Caccia ai microrganismi marziani, le nuove ricerche sugli esperimenti Labeled Release

Gilbert V. Levin, Ph.D.

Nel lontano 1952 un brillante ingegnere sanitario inventò uno straordinario e nuovo metodo per rilevare la contaminazione microbica di acqua e cibo 1.
Nel 1958 – quando ancora andare sulla Luna era soltanto un sogno – la NASA cercava un metodo per scovare microbiche forme di vita extraterrestre.
Fu così che il metodo del dott. Levin fu scelto  – insieme ad altri – nel 1969 dalla NASA per un altisonante programma chiamato Voyager Mars che aveva lo scopo di raggiungere Marte con sonde automatiche  entro i successivi 10 anni; alla NASA pensano in grande.

Con gli anni spesso le cose cambiano nome, così il programma Voyager Mars diventò Programma Viking e il famoso metodo del dott. Levin da Gulliver 2 3 fu ribattezzato con un più prosaico  – e secondo me più brutto – “Labeled Release” (LR)  per indicare la tecnologia utilizzata.

Viking 2 Lander (2/111/976). Sullo sfondo le rocce di Utopia Planitia

In pratica l’esperimento LR nei lander Viking atterrati su Marte nel 1976 funzionava così: alcuni campioni di suolo venivano sterilizzati tramite il riscaldamento e altrettanti no. Poi a tutti questi campioni veniva aggiunto un composto nutriente contenente un isotopo particolare del carbonio facilmente rilevabile: il 14C. Qualora eventuali microrganismi marziani avessero metabolizzato il nutrimento avrebbero rilasciato una certa quantità di 14C nell’aria, mentre i campioni di suolo sterilizzati ovviamente no. In effetti la serie di esperimenti LR portati avanti nei due siti di atterraggio dei lander Viking a 4000 chilometri di distanza l’uno dall’altro produsse dei dati compatibili a una qualche attività biologica, contrariamente agli altri tre modelli sperimentali studiati per la missione 4.

Levin e la sua collaboratrice dott.sa Patricia Ann Straat, analizzarono  per almeno un decennio i dati degli esperimenti LR 5 e li ripeterono in laboratorio sulla Terra usando diversi tipi di terreno proveniente dai più disparati siti, come il suolo antartico 6. Nel 1997, dopo 21 anni dagli esprimenti marziani, altre scoperte sui batteri estremofili e nuove ipotesi sulle condizioni ambientali su Marte, dettero nuovo impulso alle ricerche del dott. Levin che pubblicò le sue conclusioni frutto di venti anni di ricerche che confermavano la scoperta delle origini biologiche dei risultati degli esperimenti LR delle sonde Viking 7.

Le valli secche nell'interno sel continente antartico sono ideali per la ricerca di microrganismi estremofili

Da allora furono fatti da altri ricercatori molti tentativi per dimostrare che i risultati degli esperimenti marziani erano frutto di semplici reazioni chimiche o fisiche tra le sostanze nutritive LR e il suolo. Nessuno tuttavia riuscì a dimostrarlo.

Il 12 aprile 2012 – quest’anno – è stato presentato un nuovo studio 8 iniziato nel 2005 che ha visto come primo firmatario il dott. Giorgio Bianciardi (biologo e medico presso l’Università di Siena, attuale vicepresidente dell’Unione Astrofili Italiani), insiema al dott. Joseph D. Miller del Dipartimento di Neurobiologia della Keck School of Medicine di Los Angeles, CA, il dott. Gilbert V. Levin dell’Arizona State University e la sua collaboratrice dott.sa Patricia Ann Straat. Questo nuovo filone di indagini sui vecchi dati degli esperimenti LR ha preso il via da una ricerca presentata nel 2003 a Madrid dal Bianciardi 9. Levin e Miller hanno fornito tutti i 16000 dati dei 9 esperimenti marziani in loro possesso (spesso ancora in forma cartacea) al Bianciardi e i dati degli esperimenti riprodotti sulla Terra. Man mano che lo studio dei dati procedeva, era evidente che tutti gli esperimenti attivi avvenuti su Marte si aggregavano perfettamente con i dati biologici fatti a Terra. I dati della temperatura si aggregavano con quelli di controllo negativi (suolo sterilizzato, su Marte o sulla Terra), ma soprattutto non c’era traccia di alcuna reazione chimica abiotica nel rilascio dell’anidride carbonica una volta che veniva aggiunta la soluzione nutritiva.
-La conclusione poteva essere solo una: c’è vita su Marte, i Viking l’avevano scoperta. – afferma il Bianciardi. Le analisi si sono concluse nel 2011 e i risultati sono stati pubblicati prima che la sonda Mars Science Laboratory (MSL) arrivasse su Marte 10.

Ma la storia è appena agli inizi ….


DNA alieni in laboratorio

Tantissime persone sono ancora convinte che il loro carattere, il loro aspetto o perfino il  futuro sia scritto lassù, fra le stelle, e che nel loro errare nel cielo lungo l’eclittica i pianeti facciano la differenza tra una vita mediocre e una piena di soddisfazioni. Non è così, non esiste alcun nesso tra le diverse stelle che creano i disegni nel cielo che chiamiamo costellazioni, il vagabondare quasi meditabondo dei pianeti lungo la loro orbita e il nostro aspetto fisico.
Semmai il colore degli occhi, della pelle o dei capelli è scritto in un polimero che è presente nel nucleo di tutte le cellule che compongono il  nostro corpo e che guida tutta la nostra vita dal concepimento fino alla morte.

Rappresentazione grafica di una molecola di DNA

Questo polimero si chiama acido desossiribonucleico – per gli amici DNA – ed è una lunga catena composta da un gruppo fosfato, il deossiribosio (un tipo di zucchero) e una base azotata che si lega al deossiribosio. Le basi azotate nella molecola di DNA sono quattro: adenina, guanina, citosina e timina. Si possono considerare come le uniche quattro lettere dell’alfabeto con cui è scritto ciò che siamo.

Ora provate a sostituire lo zucchero, il deossiribosio con un altro tipo di zucchero completamente diverso 1. Otterrete qualcosa di altrettanto efficace del DNA per contenere informazioni e duplicarle ma comunque completamente diverso che – almeno su questo pianeta – non esiste in natura, uno XNA (xeno-nucleic acids), come lo hanno battezzato i ricercatori che lo hanno realizzato.
Adesso il gruppo di ricercatori guidati da Vitor Pinheiro del Medical Research Council di Cambridge, in Gran Bretagna, sono riusciti a copiare una sequenza di XNA in una sequenza complementare di DNA che servirà per assemblare un nuovo filamento di XNA uguale a quello di partenza. In questo modo è stato possibile replicare intere sequenze di XNA con oltre il 99% di accuratezza.
Essere riusciti a duplicare le informazioni contenute nel XNA è una tappa fondamentale della ricerca biologica per capire come sia nata la Vita: la perpetuazione dell’informazione genetica è alla base dell’evoluzione e, ovviamente, della Vita.
Tuttavia, questi acidi xenonucleici necessitano ancora di una interazione con il DNA per  replicarsi, un passo che uno scienziato indipendente alla ricerca, ha detto ancora cruciale, per creare la vera vita sintetica.

Le possibili ricadute in campo medico, scientifico o nella bioingegneria sono infinite, così come nella ricerca di biochimiche diverse da quelle sviluppate sulla Terra che invece possono essersi sviluppate su altri mondi.

Cambiando quindi gli zuccheri, l’informazione non cambia, semmai può evolvere!

Fonti: http://www.sciencenews.org/view/generic/id/340076/title/Synthetic_heredity_molecules_emulate_DNA
http://www.sciencemag.org/content/336/6079/341.abstract?sid=82fb19c9-c9a2-4fd9-b1e0-4c80570740df 


Canon Hack Development Kit (seconda parte)

Scrivere una recensione completa di CHDK richiederebbe senz’altro  un libro, mi limito qui solo a illustrare le caratteristiche che ritengo più importanti per un uso scientifico.

Canon Powershot A650is

La possibilità di memorizzare le immagini in formato RAW non compresso è forse uno dei punti di forza di questo firmware esteso.
Il formato RAW per le sue peculiari caratteristiche di elaborazione, di solito viene reso disponibile dal produttore solo nelle fotocamere di livello più alto, macchine che possono essere troppo costose per l’uso didattico nelle scuole o per molti semplici amatori.
Il normale formato JPEG, che rimane comunque abbastanza fedele per un uso normale, consente di memorizzare molte immagini in  poco spazio a scapito di una certa perdita di informazioni dovuta alla compressione dell’immagine. Questo purtroppo non è affatto sufficiente per un uso scientifico dell’immagine.
Il RAW invece riporta fedelmente quanto è stato registrato direttamente dal sensore CCD, a scapito  di un maggiore spazio occupato dall’immagine. In questo modo è possibile una elaborazione successiva più spinta, oppure la lettura del valore assoluto di determinati pixel nell’immagine per analisi statistiche, più deboli particolari che nella compressione JPEG vengono irrimediabilmente persi  etc.
Ovviamente CHDK consente di scegliere tra i due formati. Il RAW prodotto da CHDK però non è leggibile nativamente dai software classici come Adobe Photoshop o Gimp 1, questo perché il costruttore non rilascia le caratteristiche del flusso dati in uscita dal sensore CCD.
Anche se l’ADC usato in molte Powershot è a 12 bit,  il RAW prodotto da CHDK è a 10 bit perché i 2 bit meno significativi non sono collegati (conterrebbero solo il rumore del sensore). Questo significa che in RAW sono comunque disponibili 2^10 livelli di colore per ogni pixel, cioè 1024 gradi di tonalità diversi. Non è comunque male!

Un’altra caratteristica importante in astronomia è la possibilità di utilizzare tempi molto lunghi per lo scatto. Questo è possibile sia attraverso la programmazione di script eseguibili inseriti nella scheda SD in una apposita cartella o per mezzo di circuiti pilota via porta USB, come avviene nelle fotocamere di fascia alta con lo strumento per lo scatto remoto. Questa capacità unita alla possibilità di registrare immagini in formato RAW trasforma queste fotocamere in potenti strumenti di ricerca scientifica a basso costo.

Inoltre la facoltà di programmare la fotocamera attraverso dei semplici script eseguibili 2 apre infiniti scenari di impiego: è possibile ad esempio fare in modo che la fotocamera scatti immagini a intervalli prestabiliti, fare in modo che si adatti automaticamente alle variazioni di luminosità ambientale o che addirittura possa scattare un’immagine solo quando il sensore CCD rileva un movimento nel campo inquadrato 3.
Questa è probabilmente la killer application di CHDK: la capacità di eseguire script all’interno della fotocamera senza alcuna necessità di essere pilotata da un computer esterno. Si può così controllare la fotocamera anche per giorni se necessario in maniera del tutto automatica, basta assicurarle una fonte di energia esterna sufficiente.

Il bello è che CHDK e i  suoi programmi risiedono nella stessa SD delle foto e che tutto il firmware viene caricato nella memoria RAM interna della fotocamera, senza sovrascrivere alcunché del firmware originale 4. Basta spegnere la fotocamera e togliere la schedina che questa torna normale, senza invalidare la garanzia!
Se non si ha dimestichezza con le  tecniche di programmazione, niente paura! dal sito web di CHDK sono disponibili decine di script già testati e funzionanti, oppure si può chiedere assistenza sul forum del celebre firmware.

La prossima volta parlerò delle tecniche di ripresa astronomica che si possono fare con questi gioiellini. Restate sintonizzati!

Canon Hack Development Kit (prima parte)

 

Un tranquillo massimo minimo

Il Sole il 10 aprile 2012 - Credit: NASA/SOHO

Guardate questa foto del Sole di oggi: non vi sembra un po’ spoglia?
Nonostante le stupende eruzioni e le meravigliose aurore che questo ciclo solare ci ha finora regalato in questa fase di ripresa del ciclo solare iniziato nel 2008 e che ormai dovrebbe raggiungere il culmine l’anno prossimo, questa foto mostra una superficie Solare curiosamente sgombra dalle solite macchie che dovrebbero essere presenti in questa fase.
Certo è che finora l’attività solare è stata comunque insolitamente bassa, tanto che forse il Ciclo Solare 24 passerà agli annali come fra i più deboli mai registrati, il che forse è un bene, visto che le eruzioni solari hanno lo spiacevole effetto collaterale di riscaldare gli strati superiori della nostra, purtroppo febbricitante, atmosfera.

Venere e Pleiadi: un abbraccio storico

Credit: Gianluca Masi http://virtualtelescope.bellatrixobservatory.org

Il famoso incontro di Venere con M45 (Pleiadi) poi c’è stato, anche se per molte località d’Italia, compresa la mia, non è stato possibile vederlo.
Dopo l’iniziale attacco di rabbia diretto alle avverse condizioni meteorologiche del 3 aprile 1, me ne sono fatto una ragione e mi sono guardato intorno.
“È mai possibile che nessuno abbia fotografato lo storico momento?”

Credit: Il Poliedrico

Tanto più che quest’occasione si ripresenterà solo fra otto anni,  come potete vedere nella proiezione qui accanto  e solo fino al 2036, quindi ancor di più unica a meno che non si abbia la pazienza di aspettare almeno altri 25786 anni, sempre che non cambi qualcosa nel frattempo, il che può anche essere.

Infatti, eccola qui.
Una splendida fotografia realizzata dall’ottimo Gianluca Masi, che ringrazio per avermene concesso l’uso, mostra Venere il 3 di aprile mentre si staglia nettamente sulle Pleiadi.

Non è certo come aver visto il magico momento di persona, ma pur sempre meglio di niente.

ps. Speriamo che fra otto anni sia sereno …

Antichi pianeti e nuovi dilemmi

Il bello nella ricerca scientifica è che non c’è posto per le certezze assolute e che le sorprese – sempre gradite anche quando possono sembrare imbarazzanti – posso arrivare anche da dove si suppone che non ci possa essere niente di interessante da scoprire.
Il mio plauso va agli autori della scoperta, alcuni dei quali sono italiani, tutti in attività all’estero: Veronica Roccatagliata (responsabile della survey, dell’Osservatorio dell’Università di Monaco), Davide Fedele (della Johns Hopkins University, a Baltimore), Anna Pasquali ed Elisabetta Caffau (entrambe dell’Università di Heidelberg, in Germania).

HIP 11952 - Credit: http://simbad.u-strasbg.fr

Finora si era sempre supposto che un sistema planetario non si sarebbe potuto formare – o comunque sarebbe stato molto difficile – attorno a una stella con una bassissima percentuale di metalli.
Eppure una anonima stellina come ce ne sono tante altre ha mostrato che anche le stelle molto vecchie come lei possono ospitare un sistema planetario.

Infatti HIP11952 1 è una debole stellina grande 1,6 volte il Sole pur pesando il 20% in meno, con dei pianeti che le orbitano attorno: HIP 11952b e HIP 11952c.

Nome HIP 11952 b HIP 11952 c
Anno della scoperta 2012 2012
Massa (Giove=1) 2.93 (± 0.42) 0.78 (± 0.16)
Semiasse maggiore UA 0.81 (± 0.02) 0.07 (± 0.01)
Periodo orbitale (giorni) 290 (± 16.2) 6.95 (± 0.01)
Ecentricità 0.27 (± 0.1) 0.35 (± 0.24)
ω (gradi) 59.3 (± 2.5) 61.2 (± 6.6)
Tperi 2455402 (± 1.3) 2455029.2 (± 0.04)

Il rebus è nell’età della stella, che è molto, molto vecchia: circa 10-13 miliardi di anni. HIP 11952 è nata cioè quando l’Universo era ancora molto giovane, un miliardo di anni o forse meno, ed era molto più povero di elementi chimici più pesanti dell’elio – che gli astronomi chiamano metalli – di quello attuale.

HIP 11952
Distanza (parsec) 111 (± 18)
Tipo Spettrale F2V
Magnitudine apparente V. 9.78
Massa (Sole=1) 0.83 (± 0.05)
Età (Miliardi di anni) 12.8 (± 2.6)
Temperatura effettiva 6040 (± 210) K
Raggio (Sole=1) 1.6 (± 0.1)
Metallicità [Fe/H] -1.9 (± 0.14)
Asc. Retta 02 34 11
Declinazione -12 23 03

La metallicità di HIP 11952 è appena l’uno per cento di quella solare, e questo dato cozza con quanto finora si pensava in merito alla nascita e evoluzione di un sistema planetario.
L’attuale modello prevede infatti che un corpo planetario – roccioso o gioviano che sia – nasca per accrezione da un nucleo più piccolo e più pesante rispetto all’ambiente che lo circonda e che cresca col tempo. Il ruolo degli elementi chimici pesanti in questo caso è evidente: i semi da cui poi nascono i pianeti sono composti di ferro, silicio e carbonio che si sono arricchiti da tutto quello che riescono ad attrarre gravitazionalmente.
Questo meccanismo pone serie difficoltà alle stelle di popolazione II come questa di possedere un sistema planetario.
Come può quindi una stella nata in un ambiente dove gli elementi chimici pesanti erano meno di un centesimo di quelli di oggi?

Si può pensare che ci sia stata una precedente popolazione stellare 2 che ha pesantemente contaminato la regione di spazio in cui poi è nata HIP 11952 e i suoi due pianeti, oppure occorre rivedere l’attuale modello di formazione planetaria o ipotizzare un diverso meccanismo che porti allo sviluppo di pianeti in un ambiente molto povero di metalli.

Di certo è che HIP 11952 non è la sola stella di Popolazione II a possedere un sistema planetario: nel 2010 si scoprì che un’altra stella molto povera di metalli chiamata HIP 13044 – anche questa di una certa età, 9 miliardi di anni – era accompagnata da un pianeta gioviano caldo grande poco più del nostro Giove: HIP 13044b.


Una cascata di diamanti nel cielo di primavera

Credit: Il Poliedrico

Nell’attesa di osservare  il transito di Venere accanto alle Pleiadi previsto per i primi giorni d’aprile, stasera potremo osservare un’autentica cascata di gemme nel cielo verso ovest dopo il tramonto:
un arco quasi perfetto che parte da Aldebaran  nelle Iadi (le corna del Toro) passando per la Luna di appena 5 giorni e le immancabili Pleiadi. Più in giù a cascata vedremo Venere e poi Giove.

Osservate la bellezza di stasera nella proiezione qui sopra e cercatela in cielo questa sera!

Canon Hack Development Kit (prima parte)

L’evoluzione tecnologica e la miniaturizzazione dei componenti elettronici negli ultimi 20 anni ha donato molte opportunità di ricerca ai semplici appassionati che prima erano appannaggio solo dei centri di ricerca dotati di strumenti spesso ingombranti e molto costosi. L’opportunità di disporre di hardware ottimo e poco costoso e la  possibilità di creare un firmware open source hanno fatto il resto: una semplice compact-camera può diventare un potentissimo strumento il cui unico suo limite è la creatività dell’utente finale.

Canon Powershot A650is

Oggi le macchinette fotografiche “point and shoot” con tecnologia CCD e display posteriore sono quasi in ogni casa: piccole, facili e svincolate dal laborioso processo di stampa chimica, hanno veramente portato la fotografia “ovunque”.
Per soddisfare le richieste del mercato, i vari costruttori hanno dotato di processori DSP sempre più potenti e veloci le loro compact-camera per offrire al grande pubblico funzioni – spesso totalmente automatizzate – che vanno dalla macrofotografia alla ritrattistica fino alla fotografia sportiva. Queste compact-camera dotate di hardware così potente non potevano certo passare inosservate ai tanti appassionati evoluti di fotografia, ingegneria e programmazione.

Così, nel pieno spirito hacker, è nato il progetto CHDK (Canon Hack Development Kit) avente lo scopo di creare un firmware alternativo ed open source capace di sfruttare tutte le potenzialità dell’hardware offerto da una classe particolarmente potente di compact-camera: le Powershot 1, per poi essere gradualmente esteso anche alla classe più professionale EOS 2 (solo alcune).

Il processore Canon Digic II

Alcune caratteristiche ricercate ad esempio in astronomia sono le esposizioni lunghe, il controllo remoto della fotocamera e l’accesso ai dati RAW non compressi, cioè ai dati grezzi che escono direttamente dal sensore CCD e ancora non elaborati dalle primitive grafiche del software della fotocamera. Il formato RAW è invece  abitualmente offerto sui modelli di classe superiore che condividono gran parte dello stesso hardware.
Il progetto open source software noto con l’acronimo CHDK iniziò alcuni anni fa, quando il programmatore russo Andrey Gratchev ebbe successo nel reverse engineering del Canon Digital Imaging Core (DIGIC), il circuito integrato custom che controlla tutte le fotocamere digitali Canon.
Una volta comprese le funzioni del DIGIC e il modo di controllarle, altri programmatori volontari svilupparono un firmware alternativo Open Source sotto la licenza GNU Public License (GPL) 3.

Grazie a questo firmware open source alternativo a quello ufficiale adesso è possibile sfruttare tutta la potenza dell’hardware disponibile. Cosa si può fare e come farlo sarà oggetto del prossimo articolo, restate in attesa!

(segue)

Neutrini superluminali? quasi sicuramente no.

Umby

Ormai è quasi certo. Oppure come i vostri gusti preferiscono, i clamorosi risultati di OPERA sono quasi definitivamente smentiti.

A settembre dello scorso anno fu annunciato dai ricercatori dei Laboratori di fisica nucleare del Gran Sasso che alcuni neutrini sembravano viaggiare più veloci della luce tra l’LHC di Ginevra e i rivelatori italiani.
Tutto faceva supporre che si stesse schiudendo un nuovo orizzonte per la fisica … fino a quasi un mese fa, quando saltò fuori la notizia che potevano esserci stati un paio di errori nella strumentazione usata nell’esperimento OPERA: uno che ritardava la risposta – un cavo malmesso – e uno che l’anticipava – un errore nel calcolo del tempo di volo dei neutrini fra la stazione emittente e il ricevitore.

Adesso la conferma che i neutrini viaggiano alla velocità della luce dentro i classici margini di tolleranza è apparsa su Arxiv a questo indirizzo: Measurement of the neutrino velocity with the ICARUS detector at the CNGS beam.
In pratica il rivelatore ICARUS (Imaging Cosmic and Rare Underground Signals) ha misurato un anticipo δt del tempo di volo dei neutrini emessi tramite il CERN-SPS (Super Proton Synchrotron) 1 rispetto a c di 0.3 ns con un errore statistico di ±4.0 ns ed un errore sistematico di ±9.0 ns. La misura è compatibile con una velocità vμ dei neutrini muonici non superiore a c.
Questo si può quindi considerare il primo test ufficiale che avrebbe potuto smentire o confermare i controversi risultati di OPERA.
Per dirla come i Mithbuster: Neutrini superluminali? mito sfatato.

Andiamo a colorar le stelle

Non sono certo David Malin. In verità sono anche poco bravo nelle materie artistiche, comunque nel mio piccolo ci provo. Pochi mezzi – e poveri, poco tempo a disposizione ma tanta volontà di ottenere qualche risultato. Questa è la vera etica hacker, quella che è nata nell’Homebrew Club e io cerco di applicarla ovunque posso.

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Credit: Il Poliedrico

Credit: Il Poliedrico

 Dati Exif dell’immagine
Camera model Canon EOS 1000D
Tempo di esposizione 10 secondi
Apertura diaframma F3.5
Exposure bias 0 EV
Lunghezza focale 21.0 mm
ISO speed 1600
Exposure mode Manual (M)
Modalità macro Off
Qualità immagine Fine
Risoluzione Exif 3792 x 2408
Bilanciamento del bianco Auto

Vedete le due immagini qui sopra? Sono lo stesso soggetto, lo stesso fotogramma prima (a sinistra) e dopo l’elaborazione al computer (a destra). La fotografia è banale: a sinistra nell’imagine è visibile la costellazione Orione, al centro l’ammasso aperto più vicino alla Terra – appena 150 anni luce – delle Iadi con la gialla Aldebaran in primo piano 1, poi le stranote Pleiadi e la congiunzione Giove – Venere di cui ho parlato nei giorni scorsi.

Però questa volta non mi sono limitato alla semplice correzione del fondo cielo come ho descritto in un altro articolo 2, stavolta ho cercato di applicare una mia rivisitazione di un metodo che ho appreso da una rivista di astronomia piuttosto nota 3.

Un grosso limite dell’astrofotografia è proprio nella sensibilità del sensore: quello che infatti sembra essere un grande vantaggio, cioè la capacità di sommare aritmeticamente la luce incidente in un singolo pixel che consente di registrare anche le sorgenti più deboli con pose abbastanza lunghe, per i colori rappresenta un limite importante. Non importa che la luce sia rossa, verde o blu, quando il pixel è saturo appare comunque bianco qualunque sia la lunghezza d’onda della luce incidente nel pixel. Nell’astrofotografia più professionale si usano sensori CCD con un ampio spettro di sensibilità in bianco e nero insieme a filtri ottici colorati -verde, rosso e blu – e le immagini vengono unite in fase di elaborazione restituendo così la dinamica di colore originale.
Ma come fare lo stesso con una reflex entry-level, un mini grandangolo 18-55 e un treppiedi cinese?

Credit: Il Poliedrico

In pratica ho fatto due riprese: una perfettamente a fuoco e una seconda volutamente fuori fuoco, dove al posto delle stelle puntiformi adesso erano presenti dei cerchietti della luce diffusa dalle sorgenti più brillanti.
Per prima cosa ho convertito dai RAW  le immagini in un formato più maneggevole, in questo caso il JPEG, ma confido che col BMP o il TIFF – che sono formati non compressi – potrei ottenere risultati anche migliori, questa era soltanto una prova 4.
Con l’immancabile Gimp 2.6 poi ho corretto il fondo cielo come già descritto alle due immagini e ho sfocato con un algoritmo gaussiano l’immagine sfocata facendo in modo che le sagome dei cerchietti di luce sfumassero dolcemente nel fondo cielo.
Poi ho sommato questa in primo piano all’immagine a fuoco – mantenuta in secondo piano usando la tecnica dei livelli – e ho giocato con la trasparenza del livello per ottenere il migliore risultato visibile.
Il risultato già buono però mostrava ancora una forte spillatura delle sorgenti puntiformi rispetto al loro sfondo colorato, questo perché gli oggetti a fuoco erano ancora troppo piccoli e saturi per una buona resa artistica.
Anche in questo caso i filtri gaussiani di Gimp si sono rivelati essenziali. Dopo aver centrato la falsa doppia θ Tau 5 ho cercato di sfumare le sorgenti puntiformi cercando comunque di non fondere la luce di θ Tau in una chiazza indistinta.
Dopo aver fuso tutti i livelli ho leggermente intensificato la luce delle stelle senza cercare di rovinare tutto: et voilà, le stelle ora hanno il loro colore 6!