quel momento infatti la geometria apparente del sistema osservatore-pianeta-stella colloca il pianeta a 90° rispetto alla stella, vicino all’angolo che offre la maggiore riflettività che è di circa 81°  10.
Anche se il bagliore è molto piccolo, un aumento di luminosità anche piccolo vicino alla massima elongazione planetaria può essere la testimonianza della presenza di un oceano di acqua liquida.

Cowan e il suo gruppo ha anche messo in conto la presenza di nubi atmosferiche, dimostrando che i tre mezzi di indagine possono essere efficaci fino a una copertura nuvolosa del 50%; un bel risultato.

Lo studio, accettato per la pubblicazione anche su Astrophysical Journal 11, è sicuramente uno dei primi a suggerire quali potrebbero essere i piani di ricerca successivi alla scoperta di un pianeta della massa giusta nell’orbita giusta.

Una ricerca molto lunga, decennale addirittura. Però sarà una sfida interessante, attualmente al limite delle capacità degli strumenti attuali ma sicuramente alla portata della futura generazione di telescopi come il mastodontico European Extremely Large Telescope  appena approvato dall’ESO.

Ormai non  ci resta che aspettare.


La nuvola di Fantozzi? no, la mia …

Come dice il detto”La fortuna è cieca, la scalogna ci vede benissimo“.
Mi ero preparato da giorni, non avevo accennato niente dell’evento del mese – l’occultazione di Giove da parte della Luna, che fra l’altro si riproporrà solo tra 19 anni – su queste pagine deciso a farvi una sorpresa, che la classica e inopportuna nuvolata mi ha impedito qualsiasi ripresa decente.
Avevo pianificato tutto, una serie di riprese centrate su Giove, corrette per mostrare la magnificenza del Pianeta Gigante con le sue bande e il corteo dei suoi satelliti e la Luna, anch’essa correttamente esposta e messa a fuoco, estese per tutta la durata dell’evento e montate assieme in un time-lapse.

Giove ripreso il 10 settembre 2011. Credit: Il Poliedrico

Come suggerisce la nota legge di Murpy “Se qualcosa può andare storto allora lo farà.“, è quello che poi mi è successo: Alle 03:00 ero prontissimo: il Meade LT6 era allineato correttamente e centrato su Giove che stava per sorgere, solo una lieve correzione al fuoco per riprendere correttamente La Luna e tutto sarebbe stato a posto.
Mi bastava seguire la traccia di Giove in ingresso e aspettare che la Luna uscisse dal campo inquadrato dal telescopio (per questo la DSLR era messa in verticale) per aumentare i tempi di posa per registrare l’uscita dei Pianeti Medicei Europa e di Io.
In post produzione avrei sistemato Giove e i satelliti correttamente esposti nella fase di ingresso in secondo piano rispetto alla Luna  fotogramma per fotogramma, e così sarebbe stato per l’uscita dall’occultazione.
Tutto questo poi sarebbe dovuto essere montato in time-lapse. Un lavorone, vero, ma che avrebbe ben ripagato la notte insonne.

Credit: il Poliedrico

E invece niente! Tutto sonno sprecato!
L’unica fotografia degna di nota è questa scattata alle 03:27 che mostra  Giove che sta per scomparire.
Un seeing pessimo, proprio un V nella scala di Antoniadi 1 prodotto dai forti venti del fronte nuvoloso in arrivo mi hanno impedito di ottenere una perfetta messa a fuoco delle poche immagini che sono riuscito a riprendere.
Questa qui accanto è una delle poche che sono riuscito ad ottenere prima che le nuvole mi impedissero la visibilità dell’intero evento. Mostra Giove un attimo prima di scomparire dietro la Luna, troppo poco per l’ambizioso programma che mi ero disegnato.

Quest’anno mi sono andate tutte male, Venere in mezzo alle Pleiadi (nuvoloso), il transito di Venere sul Sole (l’obbrobrio di cemento qui di fronte)  e ora questo …

Saranno state solo sfortunate coincidenze o la iella esiste veramente? 😛


Le misteriose origini del metano marziano

Continuo ancora a parlare di Marte e dei suoi ancora in gran parte irrisolti misteri. Dopo gli esperimenti biologici delle Viking e del carbonio organico marziano ora tocca al metano che, se nessun marziano ha lasciato i rubinetti del gas aperti, dà non pochi problemi agli scienziati spiegarne per le origini. Fra meno di sessanta giorni Curiosity si adagerà sul suolo del Pianeta Rosso e forse avremo delle risposte più concrete alle nostre domande, o forse ne otterremo di nuove.

Tra pochi giorni il Mars Science Laboratory finalmente arriverà su Marte per cercare di rispondere a tantissime domande che finora le altre missioni precedenti hanno solo scalfito o che hanno prodotto di nuove.
Una di queste è forse poco nota, riguarda la sua atmosfera, o meglio un suo componente: il metano 1.
Nel 2003 – anno della scoperta – la scoperta del metano nell’atmosfera marziana suscitò un vespaio di domande, tanto più che successivamente si scoprì che la sua presenza nella tenue atmosfera di Marte 2  seguiva un andamento stagionale ed era localizzata soltanto in alcune regioni ben precise 3, come la Arabia Terra, la regione Nili Fossae e l’antico vulcano  Syrtis Major, una regione basaltica molto scura 4.

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Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, l’atmosfera di Marte è stracolma di ossigeno, peccato che esso sia spesso combinato con il carbonio – come mostra la tabella.
Tutti gli altri elementi o composti chimici sono presenti in tracce o poco più, tra questi  ci sono  anche questi pennacchi estivi di metano che sono un vero rompicapo per i planetologi.
Il metano nell’atmosfera è chimicamente instabile, la radiazione ultravioletta del Sole lo decompone, e su Marte arrivano un sacco di ultravioletti 5 .
L’origine per  ora è ancora sconosciuta , anche se è improbabile che questi pennacchi siano di origine biologica; stando alla natura altamente localizzata di questi pennacchi dovremmo affermare che la presenza di queste forme di vita siano legate solo ed esclusivamente a certi habitat particolari presenti solo in alcuni siti del Pianeta Rosso e non – come ci dovremmo attendere – su tutto il pianeta e a particolari condizioni climatiche presenti solo in alcuni periodi dell’anno marziano; oppure forse dovremmo pensare che questi siano gli ultimi scampoli di vita 6 in un pianeta ormai morto da eoni.
Un po’ troppe condizioni a contorno secondo me per cui si possa parlare di origine biologica dei pennacchi di metano.
L’altra ipotesi è che ci siano dei depositi di gas intrappolati in profonde valli o nel sottosuolo sotto forma di permafrost o di depositi di clarati idrati 7. Questi depositi potrebbero parzialmente sciogliersi durante l’estate marziana ed essere responsabili dei famosi pennacchi 8.
Infine oppure, il metano di chiara origine abiotica, può essere emesso da una qualche forma  residua di attività vulcanica secondaria, come i resti di antichi camini vulcanici, fumarole o pozzi termali.

Qualunque sia comunque il meccanismo di diffusione del metano marziano, rimane da scoprire la sua origine, ovvero se questo sia di  origine biologica o meno.
Il meccanismo biologico è chiaro, il metano sarebbe il prodotto di scarto dell’attività metabolica di microrganismi che ancora non sappiamo 9 con certezza se esistano o meno.
Il meccanismo abiotico è un po’ più complicato da spiegare. Questa ipotesi vuole che il metano venga prodotto in profondità nella crosta marziana attraverso un fenomeno di serpentinizzazione 10 delle rocce basaltiche 11 12.

Entrambe le teorie sono intriganti dal punto di vista scientifico, possono essere vere entrambe o nessuna delle due, ma quale scegliere?
In mancanza di una prova diretta e definitiva di una una qualche attività biologica su Marte, si possono cercare altri marcatori tipici dei processi di generazione del metano.
Sulla Terra infatti l’attività metabolica dei batteri metanogeni è quasi sempre accompagnata da altre molecole organiche complesse formate da carbonio e idrogeno come l’etano o l’acetilene 13, mentre per il metano di origine vulcanica è quasi sempre accompagnato da anidride solforosa etc.
Quindi riuscire a scoprire quali marcatori secondari sono presenti nei pennacchi di metano può aiutare senz’altro a comprenderne l’origine, ma se nessuno di questi fossero presenti?
Esiste una terza via. La Vita tende a ottimizzare i suoi processi col minor consumo di energia possibile per cui tende ad usare gli isotopi più leggeri degli atomi disponibili in un ambiente.
Quindi c’è da aspettarsi che il metano di origine biologica abbia meno deuterio dell’acqua marziana; se il rapporto isotopico D/H del metano è inferiore a quello dell’acqua, allora ci sono pesanti probabilità che sia trovato un altro indizio sulla presenza di Vita su Marte.


Bosone H° ma cosa c’entra Dio?

  •  Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio…

Umby

Così recita il secondo comandamento dei cristiani – il terzo per gli ebrei, deprecando ogni uso improprio del nome di Dio.
Adesso che cosa c’è di lecito chiamare il bosone di Higgs Particella di Dio?
Che forse tutte le altre, i quark, i leptoni e gli altri bosoni, forse non lo sono?
Se fossi un credente troverei blasfemo  attribuire solo al bosone H° il suddetto nomignolo.
Se non fossi credente troverei immensamente stupido attribuire un significato religioso così importante a una particella per quanto sia così rilevante ha un suo ruolo come le altre  hanno il loro.

Sì, perché per quanto sia importante il ruolo giocato dal bosone H° nell’attribuire la massa a quasi tutte le altre particelle, anche gli altri bosoni sono altrettanto importanti.
I gluoni 1 sono responsabili dell’interazione forte e quindi dell’esistenza dei protoni e neutroni, e della stabilità dei nuclei atomici, senza di essi l’Universo sarebbe soltanto una brodaglia di quark indistinti.
I bosoni W e Z, i mediatori dell’interazione debole,  sono responsabili di tutte le altre attività nucleari, dalla fissione – spontanea o meno – degli atomi fino alle reazioni di fusione nucleare che creano gli elementi all’interno delle stelle; senza di essi non esisterebbero gli elementi chimici che compongono tutta la materia dell’Universo.
E poi che dire dell’altro bosone così evidente e familiare che spesso dimentichiamo che esista, il fotone? Senza di questo non esisterebbero tutti i fenomeni elettromagnetici, non esisterebbero gli atomi, le molecole e quindi noi stessi.

Comprendete quindi quanto sia improprio e blasfemo attribuire il ruolo di Particella di Dio solo al bosone H°, una vera bestemmia.


Bosone di Higgs e altro …

Dopo tanto tempo riesco a scrivere queste due righe. Nonostante i grossi paroloni e i convegni politici sprecati per combattere il digital divide all’italiana 1 la situazione è la stessa di quattro o cinque anni fa. Anche io, come altri milioni di italiani ne sono vittima, a casa non posso neppur lontanamente pensare di lavorare. Chiavette, cellulari o ponti radio sono solo dei pagliativi che hanno la loro ragion d’essere nei momenti di emergenza, non certo per risolvere la cronicità del problema. L’azienda ormai privatizzata – e monopolista di fatto della rete fisica 2 – non investe nella rete, anzi vuole che lo Stato investa per lei, nel frattempo elargisce generosi dividendi agli azionisti limando tutti i costi e le spese rimandando alle mitiche calende greche anche l’ordinaria manutenzione delle linee 3

 

Finalmente ci siamo! Dopo più di cinquanta anni, svariati miliardi di dollari spesi in ricerca e ciclotroni sempre più potenti, almeno quattrocentomila miliardi di collisioni di protoni nel solo LHC, la particella più elusiva di tutte, il Bosone di Higgs, pare proprio sia stata osservata.
Era lì dove gli esperimenti  ATLAS, guidato da Fabiola Gianotti, e CMS, guidato da Guido Tonelli, avevano predetto: intorno ai 125 GeV.

Ora magari qualche benpensante new age – come ho già visto in qualche forum – penserà che i costi di questa scoperta sono troppi, che si sarebbero destinare altrove le risorse etc.
Non sono affatto d’accordo, anche la ricerca pura ha delle ricadute incredibili e impensabili al momento della scoperta. Pensate a Wilhelm Röntgen e i suoi tubi a vuoto che generavano raggi X: senza le sue ricerche non avremmo le radiografie in medicina. Il protocollo http su cui si basa l’odierna Internet fu inventato agli inizi degli anni ’90 al CERN proprio per  permettere agli scienziati di condividere i dati delle loro ricerche scientifiche.  O anche alle pompe cardiache, agli arti artificiali o ai trapani a batteria, tutti prodotti nati dalle conoscenze sviluppate durante il Programma Apollo della NASA che portò gli esseri umani a camminare sulla Luna.

Dimenticavo: i dettagli della scoperta verranno rivelati domani mattina alle 9:00 in una conferenza stampa a Ginevra. Restate in linea!

Nubi nottilucenti, le foto

Credit: I. Dinsbergs from Pape, Latvia on 2012, June 13-14.

Vi ricordate l’articolo del novembre scorso Le nubi nottilucenti e il buco nell’ozono artico?
Lì spiegavo quali possono essere i possibili meccanismi che sono alla base delle nubi mesosferiche, particolari nubi che si formano tra i 50 e i 70 chilometri di quota, anche se non è infrequente che si osservino anche a quote ben più elevate, fino agli 85 – 90 km!
Finora la loro presenza era limitata ai cieli polari, da qui la dizione inglese Polar Mesospheric Clouds, ma questo termine appare quanto mai superato visto che oramai le nubi nottilucenti sono state osservate a latitudini molto più basse, perfino a Bologna 1.

Adesso su Spaceweather  a questo indirizzo è possibile vedere tantissime  foto giunte da ogni parte del mondo a queste sfuggenti nubi, così che sappiate farvi un’idea di cosa cercare in cielo mezz’ora dopo il tramonto (o mezzz’ora prima dell’alba).

Teoria del Tutto e la fine del Tempo

Abbiamo visto in passato 1 che le stime della materia barionica presenti nelle galassie erano fortemente sottostimate, mentre adesso forse è il caso di interpretare in maniera diversa i dati che richiedono l’apporto della misteriosa Energia Oscura per spiegare l’attuale stato dell’Universo.

 

Nella vita quotidiana non ci facciamo quasi caso: il Tempo esiste e scorre in una unica direzione, al contrario delle altre tre dimensioni spaziali, altezza lunghezza e profondità, che però possiamo esplorare avanti e indietro a piacere.
Nei secoli il concetto di tempo immutabile si è talmente radicato nel sentire comune che quando arrivò Minkowski nel 1908 con la sua idea di spazio e di tempo indissolubilmente legati e che il tempo è uguale solo per sistemi inerziali uguali (a riposo reciproco) ben pochi comprendesero immediatamente ciò che questo assioma volesse dire.

Negli anni 20 del secolo scorso Edwin Hubble si accorse che le altre galassie più erano lontane, più si allontavano velocemente da noi. Siccome guardare lontano nello spazio significa anche guardare indietro nel tempo,  è come se lo spazio tra le galassie aumentasse in proporzione alla loro distanza: in altre parole lo spazio-tempo si espande 2.
Un esempio che mi piace fare 3 è quello del panettone che lievita: se la distanza relativa fra due canditi è inizialmente piccola, lo rimarrà in proporzione anche dopo la lievitazione, mentre due chicchi opposti vedranno la loro velocità di allontanamento aumentare proporzionalmente.

Credit: Il Poliedrico

Successivamente nel 1998 due gruppi di ricerca indipendenti 4 misurando con precisione la distanza delle supernove Ia 5.
Questi team scoprirono che le supernovae distanti appaiono meno luminose del previsto e siccome delle supernove Ia è ben nota la luminosità assoluta, questo significa che esse sono trascinate a distanze inaspettatamente grandi da una accelerazione imprevista dai tradizionali modelli cosmologici.
Un po’ come se il lievito del nostro panettone alla fine invece che di smorzarsi e infine cessare,  prendesse ancora più forza durante il processo  di lievitazione e il nostro panettone  aumentasse di volume sempre più in velocemente.
Fino ad allora si era supposto che la gravità della materia nell’Universo avrebbe infine preso il sopravvento sulla spinta espansiva del Big Bang o che si sarebbe espanso per sempre 6.
Per cercare di spiegare questo bizzarro comportamento dell’Universo – peraltro evidenziato anche da altre prove come Le emissioni X negli ammassi di galassie e nella asinotropia della radiazione cosmica di fondo,  i cosmologi hanno fatto ricorso a una qualche forma di energia associata al vuoto che domina sulla dinamica gravitazionale dell’Universo; una sorta di costante cosmologica del vuoto di natura repulsiva, ovvero una specie di antigravità.
Questa è la famosa energia oscura, che per spiegare l’accelerazione cosmica a cui stiamo assistendo le si deve attribuire circa il 74% della massa-energia di tutto l’Universo e che – curiosamente –  non interagisce affatto con tutte le  forze fondamentali eccetto la gravità..

Ovviamente poi occorre spiegare quindi cosa sia l’energia oscura, e qui ci sono un paio di teorie interessanti che mi propongo di approfondire in futuro: una di queste – è anche la più gettonata tra i cosmologi – fa riferimento a una presunta energia del vuoto di natura repulsiva, una nuova costante fisica indicata con la lettera lambda (Λ) 7 i cui effetti sono percepibili solo su scala cosmologica e un’altra teoria – il cui nome ha un che di alchemico – chiamata della quintessenza, basata invece sul concetto scalare dell’energia del vuoto che assume aspetti diversi – repulsivi o attrattivi – a seconda delle condizioni fisiche presenti nelle diverse condizioni locali dell’Universo.
Poi  ci sono anche altre teorie che cercano di spiegare l’accelerazione dell’Universo osservato, ma nessuna – anche queste due precedenti –  è del tutto soddisfacente o esente da contraddizioni.

Una di queste tenta di spiegare l’accelerazione dell’Universo  senza far  ricorso a costanti cosmologiche o a campi scalari repulsivi.
Questa idea fu presentata nel 2007 dai cosmologi spagnoli José Senovilla, Marc Mars e Raül Vera  8 9 e riprende alcuni lavori precedenti  10 11. Questa nuova teoria è basata sulle teorie TOE 12 e propone che la geometria del nostro Universo stia  per cambiare stato: da una geometria di Lorentz 13 a una geometria unicamente euclidea.
La conseguenza di questa transizione è che l’accelerazione cosmica osservata – e finora spiegata con l’ingombrante concetto di energia oscura – in realtà è dovuto unicamente al tempo che sta rallentando, per cui quello che noi oggi percepiamo in realtà è dovuto al tempo che scorreva più velocemente nel passato rispetto a quello attuale.
Questo porta conseguentemente a due importanti conclusioni: la prima – e più ovvia – è che il tempo – e quindi lo spazio – possa cessare in un lontano futuro, l’altra – e più sottile – è che il tempo possa essere considerato come energia nata col Big Bang che man mano si scarica, proprio come una pila.

Le domande – e le obiezioni – che questo diverso approccio al problema della accelerazione dell’Universo che osserviamo sono tante, forse più del problema che tenta di risolvere.
In un modo o nell’altro le nostre leggi fisiche hanno a che fare con il concetto di tempo, le nostre costanti fisiche allo stesso modo hanno bisogno di un tempo ben definito per esprimersi, come ad esempio la velocità della luce.
Forse però il concetto di tempo vettore è troppo ….


Decreto Sviluppo, non è oro tutto quello che luccica.

Non ho molta fiducia sul nuovo Piano di Sviluppo proposto dal governo italiano.  Anche se apparentemente sembra che qualcosa si stia muovendo nella giusta direzione, molto è solo fumo negli occhi.

Il fondo per la crescita sostenibile – Il decreto provvede a riordinare il fondo speciale rotativo sull’innovazione tecnologica, denominandolo Fondo per la crescita sostenibile, abrogando 43 norme di agevolazione alle imprese. Al nuovo Fondo affluiranno gli stanziamenti iscritti al bilancio e non utilizzati e le somme restituite o non erogate a seguito di revoche ai sensi delle leggi di incentivazione abrogate, così come le risorse di competenza del ministero dello Sviluppo già depositate presso la Cassa depositi e prestiti (Cdp). “Si andranno in questo modo a recuperare circa 650 milioni di euro nel 2012, più altri 200 milioni negli anni successivi”, dice il governo. Saranno rese disponibili anche le risorse del Fondo rotativo per il sostegno alle imprese e gli investimenti in ricerca (Fri) istituito presso Cdp stimabili in circa 1,2 miliardi di euro.

Il capitolo offshore Il decreto stabilisce una fascia di rispetto unica e più rigida, per petrolio e per gas, passando dal minimo di 5 miglia alle 12 miglia dalle linee di costa e dal perimetro esterno delle aree marine e costiere protette, per qualunque nuova attività di prospezione, ricerca e coltivazione. Sono fatti però salvi i procedimenti concessori in materia di idrocarburi off-shore che erano in corso alla data di entrata in vigore del cosiddetto correttivo ambientale, il decreto legislativo 128 del 2010 varato dopo il disastro ambientale causato dalla piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. Viene poi creato un fondo per le attività di salvaguardia del mare e di sicurezza delle operazioni offshore finanziato attraverso l’aumento delle royalties per le estrazioni in mare (dal 7 al 10% per gas e dal 4 al 7% per petrolio).

Fonte: SkyTG24

Proprio nel precedente articolo neppure troppo velatamente accusavo il governo italiano di non impegnarsi verso l’adozione di misure politiche ed economiche che le varie associazioni ambientaliste chiedono da tempo per il paese.  E subito dopo, il testo per lo Sviluppo Economico 1 approvato dal governo – a parole – mi smentisce.
Di questo avrei dovuto essere comunque contento, perché vuol dire che le voci di chiede giustamente un piano di sviluppo che tenga conto anche del risparmio energetico e delle energie rinnovabili alla fine sono state ascoltate, ma dopo averlo letto ….

Ad esempio di un riordino della delibera Cip6 2 che avrebbe potuto liberare risorse importanti verso le energie rinnovabili, non c’è traccia.
Ancora molto si punta sugli idrocarburi travestiti da biocarburanti invece che puntare coraggiosamente verso una loro progressiva alienazione incentivando forme diverse di trasporto, fluviale, marittimo, su rotaia etc. piuttosto che su gomma.
Poi viene il capitolo delle esplorazioni e  trivellazioni petrolifere offshore.
È vero che il limite per le attività offshore viene uniformato a 12 miglia nautiche dalla linea di costa per qualsiasi gamma di combustibili fossili, ma solo per quelle future!
Infatti stabilisce che tutti i progetti che erano stati fermati dal decreto legislativo n. 128/2010 successivo all’incidente della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico del 2010 3 possono riprendere la loro attività, questo per impedire che le varie compagnie possano avanzare richieste di risarcimento  allo Stato italiano per la revoca degli affidamenti fatta ad investimenti in
corso, ma poi invece si scopre che nell’ambito delle licenze già rilasciate « … possono essere svolte, oltre alle attivita’ di esercizio, tutte le altre attivita’ di ricerca, sviluppo e coltivazione di giacimenti gia’ noti o ancora da accertare, consentendo di valorizzare nel migliore dei modi tutte le risorse presenti nell’ambito dei titoli stessi.», ossia chi possedeva una licenza di esplorazione e/o di trivellazione prima del maggio 2010 può riprendere tranquillamente la sua attività e farne delle altre con la scusa che sono parte di un progetto già esistente.

Come spesso si scopre le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni e infatti anche qui il diavolo sta nei dettagli, questo decreto malgrado le apparenze non punta verso un’economia ambientalmente sostenibile, proprio quando ce ne sarebbe stata più l’occasione.


Biodiversità ed ecosostenibiltà per salvare il mondo

In questi giorni sul Web è tutto un fiorire di annunci roboanti del tipo “La Terra al collasso climatico …” e così via. Così sono andato a vedere cosa ci sia dietro, visto che in nome del professore citato non mi era sconosciuto.
È vero, l’allarme che lancia il professore californiano è concreto come più volte anche io denunciato su queste pagine in tempi di certo non sospetti, mo non è nuovo né tanto meno indica la fine del mondo, ma probabilmente per questo è ben più traumatico che aspettarsi più o meno passivamente l’Apocalisse.
È giunto il momento di rimboccarci le maniche tutti, ora e subito, e cercare di cambiare drasticamente il nostro stile di vita, dobbiamo imparare a vivere in punta di piedi sul nostro pianeta dove finor marciavamo con gli anfibi.

Antony D. Barnosky

Chi ha letto veramente qualcosa di Anthony D. Barnosky sa che non è nuovo nel lanciare l’allarme – peraltro giustificato – sui concreti rischi che l’eccessivo sfruttamento delle risorse planetarie a opera dell’uomo ha sulla civiltà umana.
Barnosky è professore di biologia integrativa  presso l’università della California e autore del libro Heatstroke, uscito nel 2009.

Già in quel suo libro – e in molte altre sue pubblicazioni scientifiche 1 – Antony Barnosky cercava già allora di spiegare come l’attività umana sia – in gran parte – responsabile del Riscaldamento Globale che sta modificando in modo radicale e imprevedibile l’intero ecosistema planetario.
Nell’immaginario collettivo il riscaldamento globale è subito associato ai ghiacciai artici che scompaiono, ai sempre più violenti fenomeni atmosferici 2 etc., ma esiste anche un altro aspetto che in genere viene dimenticato: la minaccia alla biodiversità.

La realtà del riscaldamento globale significa che la natura così come lo conosciamo – le specie che amiamo, i servizi degli ecosistemi che ci sostengono, i luoghi selvatici dove cercare conforto – è sotto assedio come è mai accaduto prima. Oltre ad aggiungere il  peso di altre minacce ecologiche a lungo riconosciute, il riscaldamento globale sta influenzando la natura in forme prima inimmaginabili e potenzialmente letali, non solo per le innumerevoli specie, ma per interi ecosistemi.
È scoraggiante cercare di salvare la natura  in queste circostanze, sapendo che può essere alla nostra portata se agiamo adesso.
Dovremmo rallentare le emissioni di gas a effetto serra e attuare nuove filosofie di conservazione e politiche che riconoscono che noi, insieme a tutte le altre specie viventi viviamo in un mondo globale.

Nature in   the hot seat,  Antony  D. Barnosky

Barnosky ricorda nel suo libro come possa essere più probabile che il cambiamento climatico spazzi via interi gruppi di specie viventi che riesca a crearne di nuovi. Molte specie animali e vegetali che si sono evolute nel corso di centinaia di migliaia di anni seguendo sempre  gli stessi ritmi adesso devono confrontarsi con una realtà ambientale e climatica che in poche centinaia di anni è stata stravolta dall’homo sapiens.
Da qui l’esortazione dello scienziato a cercare di riparare ai danni creati dall’uomo, visto che la scienza e la tecnologia adesso possono consentirlo, finché siamo in tempo per farlo.

L’articolo pubblicato su Nature da Barnosky 3 ricorda come l’impatto  antropico negli ultimi 200 anni (dall’inizio della rivoluzione industriale) sia stato devastante per il pianeta più di quanto lo fosse stato prima fin dai tempi dell’ultima glaciazione.
Tutte le grandi estinzioni di massa sono state causate da un improvviso collasso dell’ecosistema che fino ad un attimo prima era perfetto. Ma mentre prima il collasso era causato da eventi naturali improvvisi e violenti come terremoti, meteore o vulcani, che potevano modificare 
radicalmente il clima e l’habitat di molte specie viventi in brevissimo tempo, adesso è l’attività umana la principale responsabile dell’attuale pericolo per il pianeta.

Il quasi azzeramento dei ghiacci artici e la perdita dei ghiacciai perenni che ancora 3000 anni fa ricoprivano circa il 30% delle terre emerse, è il prodotto del riscaldamento globale del pianeta 4, mentre ormai quasi la metà delle terre emerse è sfruttato in qualche modo dall’uomo.
Questo gigantesco impatto sull’intero ecosistema terrestre comporta notevoli rischi per la sopravvivenza di molte specie animali o vegetali, molte delle quali si sono estinte negli ultimi 1600 anni per colpa dell’uomo.
Il rischio reale è che adesso o ci fermiamo a curare le ferite che abbiamo inflitto al pianeta oppure l’intero ecosistema non sarà più in grado di sostenere il peso di una umanità composta da 7 miliardi di individui che divora le risorse finite del pianeta come un parassita 5.

Appelli simili provenienti dal mondo accademico, finora sono stati in gran parte inascoltati dagli organi decisionali internazionali. Proprio oggi un appello 6 a rivedere le priorità del paese è stato rivolto da sei associazioni ambientaliste 7 al Primo Ministro italiano Mario Monti in vista del prossimo vertice internazionale di Rio +20, ma purtroppo molto probabilmente a parte di una generica risposta di circostanza alle parole non seguiranno i fatti, visto che per rilanciare un generico Piano di Sviluppo c’è al governo anche chi pensa – irresponsabilmente – di accorciare l’attuale limite delle 12 miglia nautiche a 5  per le trivellazioni petrolifere offshore 8.

Come spesso ho detto su queste pagine non è possibile immaginare un progetto di crescita materiale infinita in un sistema finito quale lo è un pianeta. Il concetto principale dell’attuale economia planetaria, il PIL (Prodotto Interno Lordo), non può crescere indefinitamente senza provocare un danno irreversibile all’intero habitat terrestre. Occorre che l’Umanità se davvero tiene a sé stessa e alla sua esistenza si dia altri obbiettivi e diversi traguardi  da raggiungere.
Altrimenti che continui a farsi male così, ascoltando vecchi ciarlatani ossessionati dalla ricchezza materiale che neppure più sanno a cosa serve il PIL, sperando che poi impari a nuotare in fretta …