Questo post era nato come aggiornamento di stato su Facebook. Poi però ho pensato che il mio estemporaneo sfogo valesse qualcosa di più.
L’intera storia è costellata di bivi e di spartiacque da cui non è possibile tornare indietro. No, non sto parlando ora di freccia entropica e direzione univoca della freccia del tempo; parlo di scelte e svolte che condizionano la storia umana.
A volte sono i singoli uomini a scegliere e quasi mai — per nostra fortuna — i politici e i condottieri.
Pensate a Galileo, Copernico, Alessandro Volta, Marie Curie, Guglielmo Marconi e tutti gli altri che non cito non certo per dimenticanza o per far loro torto.
Inventando l’home computer in un garage due ragazzi hanno stravolto il genere umano ben più di quanto abbia saputo fare Alessandro il Grande col suo effimero impero. Oppure pensate a quell’umile garzone di fabbro che verso il 1200 inventò la staffa per le selle usate poi dai cavalieri mongoli di Gengis Khan per conquistare il suo impero.
Visionari, magari presi per sciocchi, che giocavano coi dischi di cartone e le zampette di rana o con cilindri di ghisa e stantuffo. Eppure è così che sono nate le pile elettriche e i motori a combustione interna, da persone quasi dimenticate oggi 1 ma che hanno scritto la storia del genere umano più di tutti i condottieri e duci esistiti.
La storia è fatta dalle persone e dai popoli. Essa è guidata dalle intuizioni e forgiata dalle svolte sociali. E ora ne abbiamo di fronte uno, altrettanto importante di quello che spinse quattrocentomila anni fa alcuni nostri antenati a lasciare l’Africa: la conquista del cosmo.
No, non si tratta di viaggiare verso le altre stelle, cosa che forse in un futuro lontano forse faremo, ma di esplorare e colonizzare permanentemente il Sistema Solare; diventare finalmente una specie interplanetaria.
Un mondo di 7 miliardi di persone non può permettersi di trascurare questa occasione. La ricchezza e il benessere che da questa opportunità derivano potrà porre fine alle sofferenze di tutto il genere umano al di là di qualsiasi promessa di impero terreno di qualsiasi nuovo duce.
La tecnologia per questo epocale salto c’è già o potrà essere sviluppata entro i prossimi cinquant’anni se solo ci fosse la volontà politica di farlo. E questa voglia occorre alimentarla come un fuoco che cova sopito.
Come coscienza individuale forse non ci sarò più. Ma i miei figli vedranno quasi sicuramente l’umanità diventare finalmente una specie interplanetaria. Questo sogno mi ripaga di ogni sacrificio.
Può suonare strano a dirsi, ma tutta l’energia che vediamo e che muove l’Universo, dalla rotazione delle galassie ai quasar, dalle stelle alle cellule di tutti gli esseri viventi e perfino quella immagazzinata nelle pile del vostro gadget elettronico preferito è nato col Big Bang. È solo questione di diluizioni, concentrazioni e trasformazioni di energia. Sì, trasformazioni; l’energia può essere trasformata da una forma all’altra con estrema facilità. La scienza che studia tali trasformazioni è la termodinamica. Per trasformarsi l’energia ha bisogno di differenza di potenziale, ossia una maggior concentrazione contrapposta a una minore concentrazione nella stessa forma. L’entropia non è altro che la misura della capacità che ha l’energia di decadere compiendo un lavoro fino a raggiungere di uno stato di equilibrio.
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L’entropia statistica si fonda sulle probabilità delle posizioni delle molecole in uno spazio chiuso. Il II Principio della Termodinamica deriva dal fatto che le configurazioni ad alta entropia sono più probabili di quelle a bassa entropia.
L’esempio dei vasi comunicanti è un classico. Quando fra i due contenitori viene rimosso il tappo (blu), le molecole di un gas (rosse) saranno libere e si distribuiranno uniformemente in entrambi i contenitori compiendo un lavoro (il transito).
Quando la distribuzione sarà uniforme non potrà più esserci lavoro (equilibrio).
Nella termodinamica l’entropia è la misura delle capacità di un sistema fisico in grado di essere sede di trasformazioni spontanee. In altre parole essa indica la perdita di capacità a compiere un lavoro quando tali trasformazioni avvengono. Il valore dell’entropia cresce quando il sistema considerato man mano perde la capacità di compiere lavoro ed è massimo quando tutto il sistema è in condizioni di equilibrio.
La meccanica statistica ha poi reso lo stesso concetto, originariamente legato agli stati di non equilibrio di un sistema fisico chiuso, ancora più generale, associandolo anche alle probabilità degli stati — microstati 1 — in cui può trovarsi lo stesso sistema; da qui in poi si parla di grado di disordine di un sistema quale misura di indeterminazione, degrado o disordine di questo. Il classico esempio dei vasi comunicanti aiuta senz’altro a capire questo poi banale concetto. Ne potete vedere un esempio illustrato qui accanto.
Il legame fra l’entropia statistica e la teoria dell’informazione lo si deve a Claude Shannon (il padre del termine bit e dell’uso della matematica binaria nei calcolatori) intorno agli anni quaranta del ‘900. Shannon notò che non c’era differenza tra il calcolo del livello di imprevedibilità di una sorgente di informazione e il calcolo dell’entropia di un sistema termodinamico. Per esempio, una sequenza come ‘sssss‘ possiede uno stato altamente ordinato, di bassa entropia termodinamica. Una sequenza come ‘sasso‘ ha un grado di complessità superiore e e trasporta più informazioni ma ha anche un po’ di entropia in più, mentre ‘slurp‘ dimostra un ancora più alto grado di complessità, di informazione e di entropia perché contiene tutte lettere diseguali; noi le diamo un significato, è vero, ma se dovessimo basarci solo sulla frequenza con cui appaiono le singole lettere in una parola composta da cinque di esse, questa possiede la stessa entropia di “srplu“, che per noi non ha senso e diremmo che essa è una parola disordinata o degradata.
Nell’informazione l’entropia definisce la quantità minima delle componenti fondamentali (bit) necessarie a descriverla, esattamente come i gradi di libertà descrivono lo stato di un sistema fisico. In altre parole essa indica la misura del grado di complessità di una informazione: una singola nota, un suono monotonale, possiede pochissima informazione, mentre la IX Sinfonia di Beethoven ne contiene molta di più. Però attenzione: il suono ricavato da mille radioline sintonizzate ognuna su una diversa stazione è sostanzialmente inintelligibile ma nel suo complesso contiene molta più informazione di quanta ne abbia mai scritta il celebre compositore in tutta la sua vita. Per poter ascoltare la IX Sinfonia trasmessa da una sola radio dovremmo spegnere tutti gli altri ricevitori o alzare il volume di quella radiolina fino a sovrastare il rumore proveniente dalle altre, ossia compiere un lavoro o iniettare energia dall’esterno.
La termodinamica dei buchi neri
Le tre leggi della termodinamica dei buchi neri Come per la termodinamica classica anche quella dei buchi neri ha le sue leggi non meno importanti. L’analogia tra i due insiemi di assiomi indica anche la strada da seguire per comprendere il bizzarro fenomeno. Legge zero della termodinamica dei buchi neri Per un buco nero stazionario la gravità all’orizzonte degli eventi è costante. Questo sembra un concetto banale ma non lo è. Per qualsiasi corpo in rotazione su un asse anche se di forma perfettamente sferica la gravità non è costante alla sua superficie: ce ne sarà un po’ di più ai poli e un po’ meno al suo equatore. Questo principio ricorda che l’orizzonte degli eventi invece è un limite matematico dettato esclusivamente dall’equilibrio tra la gravità e la velocità della luce. Prima legge della termodinamica dei buchi neri Nei buchi neri stazionari ogni variazione o apporto di energia comporta una modifica della sua area: $$d M={\frac{\kappa}{8\pi}}\,d A_{OE}\,+\,\Omega d J\,+\,\Phi d Q\,$$ I buchi neri sono descritti da solo tre parametri: la massa \(M\) , la carica elettrica \(Q\) e momento angolare \(J\) . Come nell’esempio nell’articolo è quindi possibile calcolare quanto varia l’area di un buco nero in cui una quantità di materia/energia diversa da zero cade oltre l’orizzonte degli eventi. Tralasciando le note costanti naturali \(G\) e \(c\), \(\kappa\) indica la gravità superficiale all’orizzonte degli eventi, \(A_{OE}\) l’area di questo, mentre \(\Omega\) la velocità angolare, \(J\) il momento angolare, \(\Phi\) il potenziale elettrostatico, \(Q\) la carica elettrica sono propri del buco nero all’orizzonte degli eventi. Questo complesso schema matematico è molto simile alla descrizione del Primo Principio Termodinamico dove si scopre che il differenziale energetico \(E\) è correlato alla temperatura \(T\), all’entropia \(S\) e alla capacità di svolgere un lavoro \(W\) in un sistema chiuso: $$dE=TdS\,+\,dW$$ Seconda legge della termodinamica dei buchi neri La somma dell’entropia ordinaria esterna al buco nero con l’entropia totale di un buco nero aumenta nel tempo come conseguenza delle trasformazioni generiche di questo: $$\Delta S_{o}\,+\,\Delta S_{BN}\,\geq\,0$$ Il Secondo Principio Termodinamico richiede che l’entropia di un sistema chiuso debba sempre aumentare come conseguenza di trasformazioni generiche. Se un sistema ordinario cade in un buco nero, la sua’entropia \(S_{o}\) diventa invisibile ad un osservatore esterno ma con questa interpretazione si esige che l’aumento dell’entropia del buco nero \(S_{BN}\) compensi la scomparsa di entropia ordinaria dal resto dell’universo. Con la scoperta della radiazione di Hawking è anche evidente il decremento della massa di un buco nero che essa comporta. Di conseguenza ci si dovrebbe aspettare che anche l’entropia connessa alla sua area diminuisca. Con questa interpretazione (Bekenstein, 1973) si tiene conto anche del fenomeno di evaporazione. Terza legge della termodinamica dei buchi neri È impossibile annullare la gravità dell’orizzonte degli eventi con qualsiasi processo fisico. Il Terzo Principio Termodinamico afferma che è fisicamente impossibile raggiungere una temperatura nulla tramite qualsiasi processo fisico. Applicato ai buchi neri questa legge mostra come sia impossibile raggiungere una gravità nulla all’orizzonte degli eventi di un buco nero. In linea di principio aumentando la carica elettrica di un buco nero, sarebbe possibile cancellare l’orizzonte degli eventi e mostrare così finalmente la singolarità nuda. Tuttavia, l’energia che dovremmo iniettare nel buco nero sotto forma di particelle cariche sarebbe sempre più grande tanto più ci si avvicinasse al risultato senza mai poterlo raggiungere.
Un buco nero è causato dal collasso della materia o, per l’equivalenza tra materia ed energia, dalla radiazione, entrambi i quali possiedono un certo grado di entropia. Tuttavia, l’interno del buco nero e il suo contenuto non sono visibili ad un osservatore esterno. Questo significa che non è possibile misurare l’entropia dell’interno del buco nero.
Nell’articolo precedente [cite]https://ilpoliedrico.com/2017/03/il-principio-olografico-dei-buchi-neri-lorizzonte-degli-eventi.html[/cite] ho detto che un buco nero stazionario è parametrizzato unicamente dalla sua massa, carica elettrica e momento angolare. Secondo il No Hair Theorem tutto ciò che scompare oltre l’orizzonte degli eventi viene totalmente sottratto all’universo. Quello che potremmo percepire di un buco nero sono la sua massa, carica elettrica e momento angolare; pertanto le medesime proprietà possedute da un oggetto inghiottito da un buco nero verrebbero a sommarsi con le precedenti, contribuendo così alla loro espressione complessiva. In soldoni — trascurando per un attimo la sua carica elettrica e il momento angolare — un oggetto di massa \(m\) andrebbe a sommarsi a \(M_{BN}\) del buco nero, cosi che \(M_{BN}’\) finirebbe per essere \(m+M_{BN}\) facendo crescere anche la dimensione dell’orizzonte degli eventi.
Ma secondo questa interpretazione, null’altro rimarrebbe dell’oggetto finito oltre l’orizzonte degli eventi, la sua entropia andrebbe perduta per sempre. Questa interpretazione — come fece notare per primo Bekenstein — cozza però col Secondo Principio della Termodinamica che afferma che il grado di disordine – entropia – di un sistema chiuso — l’Universo è un sistema chiuso — può solo aumentare. Quindi qualsiasi cosa, materia o energia, che finisse oltre l’orizzonte degli eventi di un buco nero finirebbe per sottrarre entropia all’universo, e questo è inaccettabile.
L’unico modo per non contraddire questa legge fondamentale 2 è assumere che anche i buchi neri abbiano un’entropia.
Questa come si è visto dipende dalla massa/energia che cade in un buco nero e che va a sommarsi alla precedente, e, visto che per l’interpretazione classica niente può uscire da un buco nero, non può che aumentare col tempo. Ma anche le altre due proprietà, carica elettrica e momento angolare, contribuiscono nella loro misura a descrivere compiutamente un buco nero. Per ogni combinazione di questi tre parametri si possono perciò teorizzare altrettanti stati diversi riguardo ad esso; quello che ne esce è un concetto molto simile all’entropia legata ai possibili microstati della termodinamica statistica. L’entropia, ossia l’informazione di questi microstati, è pertanto distribuita sull’unica parte accessibile all’universo, la superficie dell’area dell’orizzonte degli eventi.
In natura la più piccola unità dimensionale di superficie è l’Area di Planck, quindi è naturale esprimere l’entropia di un buco nero in questa scala. Per descrivere matematicamente l’entropia \(S\) 3 di un buco nero di Schwarzschild partendo dall’area dell’orizzonte degli eventi \(A_{O E}\), allora dovremmo scrivere $$\tag{1}S_{buco nero}={A_{O E}\over 4 L_{P}^2}={c^3 A_{O E}\over 4 G \hbar}$$ dove \(L_{P}\) è la lunghezza di Plank, \(G\) è la Costante di Gravitazione Universale, \(\hbar\) la costante di Plank ridotta e \(c\) ovviamente la velocità della luce, sapendo che la suddetta area è condizionata unicamente dalla massa del buco nero $$\tag{2}A_{O E}=16\pi \frac{G^2M_{BN}^2}{c^4}$$.
Facciamo ad esempio l’ipotesi, che poi servirà in futuro per illustrare il Principio Olografico e che si rifà anche direttamente alla Prima Legge della Termodinamica dei Buchi Neri (vedi box qui accanto), di un fotone avente una lunghezza d’onda \(\lambda\) — la lunghezza d’onda di un fotone è inversamente proporzionale alla sua energia — che cade in un buco nero di massa \(M_{BN}\) e di conseguenza di raggio \(r_{S}\) da una direzione indeterminata.
Avvicinandosi all’orizzonte degli eventi suddetto fotone finirà per decadere fino ad avere una lunghezza d’onda paragonabile alla dimensione del raggio di Schwartzschild: \(\lambda\sim\pi r_{S}\).
L’energia rilasciata dal fotone nel buco nero quindi è $$\tag{3}d E = \frac{hc}{\lambda} = \frac{2\pi \hbar c}{r_{S}}$$
Per l’equivalenza tra massa ed energia — la stranota \(e=mc^2\) della Relatività Generale — la massa del buco nero finisce per crescere$$\tag{4}d M_{BN}=\frac{d E}{c^2} = \frac{2\pi \hbar}{c r_{S}}$$
Di conseguenza un aumento della massa, per quanto piccola, del buco nero finisce per far aumentare anche le dimensioni dello stesso nella misura $$\tag{5}d r_{S}=\frac{2G}{c^2} d M_{BN}=\frac{4\pi\hbar G}{c^3 r_{S}}$$
e anche l’area: $$\tag{6}d A_{OE}=4\pi d r_{S}^2 = 8\pi r_{S}d r_{S}=32\pi^2\frac{\hbar G}{c^3}$$
Anche se questo genere molto semplificato di buchi neri è solo teorico, permette però di esplorare la complessità del problema e di farsi un’idea delle dimensioni dell’entropia di un buco nero 4.
Prima di scrivere questo pezzo ho fatto una scorsa dei risultati che restituiscono i motori di ricerca sul Principio Olografico, giusto per curiosità. Ne è uscito un quadro desolante; da chi suggerisce che siamo tutti ologrammi alla medicina quantistica (roba di ciarlatani creata per i beoti). Ben pochi hanno descritto il modello e ancora meno (forse un paio sparsi nella profondità suggerita dal ranking SEO) hanno scritto che si tratta solo di un modello descrittivo. Cercherò ora di aggiungere il mio sussurro al loro, giusto per farli sentire un po’ meno soli.
Essenzialmente il mezzo più immediato e naturale che usiamo per descrivere il mondo che circonda è dato dalla vista. Essa però restituisce unicamente un’immagine bidimensionale della realtà, esattamente come fanno anche una fotografia o un quadro. Ci viene in soccorso la percezione della profondità spaziale, dove la terza dimensione emerge grazie all’effetto prospettico che fa apparire più piccole e distorte le immagini sullo sfondo rispetto a quelle in primo piano. L’unico mezzo veramente efficace che abbiamo per cercare di rappresentare correttamente la realtà è la matematica, anche se essa appare spesso controintuitiva.
Ripetendo in parte ciò che ho detto in altre occasioni, l’Uomo ha sempre cercato di dare una spiegazione convincente a tutto quello che lo circonda, che per brevità di termine chiamiamo realtà. Ad esempio, la scoperta delle stagioni, il costante ripetersi ogni anno delle diverse levate eliache e i cicli lunari sono culminati nell’invenzione del calendario, che nelle sue varie interpretazioni e definizioni, ha sempre accompagnato l’umanità. Eppure esso in astratto non è che un modello, grossolano quanto si vuole, ma che consente di prevedere quando sarà la prossima luna nuova o l’astro Sirio allo zenit a mezzanotte.
Anticamente anche le religioni erano modelli più o meno astratti che avevano il compito di spiegare ad esempio, i fulmini, le esondazioni, le maree, il giorno e la notte, etc.
Oggi sappiamo che i fulmini sono una scarica elettrica, che il giorno e la notte sono la conseguenza della rotazione terrestre e che le esondazioni avvengono perché da qualche altra parte piove.
Abbiamo teorizzato per secoli una cosmologia geocentrica e solo più tardi quella eliocentrica, quando abbiamo capito che la prima era sbagliata. Abbiamo accarezzato per un breve periodo l’idea galattocentrica prima di apprendere che le galassie erano più di una e il Sole era solo una comune stellina grossomodo a metà strada fra il centro e la periferia della Via Lattea, e abbiamo anche creduto ad un universo statico prima di scoprire che l’Universo si espandeva in dimensioni.
Anche tutti questi erano modelli e modelli pensati su altri modelli dati per sicuri finché non venivano dimostrati sbagliati. E questo vale anche per i modelli attuali e le teorie fino ad oggi considerate certe.
L’orizzonte degli eventi.
\(raggio_{Schwarzschild}=\left (\frac{2GM}{c^2} \right )\)
Il raggio dell’orizzonte degli eventi di un buco nero è restituito da questa formula matematica che stabilisce l’equilibrio tra gravità e velocità della luce. Esso esiste solo teoricamente perché si suppone che l’oggetto che ha dato origine al buco nero abbia avuto con sé un certo momento angolare che poi si è conservato.
Infatti, per descrivere matematicamente un buco nero reale si usa una metrica leggermente diversa che tiene conto anche del campo elettromagnetico e del momento angolare: quella di Kerr-Newman.
Già alla fine del 1700 si teorizzava di una stella tanto densa e massiccia da ripiegare la luce con la sua gravità. John Michell e Pierre-Simon de Laplace la chiamavano stella oscura. Ma fu solo dopo il 1915, con la Relatività Generale, che Karl Schwarzschild trovò le equazioni che descrivevano il campo gravitazionale di un oggetto capace di ripiegare la luce su di sé. Così fu evidente che esiste un limite, un orizzonte oltre il quale neppure la luce può sfuggire. Non è un limite solido, tangibile come quello di una stella o di un pianeta come talvolta qualcuno è portato a immaginare, ma è un limite matematico ben preciso definito dall’equilibrio tra la gravità e la velocità della luce, che è una costante fisica assoluta 1.
La relatività insegna che niente è più veloce della luce. Pertanto, basandosi solo su questo assioma, è ragionevole pensare che qualsiasi cosa oltrepassi l’orizzonte degli eventi di un buco nero sia definitivamente persa e scollegata dal resto dell’universo. Questa interpretazione, chiamata teorema dei buchi neri che non hanno capelli o No Hair Theorem, niente, più nessuna informazione potrebbe uscire una volta oltrepassato quel limite. Infatti se descrivessimo matematicamente un buco nero usando la metrica di Kerr-Newman – è una soluzione delle equazioni di Einstein-Maxwell della Relatività Generale che descrive la geometria dello spazio-tempo nei pressi di una massa carica in rotazione – viene fuori che un buco nero può essere descritto unicamente dalla sua massa, il momento angolare e la sua carica elettrica [1].
Cercare di spiegare la complessità dello spazio-tempo in prossimità degli eventi senza ricorrere alla matematica è un compito assai arduo.
L’oggetto che descrive Shwartzschild è solo il contorno osservabile di un buco nero. Ciò che vi finisce oltre scompare all’osservatore esterno in un tempo infinito. Egli vedrebbe che il tempo sul bordo degli eventi si ferma mentre la lunghezza d’onda della luce gli apparirebbe sempre più stirata 2 in rapporto alla sua metrica temporale, man mano che essa proviene da zone ad esso sempre più prossime fino a diventare infinita.
Invece, volendo fare un gedankenexperiment [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Esperimento_mentale[/cite] come avrebbe detto Einstein, per colui che cercasse di oltrepassare l’orizzonte degli eventi – ammesso che sopravviva tanto da raccontarlo – il tempo risulterebbe essere assolutamente normale e tramite misure locali non noterebbe alcuna curvatura infinita dello spaziotempo e finirebbe per oltrepassare l’orizzonte degli eventi in un tempo finito.
Appare controintuitivo ma è così. Se dovessimo assistere come osservatore privilegiato alla formazione di un buco nero dal collasso di una stella [cite]https://ilpoliedrico.com/2017/02/supernova.html[/cite], non vedremmo mai il nocciolo stellare oltrepassare l’orizzonte degli eventi. Noteremmo solo che la luce proveniente da esso diventa sempre più fioca: vedremmo che i raggi gamma più duri emessi dal nocciolo diventare raggi X, poi luce visibile, infrarosso e radio e poi più nulla; nessuna radiazione, più nessuna informazione proveniente dal nocciolo stellare potrebbe più raggiungerci.
Quello che c’è oltre lo chiamiamo singolarità. Le leggi fisiche a noi note non possono più descrivere cosa succede oltre l’orizzonte degli eventi e tutto ciò che lo oltrepassa non può più comunicare il suo stato all’esterno.
È difficile descrivere ciò che non si può osservare.
Quando il luglio scorso terminai di illustrare per sommi capi l’energia oscura prevista nel modello \(\Lambda CDM\) accennai che anche altre teorie erano state suggerite per rimediare all’espansione accelerata dell’Universo e sull’esistenza dell’invisibile materia oscura. Mi riferisco alle teorie MOND (Modified Newtonian Dynamics), una classe di teorie che propongono alcune modifiche della legge di Newton per spiegare le curve di rotazione osservate nelle galassie. Ma prima di parlare di questa relativamente nuova classe di teorie che propone prospettive alquanto interessanti, voglio farvi parte di una mia riflessione sul significato della scienza che magari troverete stimolante.
Illustrazione del Mito della caverna in un’incisione del 1604 di Jan Saenredam. Credit: Wikipedia
2400 anni fa il filosofo greco Platone scriveva la sua opera Politéia, tradotto in italiano La Repubblica. In questa raccolta vi è l’allegoria del Mito della Caverna, una novella ricca di simbolismi che hanno a che fare più con la psiche umana che la scienza. Ma credo che almeno in questo caso l’interpretazione del messaggio sia altrettanto interessante,
Noi oggi esploriamo la realtà con una miriade di strumenti; misuriamo, cataloghiamo, cerchiamo nessi e proviamo a comporre puzzle assai distanti tra loro come il microcosmo e il macrocosmo. Ma l’atto ultimo, cioè quello di descrivere compiutamente quel che ci circonda, è esclusivamente compito del pensiero umano. E in questo noi siamo esattamente come quei prigionieri descritti da Platone, possiamo afferrare la realtà solamente per come la osserviamo, con gli strumenti che costruiamo per misurarla e niente più.
… pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli … incapaci … di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di legno, in qualunque modo lavorate … Se [essi] potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare oggetti reali le loro visioni? E se la prigione avesse pure un’eco dalla parete di fronte? Ogni volta che uno dei passanti facesse sentire la sua voce, credi che la giudicherebbero diversa da quella dell’ombra che passa?
Sappiamo creare teoremi, elaboriamo nuovi concetti che crediamo possano avvicinarsi il più possibile a descrivere la realtà. Ma questa è incurante di tutti i nostri sforzi e ancora qualcosa ci sfugge.
Il Cosmo è fondamentalmente indifferente alle vicende umane: esso esisteva 13 miliardi e rotti anni prima del genere umano e continuerà ad esistere ancora per eoni dopo che l’ultimo discendente dell’Uomo sarà scomparso.
Eppure lo stesso cerchiamo di dare un significato alle ombre, pensiamo che quella che vediamo e percepiamo sia la realtà. Ma sono convinto, credo che prima di tutto dovremmo imparare che non può esserci una realtà assoluta che potremmo mai comprendere.
Ogni teoria scientifica costruita dall’Uomo per descrivere quello che lo circonda, che sia la Λ CDM, il Principio Olografico, la Teoria delle Stringhe o il Modello Standard, tutte concezioni perfettibili e più o meno integrabili fra loro, descrivono qualcosa che le altre non fanno, tutto dipende da cosa e come si osserva e dall’osservatore.
In fondo è quello che ci insegna il principio ultimo della Relatività: tutto è relativo e non può esserci un osservatore più privilegiato di altri. L’atavico concetto antropocentrico su cui sono basate tante certezze assolute tipicamente umane messo di fronte a ciò che è si dimostra ancora una volta errato fin dalle sue fondamenta: l’Universo, il Cosmo, il Creato, chiamatelo come volete, aborre due cose: gli assoluti e gli infiniti.
A ben pensarci il messaggio che però ne viene fuori è bellissimo, un bagno di umiltà per tutto il genere umano. Non può esserci un teorema, un principio filosofico o religioso migliore degli altri. La scienza si è evoluta abbastanza nell’interpretare più o meno compiutamente la realtà, il Cosmo che ci circonda, lasciando alle religioni l’arduo fardello di cercare di rispondere al perché esiste l’Uomo e alle regole che esso sa imporsi. Guai a voler forzare queste due dottrine in un calderone unico o a escluderne una di loro d’imperio: esse sono egualmente e mutualmente necessarie per la comprensione del Cosmo.
In altre parole, volendo seguire la traccia indicata da Platone col Mito della Caverna, alla scienza spetta il compito di capire le ombre e alla religione il perché le vediamo.
La struttura interna di una stella massiccia al momento del collasso. In effetti somiglia a una cipolla. Gli strati non sono in scala ma servono a rendere l’idea.
Credit: Wikipedia.
Essenzialmente le stelle sono il prodotto di equilibrio tra la spinta del collasso gravitazionale di una nube di idrogeno e la pressione di radiazione fornita dalle fusioni nucleari di tale elemento che contrasta la spinta. Fino a circa 8 masse solari le stelle termineranno la loro vita con lenti e misurati sbuffi nello spazio arricchendo il cosmo di tutti quegli elementi così tanto preziosi alla vita: carbonio, azoto, ossigeno e tanto elio. Quelle più grandi invece saranno le protagoniste dei più possenti fuochi d’artificio cosmici che potreste immaginare. Immani esplosioni, chiamati supernova, sono capaci di rendere sterili i pianeti di sistemi stellari distanti decine di anni luce e ferendo gli altri per centinaia [cite]https://arxiv.org/abs/1605.04926[/cite] [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/0309415[/cite]. Solo meno del 8% delle stelle della Via Lattea possiede una così grande massa e di queste solo una minuscola frazione possiede una massa sopra le 25 masse solari [cite]https://ilpoliedrico.com/popolazioni-stellari-della-via-lattea[/cite]. Come si formino stelle massicce anche 100-120 volte la massa del Sole è rimasto e rimane un rebus difficile da comprendere e spiegare. Idealmente la nube stellare che collassa dovrebbe venir soffiata via subito dopo che la stella si sia accesa al suo centro e invece questo non sempre accade. Una combinazione di opacità della nube alla radiazione della protostella, magnetismo, composizione – le stelle meno ricche di metalli tendono ad essere più massicce – e momento angolare possono suggerire come si formino questi giganti del cosmo.
I tipi di supernova si dividono essenzialmente in due grandi categorie perché i meccanismi di innesco sono due e profondamente diversi tra di loro. Il modo più semplice ed immediato per distinguerle è osservare se nello spettro dell’esplosione è presente dell’idrogeno o meno. Se questo non è presente, allora stiamo osservando una supernova di tipo I, altrimenti siamo di fronte a un episodio di tipo II 1.
Non è una distinzione da poco, questa differenza indica che le origini della supernova sono totalmente dissimili; anche se l’evento parossistico è simile. Nel primo caso la causa scatenante è dovuta all’accrezione di una stella degenere (nana bianca o stella di neutroni) a scapito della sua compagna in un sistema stellare doppio o multiplo: quando la massa della prima raggiunge il limite di Chandrasekhar (1,4 M⊙, nella realtà l’evento supernova si scatena un attimo prima a causa della rotazione della stella degenere) 2 avviene l’esplosione, Per questo le righe dell’idrogeno della serie di Balmer non appaiono. Nel secondo caso, il più frequente ma il meno narrato nel dettaglio, è dovuto al collasso gravitazionale di una stella massiccia almeno 8 volte il Sole.
Essendo pur sempre fenomeni spettacolari, le supernovae tra le 8 e le 25 masse solari danno origine a esplosioni relativamente più deboli, mentre superata la soglia delle 25 M⊙ l’esplosione è qualcosa di veramente impressionante [cite]http://dx.doi.org/10.1016/S0375-9474(97)00289-3[/cite] [cite]https://arxiv.org/abs/astro-ph/9701131[/cite] [2] [ [3]. Cercherò ora di raccontarla.
– 5 830 000 anni – Sequenza principale – \(\left ( H \rightarrow He \right )\)
Si accende la stella. La sua composizione chimica è assai simile a quella del Sole; solo la massa è 25 volte più grande. Il nucleo è enorme, quasi 13 masse solari sono coinvolte nella fusione dell’idrogeno. Il processo di fusione principale è la catena CNO. Nelle stelle sopra le 15 masse solari il nucleo è interamente convettivo, questo spiega perché almeno metà della massa della stella è coinvolta attivamente nel processo di fusione nucleare. La temperatura nel nucleo raggiunge i 58 milioni di kelvin per una densità di soli 5 grammi per centimetro cubico. Non molti, quasi quanto quello della Terra. Nella sua breve permanenza nella sequenza principale la stella cresce in luminosità e dimensioni. Quando la percentuale di idrogeno nel nucleo diventa infinitesimale (meno di 6 atomi di idrogeno su 100 mila atomi di elio) la fusione principale si sposta sempre più verso un guscio più esterno raggiungendo la sua massima estensione in appena diecimila anni. Il nucleo di elio è 7 volte più grande del Sole mentre la massa interessata delle reazioni nucleari dell’idrogeno è di ben 14,5 masse solari. Intanto il vento stellare soffia via circa 5 miliardesimi di massa solare all’anno, aumentando di dieci volte di intensità verso la fine del periodo.
– 677 000 anni – Supergigante blu – \(\left ( He \rightarrow C O \right )\)
Negli ultimi diecimila anni di vita nella sequenza principale la pressione radiativa esercitata dalla sola fusione dell’idrogeno non basta più a contrastare il peso della stella e la forza gravitazionale la contrae verso il suo centro. La stella abbandona così la sequenza principale. Il suo nucleo di elio raggiunge 232 milioni di gradi per una densità di 700 gr/cm3 sovrastato da uno strato dove ancora si fonde idrogeno. Sotto la nuova spinta radiativa la stella si espande di nuovo e diventa una supergigante. Parte del suo strato più esterno viene disperso nello spazio e soffiato via, mentre il vento stellare si fa via via più poderoso. Inizia così il bruciamento dell’elio nel nucleo. Il prodotto finale è un nucleo di carbonio (12C) e ossigeno (16O) di poco più di 5 masse solari e l’inizio della degenerazione degli elettroni, il che per poco aiuta a sostenere il peso della stella. Ma non basta.
– 1000 anni – Supergigante – \(\left ( C \rightarrow Ne O \right )\)
Anche l’elio del nucleo è infine esaurito. Ne rimane un tenue strato in fusione sopra un nocciolo convettivo di carbonio e ossigeno. negli ultimi 200 anni di bruciamento dell’elio riprende la contrazione della stella finché la temperatura della fucina stellare arriva a 930 milioni di gradi per 200 kg/cm3 di densità. La natura convettiva dell’interno della stella fa sì che tutto sia continuamente mescolato; è così che parte degli atomi più pesanti prodotti nel nucleo raggiungono la superficie per essere poi persi nello spazio in un altro sbuffo di materia. Mentre l’intensità del vento stellare aumenta ancora, il processo di perdita importante di materia si ripeterà ogni volta che si riavvia il poderoso braccio di ferro tra gravità e pressione energetica rilasciata dalle reazioni termonucleari.
– 200 anni – Supergigante – \(\left ( Ne \rightarrow O \right)\)
Negli ultimi 80 anni del ciclo precedente tutto sembra ripetersi sempre più furiosamente, contrazione, perdita di altra massa stellare e così via. La temperatura nel sempre più piccolo nucleo di neon e ossigeno grande una volta e mezza il Sole sale fino a 1.75 miliardi di gradi per 4 tonnellate per centimetro cubico. Intanto, gusci concentrici al nucleo continuano a bruciare carbonio e elio, ma sono ormai quasi esausti.
-9 mesi – Supergigante gialla – \(\left ( O \rightarrow S Si Ar \right )\)
Un nuovo parossismo scuote il centro della stella. Nei suoi ultimi mesi di vita la temperatura del nucleo arriva a 2.32 miliardi di gradi per 10 t/cm3 riuscendo a fondere l’ossigeno in un nocciolo di zolfo, silicio e argon mentre il vento stellare continua furiosamente ad espellere massa al feroce ritmo di 5 decimillesimi di masse solari all’anno, quasi 170 volte la massa di Giove.
-1 giorno – Supergigante gialla – \(\left ( Si \rightarrow Fe \right )\)
Ormai le temperature e pressioni al centro della stella sono del tutto fuori controllo. 4 miliardi di gradi per 30 tonnellate per centimetro cubico fondono anche il nocciolo di silicio grande 1.1 volte il Sole.
Dal bruciamento del silicio hanno origine gli isotopi del silicio (30Si – 0.187 M⊙), dello zolfo (34S – 0.162 M⊙) e del cromo (52Cr – 0.113 M⊙). Ma soprattutto tanto ferro (56Fe – 0.547 M⊙) e cromo (52Cr – 0.251 M⊙). A 100 milioni di tonnellate/cm3 anche i neutroni degenerano. Il nocciolo ha ormai raggiunto quasi 7 miliardi di gradi e 3000 tonnellate per centimetro cubico di densità. è in realtà un nucleo di materia ormai degenere.
Negli ultimi 40 minuti solo un tenue guscio di silicio e la resistenza alla compressione degli elettroni degeneri trattiene la stella dall’inevitabile catastrofe.
– 0,25 secondi – Il collasso finale
Finalmente la gravità pare vincere sulle reazioni termonucleari che hanno sostenuto la stella per quasi 6 milioni di anni. La stella collassa su sé stessa alla tremenda velocità di 50 mila chilometri al secondo, un sesto della velocità della luce. Sotto questa immane pressione, 100 milioni di tonnellate per centimetro cubico e quasi 35 miliardi di gradi, i nuclei dell’elemento ferro interagiscono con gli elettroni degeneri: i protoni si fondono con gli elettroni convertendosi in neutroni generando anche una cascata di neutrini. Il nucleo ormai è in immenso neutrone di appena 40 chilometri di diametro. Ne consegue che la materia che cade sul nucleo di neutroni anelastico rimbalza via praticamente alla stessa velocità del collasso scontrandosi con la parte della materia ancora in caduta libera. Lo shock provoca processi di disintegrazione e rifusione per cattura neutronica di elementi più pesanti del ferro che assorbono energia. L’energia così dissipata è paragonabile a quella emessa dalla stella nei suoi quasi 6 milioni di anni di vita. Dietro lo shock i protoni tornano a legarsi con gli elettroni producendo un flusso di neutrini energetici, i quali rappresentano una grande percentuale dell’energia rilasciata nel crollo della stella.
Intanto il nucleo in collasso diventa opaco ai neutrini che possono diffondersi così solo per scattering, analogamente ai fotoni emessi dalla stella fino a pochi attimi prima. Come per una stella esiste la fotosfera, cioè dove la stella diventa trasparente alla radiazione elettromagnetica, così si può parlare di neutrinosfera dove la densità del nucleo di neutroni diventa abbastanza bassa da consentire la fuga dei neutrini. L’onda d’urto che si infrange sul nucleo è causa di una convezione instabile che converte l’energia termica intrappolata nel nucleo in energia cinetica trasportata dai neutrini intrappolati. Questo processo raffredda il nucleo di neutroni fino a poche decine di milioni di gradi in pochi secondi mentre parte dell’energia cinetica dei neutrini (circa lo 0,3% sembra niente ma è pur sempre una quantità spaventosa di energia) viene assorbita e dispersa dagli strati coinvolti nello shock di rimbalzo contribuendo anch’essa all’esplosione finale.
I resti
Relazione di massa iniziale e finale per le stelle di composizione solare. La linea blu indica la massa stellare dopo il bruciamento del nucleo di elio. Per M ~ > 30 M⊙ il nucleo di elio è esposto come una stella WR, la linea tratteggiata offre due diversi scenari dipendenti dall’incertezza dei tassi di perdita di massa WR. La linea rossa indica la massa del residuo stellare compatto, risultante dalla perdita di massa AGB per le stelle di massa intermedia, e l’espulsione dell’ involucro nel casa del collasso del nucleo per le supernova delle stelle più massicce. Le aree verdi indicano la quantità di massa espulsa che è stata processata dalla combustione dell’elio e dalla combustione nucleare più avanzata. (Figura da Woosley et al. 2002).
Quel che resta del nucleo dipende dalla sua massa finale dopo lo shock [4]. E questo è funzione della metalliticità iniziale della stella e della massa finale del nucleo. Il caso delle 25 M⊙ per una stella di composizione simile al Sole è un caso limite fra un residuo di neutroni e un buco nero anche se qui il primo caso è da preferirsi.
Se l’inviluppo di idrogeno è ancora importante la sua ricombinazione dallo stato ionizzato fornisce altra energia che diventa sempre più visibile man mano che nel processo di espansione diventa più sottile e freddo. Comunque la ricombinazione ovviamente interessa anche gli elementi più pesanti quando vengono raggiunte temperature e densità adeguate dalla materia espulsa dalla supernova. È questo fronte di ricombinazione che produce il plateau nella curva di luce che verrà osservata nei mesi successivi all’esplosione.
Nella fase finale la curva di luce della supernova è dominata dai processi di decadimento radioattivo degli isotopi prodotti dall’esplosione, soprattutto il nichel (56Ni + e– → 56Co + ν + γ τ½ = 6.1 giorni) e il cobalto (56Co + e– → 56Fe + ν + γ τ½ = 77 giorni) verso il ferro. Anche il decadimento di altri isotopi meno diffusi e con tempi di decadimento diversi contribuisce a suo modo alla curva di luce.
Per alcuni mesi, il bagliore incandescente dei resti della supernova è quanto quello di un centinaio di miliardi di stelle come il Sole, più o meno quanto quello della galassia ospite. Poi, pian piano, il bagliore scema, ma può comunque essere ancora un centinaio di milioni più intenso della nostra stella. Dopo l’esplosione il nucleo di neutroni è quel che rimane della grande stella. La sua massa supera di poco quella del Sole compressa in uno spazio di una ventina di chilometri di diametro che ruota su sé stesso almeno dieci volte al secondo: una stella di neutroni. Anche il momento magnetico dell’antica stella è compresso nel piccolo nocciolo dando origine a un campo magnetico 100 miliardi di volte più intenso di quello terrestre. Nella pratica il resto si comporta come un’enorme dinamo celeste che cattura gli elettroni rimasti ancora liberi e li accelera fino quasi alla velocità della luce. Questo produce luce. Luce che illumina i resti della supernova in espansione come le comuni stelle illuminano le nebulose planetarie. Lo spettacolo non dura molto perché sottrae energia cinetica alla stella di neutroni che rallenta; ci vogliono circa 25 mila anni ma anche questo infine ha termine.
Mentre ho volutamente tralasciato da questa cronaca alcune cose che ritengo essere di secondo interesse per il lettore, altre magari mi sono senz’altro sfuggite per mia disattenzione.
Le cifre che ho riportato sono frutto di calcoli basati sui modelli attuali e pertanto sono da considerarsi solamente indicative della scala dei reali valori in gioco per una stella di 25 M⊙.
Non ho altro da aggiungere se non … cieli sereni!
Chi ama Star Trek non può non sapere che alcune razze aliene (Vulcaniani, Andoriani e Boliani) descritte nella saga posseggono un ciclo dell’eme basato sul rame piuttosto che il ferro. Ma quella che sembra una semplice trovata narrativa tipica della fantascienza, è molto più vicina alla realtà di quanto si pensi.
Un polpo di profondità della specie Gradeledone Boreopacifica. Questa specie vive a 2000 metri di profondità e la sua ‘emolinfa è a base di rame (emocianina).
Quasi tutta la vita animale terrestre fa uso dell’ossigeno per compiere i suoi processi metabolici. Negli organismi più piccoli e semplici le molecole d’ossigeno sono direttamente assorbite dalle cellule dal mezzo circostante, come l’aria, attraverso un intricato sistema capillare di condotti, chiamato sistema tracheale. Questo sistema di trasporto dell’ossigeno lo si trova ancora in uso nella stragrande maggioranza degli insetti, ossia in tutti quelli che ancora possiedono spiracoli tracheali (stigmi).
Finché l’organismo è abbastanza semplice e piccolo il sistema respiratorio basato sul trasporto diretto delle molecole di ossigeno funziona benissimo, ma appena questo si fa più complesso o le complessità dell’habitat rendono il sistema tracheale inefficiente, ecco che in natura appare un sistema respiratorio più complesso ed efficace basato su un sistema di trasporto capillare di proteine respiratorie conosciuto come emolinfa.
Le origini dell’emocianina
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Questo curioso animale (Limulus polyphemus) è stretto parente di ragni e zecche ed è apparso sulla Terra circa 20 milioni di anni fa. L’emolinfa dei lemuli è praticamente incolore ma assume un colore azzurrognolo a contatto con l’aria dovuto all’ossidazione dell’emocianina. l’emolinfa è preziosa per la medicina: essa contiene una proteina che è grado di riconoscere efficacemente i lipopolisaccaridi presenti sulla parete dei batteri Gram negativi ed eliminare questi ultimi racchiudendoli in un coagulo. Questa capacità ha portato allo sviluppo del test in vitro LAL (saggio del lisato di amebociti di limulus).
Le emolinfe sono l’analogo del sangue dei vertebrati. La principale differenza sta negli emociti che sono basati su un tipo diverso di proteina fissatore di ossigeno, molto spesso l’emocianina, basata sul rame. Questa è una metalloproteina contenente due atomi di rame che sono in grado di legare reversibilmente una molecola di O2, al posto della più nota emoglobina usata dai vertebrati e che usa il ferro per legare l’ossigeno.
In genere sono le specie che vivono in ambienti particolarmente freddi e con una bassa pressione di ossigeno ad utilizzare questo meccanismo di trasporto nell’organismo. In queste circostanze l’emoglobina sarebbe meno efficiente dell’emocianina. L’emocianina presenta però anche una bassa affinità di legame col monossido di carbonio rispetto all’emoglobina, il che la penalizza nel trasporto degli scarti della respirazione cellulare.
L’attuale granchio a ferro di cavallo, o lemule, fa uso di emocianina quale proteina respiratoria e può essere considerato un fossile vivente perché nei 20 milioni di anni dalla sua comparsa non si è mai evoluto. I suoi predecessori quasi sicuramente erano le trilobiti (appartengono allo stesso phylum) vissute tra il Cambriano e il Permiano (520-250 milioni di anni fa), quando ancora la Terra non possedeva un’atmosfera ricca di ossigeno (<50% del livello attuale) come oggi [cite]https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC1578726/[/cite]. Ed è proprio in un ambiente relativamente povero di ossigeno che l’emocianina può essersi sviluppata circa 740 milioni di anni fa [cite]http://dx.doi.org/10.1016/j.bbapap.2013.02.020[/cite] poco dopo la comparsa delle prime forme di vita animali 750-760 milioni di anni fa [cite]http://sajs.co.za/first-animals-ca-760-million-year-old-sponge-fossils-namibia/brain-c-prave-anthony-hoffmann-karl-heinz-fallick-anthony-botha-andre-herd-donald-sturrock-craig[/cite]. In quel periodo va ricordato che l’ossigeno rappresentava appena il 5% del volume atmosferico e stava cominciando appena a formarsi lo scudo di ozono; la terraferma era ancora potenzialmente letale se non si era qualche temerario batterio estremofilo.
Le peculiarità dell’emocianina
Ricostruzione a 9 Å ottenuta grazie a un crio-microscopio elettronico della struttura dell’emocianina della Megathura crenulata.
L’emocianina è la seconda catena proteica respiratoria biologicamente più diffusa dopo l’emoglobina. La stragrande maggioranza dei molluschi come i bivalvi e i cefalopodi e anche alcuni gasteropodi, come i granchi, gli astici e i gamberi, usano l’emocianina come vettore biologico dell’ossigeno. Anche alcuni artropodi terrestri, come i centopiedi e i millepiedi, e qualche altro insetto usano l’emocianina [cite]https://dx.doi.org/10.1073/pnas.0305872101[/cite].
Come già accennato prima, l’emocianina usa gli atomi di rame per legare e trasportare ossigeno. Essa è composta da diverse sotto-unità proteiche individuali in cui ciascuna di esse possiede due atomi di rame (Cu-A e Cu-B) in grado di legarsi con una molecola di ossigeno (O2). Dette sub-unità poi tendono ad aggregarsi tra loro, per questo il peso dell’emocianina è generalmente alto; infatti la struttura molecolare dell’emocianina tende ad essere molto diversa tra gli artropodi (più grande in questi) e i molluschi [cite]http://www.nyu.edu/projects/fitch/resources/student_papers/nigam.pdf[/cite].
In ogni caso le emocianine nel loro complesso sono molto più grandi dell’emoglobina dei vertebrati e in numero nettamente maggiore per unità di volume. Queste catene proteiche possono trasportare dalle 5 alle 180 molecole di ossigeno ciascuna (dipende dalla quantità di sub-sezioni aggregate in una singola proteina) e circolare liberamente nell’emolinfa senza danneggiare l’organismo – l’emoglobina è molto più piccola e necessita di una cellula per non creare disagio – e per questo nel loro complesso paiono più efficienti. Ma le loro dimensioni e concentrazione aumentano la viscosità dell’emolinfa, il che comporta di conseguenza anche un maggior dispendio di energia per essere distribuita.
Conclusioni
A questo punto è plausibile pensare che la percentuale dell’ossigeno biochimicamente disponibile abbia pesantemente influenzato l’evoluzione della vita sulla Terra. L’aumento dei livelli di ossigeno molecolare disponibile alla respirazione fu reso possibile dalla comparsa di un’altra proteina, stavolta nel regno vegetale che da poco aveva iniziato a colonizzare anche la terraferma: la lignina (450 Myr) [cite]http://onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1111/j.1469-8137.2010.03327.x/full[/cite]. Questo deve aver reso l’esperienza dell’emocianina nel suo complesso inadatta ai più agili e veloci organismi vertebrati che sarebbero apparsi dopo.
L’emocianina e l’emoglobina sono due esperienze di convergenza evolutiva, due proteine con struttura e morfologia completamente dissimili che però svolgono nel complesso lo stesso compito.
Spesso la realtà è nettamente superiore e stupefacente della miglior fantascienza.
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Trailer della mini serie Mars di Ron Howard e Brian Grazer
A me non piace parlare di qualcosa che non conosco. Dopo aver visto questa mini serie – sei puntate di 47 minuti ciascuna – sento fortissimamente invece il bisogno di dire anch’io la mia.
Fantastica. Non possono esserci altre parole che questa per descriverla.
Anche se la storia principale è ambientata nel futuro (2033 – 2037), non trovo che il termine descrittivo fantascienza le si possa attribuire. È più una proiezione romanzata e piuttosto realistica di cosa dovrebbero aspettarsi i primi futuri esploratori umani di Marte.
In mezzo a questo plausibile scenario spezzoni di registrazioni di archivio, interviste e istantanee sullo stato attuale della ricerca per l’esplorazione umana del cosmo, trasformano la mini serie in un film documentario molto ben fatto. Mars non fa sconti. Tragedie umane, errori e incidenti vengono dipinti nella loro cruda realtà. Ma anche affetto, spirito di sacrificio e volontà sovrumane vengono evidenziate con altrettanta chiarezza.
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Il prequel di Mars in lingua originale
Ed è proprio su questi punti che vi invito a riflettere.
Marte è solo il principio. Se volessimo individuare un trampolino di lancio per il grande tuffo nell’Oceano Cosmico, solo Marte potrebbe esserlo. Nonostante possa essere strategicamente importante per l’esplorazione umana del cosmo, la Luna è ancora troppo vicina alla madre Terra perché possa esserlo. Un insediamento umano permanente sulla Luna potrebbe essere essenziale per conquistare Marte, ma non potremmo mai considerarci una specie interplanetaria finché non avremmo colonizzato Marte.
E colonizzare Marte significa creare un insediamento umano autosufficiente. I futuri coloni avranno davanti a sé un mondo ostile, senz’aria e sterile. Questi non potranno contare sui rifornimenti da casa, dovranno arrangiarsi con le scorte iniziali e quel poco che il Pianeta Rosso potrà loro offrire in quel momento. Le sfide ingegneristiche saranno enormi, ma niente che non sia già alla portata della tecnologia attuale o di quella che si svilupperà nel giro dei prossimi cinquant’anni. Ma la sfida più grande sarà tutta umana. Fino alla prima metà del XX secolo le esplorazioni erano tutte ad alto rischio di perdite di vite umane. Cercate le storie di Roald Amudsen che nel 1911 raggiunse il Polo Sud e quelle di Frederick Cook per il Polo Nord. La conquista dei poli richiese il grande sacrificio di uomini, mezzi e capitale. Cercate la tragedia del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile [cite]http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/video/la-spedizione-del-dirigibile-italia/1127/default.aspx[/cite] e capirete cosa intendo. Allora non c’erano satelliti guida, aerei e altri mezzi di soccorso e anche domani i pionieri di Marte saranno soli.
Eppure quello è inevitabilmente il futuro della specie umana se non ci avviteremo in una spirale di odio alimentata dai tanti manicheismi odierni.
Diventare una specie interplanetaria sarebbe il salto evolutivo più importante del genere Homodalla comparsa dell’Homo Sapiens. Il bello è che questa volta potremmo essere noi a decidere il futuro evolutivo della nostra specie.
Come giustamente viene fatto notare nell’ultima puntata 1, l’incidente dell’Apollo 13 – e l’esoso costo del conflitto in Vietnam – spinse gli Stati Uniti a rivedere le sue priorità nella ricerca spaziale; da una parte Von Braun che sosteneva un ambizioso programma spaziale rivolto verso Marte [1. Next, Mars and Beyond, 25 luglio 1969. «Even as man prepared to take his first tentative extraterrestrial steps, other celestial adventures beckoned him. The shape and scope of the post-Apollo manned space program remained hazy, and a great deal depends on the safe and successful outcome of Apollo 11. But well before the moon flight was launched, NASA was casting eyes on targets far beyond the moon. The most inviting: the earth’s close, and probably most hospitable, planetary neighbor. Given the same energy and dedication that took them to the moon, says Wernher von Braun, Americans could land on Mars as early as 1982.».] e dall’altra il Presidente Richard Nixon che non era mai stato un grande sostenitore dell’esplorazione spaziale. Alla fine vinse il programma meno costoso e meno ambizioso, quello dello Space Shuttle. Non che lo Shuttle non servisse, anzi, ci ha dato la prima vera stazione spaziale internazionale ISS e tanto altro, ma per quasi cinquant’anni ci siamo fermati ai margini del conosciuto. Più in là abbiamo osato mandare solo piccoli robot e sonde automatiche. La strategia dei piccoli passi di Nixon quasi certamente ci ha resi più maturi e consapevoli di quanto lo fossimo stati nell’era pre-spaziale ai tempi del programma Gemini e di questo credo dovremmo essergli grati.
Ma adesso è giunto il momento di andare oltre, verso Marte.
Il Moloch orridus o Drago Spinoso,è una lucertola dei deserti australiani. Le sue scaglie sono increspate per permettere all’animale di raccogliere l’acqua da ogni parte del suo corpo. Così quando hanno bisogno di bere, è sufficiente che tocchino l’acqua che per il principio di capillarità questa viene inviata alla bocca attraverso la pelle.
L’altro ieri su una pagina Facebook che frequento (Gruppo Locale Bar) è apparsa una domanda assai intrigante:
“Date le estreme diversità nelle forme di vita apparse qui sulla Terra nel corso delle ere, dagli organismi microscopici unicellulari ai pachidermi del mesozoico come i titanosauri, quale potrebbe essere l’aspetto delle forme di vita animali in un mondo che è tre o quattro volte più grande della Terra? Ci sono limiti biologici o ambientali strutturali che condizionano l’evoluzione?“
Le domande non sono mai banali
Rispondere a questa domanda non è affatto semplice. Noi non conosciamo alcuna forma di vita extraterrestre, per ora possiamo solo speculare con quello che finora oggi abbiamo imparato qui sulla Terra nella speranza che poi i fatti un giorno ci diano ragione.
Possiamo intuire che esistano dei limiti fisici oltre il quale un pianeta possa considerarsi inadatto ad ospitare qualsiasi forma di vita quale noi la conosciamo, l’indice ESI [cite]https://ilpoliedrico.com/2014/06/lindice-esi-earth-similarity-index.html[/cite] e una ecosfera favorevole all’acqua liquida [cite]https://ilpoliedrico.com/2016/07/lampiezza-zona-goldilocks.html[/cite] possono aiutare a tracciare un quadro abbastanza ragionevole su dove cercare la vita extraterrestre.
Sulla Terra sperimentiamo le medesime leggi fisiche che vediamo operare in ogni angolo dell’Universo che scrutiamo: la stessa legge di gravità che fa qui cadere le foglie in autunno e che tengono la Luna in orbita attorno alla Terra, tiene insieme le stelle anche nelle galassie più lontane; la stessa chimica che governa qui, funziona con le stesse regole anche nelle nebulose più lontane della nostra galassia così come ai confini dell’Universo. Ma ancora non sappiamo se le stesse leggi biologiche terrestri – DNA, meccanismi biologici etc. – possono essere applicabili anche altrove.
Quindi è estremamente importante sapere – o immaginare – su quale biologia queste forme di vita aliena sono basate. Quasi sicuramente esse sono basate sul carbonio-acqua – idrogeno, ossigeno e carbonio sono gli atomi più diffusi dell’Universo – ma potrebbero avere una biologia, e quindi meccanismi di risposta ai processi cellulari, completamente dissimili dai nostri. DNA diversi, aminoacidi e proteine totalmente diverse da quanto noi abbiamo immaginato e supposto potrebbero influenzare i percorsi evolutivi in modi impensati. Basta guardare le creature che esistono, o sono esistite qui sulla Terra per rendersi conto che per ogni habitat esistono decine di risposte evolutive diverse della stessa biologia. E lo stesso ci si deve aspettare che debba accadere anche negli altri mondi. Della fisica e della chimica possiamo vederne e studiarne gli effetti e le interazioni anche nei più remoti angoli dell’Universo che riusciamo a raggiungere ma della biochimica e della biologia no; possiamo, per ora, prender per buono e, per il principio di mediocrità, universalmente valido quello che osserviamo sulla Terra.
Riflessioni ad alta voce
Un esemplare di Bathynomus giganteus. Questi crostacei abissali vivono negli oceani oltre i 170 metri di profondità, dove la pressione supera le 18 – 20 atmosfere.
Speculativamente, perché niente qui è certo fuorché l’incertezza, qui sulla Terra sono stati scoperti batteri che vivono nelle rocce compatte del sottosuolo, estremofili che sopportano 115-130 MPa di pressione, altri che vivono fino a 120° Celsius o nelle acque radioattive dei reattori nucleari. Niente sembra poter ostacolare la vita quando questa trova il modo di attecchire.
Su pianeti il doppio o il triplo della Terra le forme di vita multicellulari potrebbero essersi sviluppate di conseguenza al seguito del doppio o del triplo della gravità. Qui la maggior parte delle forme di vita animale superiore ha scelto quattro arti per la locomozione: un buon compromesso tra efficienza nella locomozione e la complessità del meccanismo di controllo. In un mondo ad alta gravità la stabilità nella locomozione potrebbe aver preso la via di più zampe e di un corpo più schiacciato e tozzo come quello degli isopodi terrestri. Un corpo dotato di corazza pensato più per prevenire i danni da caduta che per la difesa dagli attacchi di altri predatori, molte piccole zampe piuttosto che quattro semplici arti, e così via. Anche l’intero sistema vascolare sarebbe completamente diverso, dovendo rispondere ad una gravità più alta.
Oppure, nei pianeti più grandi potrebbero non essersi mai sviluppate grandi forme di vita animale o esistere solo quelle confinate nei mari e negli oceani di acqua liquida dove la spinta idrostatica mitiga la gravità, mentre sulla terraferma colonie batteriche o di microorganismi vegetali potrebbero estendersi per chilometri quadrati nutrendosi di elementi minerali prelevati dal suolo e di radiazioni solari.
Civiltà extraterrestri
Sono da sempre convinto che la Vita sia parte del processo evolutivo universale. Penso che essa sia la naturale conseguenza delle leggi fondamentali che regolano questo universo. È soltanto di pochi giorni fa la scoperta di nubi fredde di monossido di carbonio (\(CO\)) a 10 miliardi di anni luce [cite]http://science.sciencemag.org/content/354/6316/1128[/cite], segno che la primissima generazione stellare era riuscita già a sintetizzare ed espellere ingenti quantità di ossigeno e carbonio già solo quasi quattro miliardi di anni dopo il Big Bang. In fondo quali elementi possono essere più significativi in una entità biologica se non idrogeno, carbonio, ossigeno, più una spruzzata di pochi altri elementi?
E credo che l’intelligenza intesa nella sua forma più semplice, cioè nella capacità di valutare e scegliere la migliore strategia di sopravvivenza, sia anch’essa altrettanto diffusa là dove è apparsa la Vita.
Ma pur partendo da queste premesse credo che ambienti adatti alla Vita siano rari nell’Universo. Non impossibili ma rari. La Terra è uno di questi luoghi. Una diversa orbita, una diversa densità o un diverso asse avrebbero certamente compromesso il delicato equilibrio di pressione, temperatura e insolazione che qui sono stati fondamentali per lo sviluppo di forme di vita superiori. Anche la stabilità del Sole e la favorevole orbita galattica hanno evitato che in questi quasi 5 miliardi di anni (che non sono poi così pochi, circa un terzo dell’età dell’Universo) il nostro pianeta venisse irrimediabilmente sterilizzato dai raggi ed eventi cosmici sfavorevoli. Sì certo, ci sono stati anche per la Terra dei periodi di crisi profonda, ma se questo indica che la Vita è veramente tenace ove attecchisce, dimostra anche che le forme di vita superiori possono essere molto rare e anche molto fragili.
Se non fosse stato per il meteorite di Chicxulub [cite]https://ilpoliedrico.com/2011/03/la-gola-del-bottaccione.html[/cite] e le eruzioni del Deccan [cite]https://it.wikipedia.org/wiki/Trappi_del_Deccan[/cite] forse la specie umana non sarebbe mai esistita, mentre altri eventi cruciali nella nostra storia avrebbero potuto spingerci a non sviluppare mai una civiltà tecnologicamente avanzata.
Poi c’è anche un altro aspetto che spesso viene dimenticato: l’Universo è sì vasto da rendere anche l’evento più raro come potenzialmente ripetibile, ma è anche esteso nel tempo. Anche se decidessimo di considerare gli ultimi 8 – 10 miliardi di anni come potenzialmente adatti alla Vita nell’Universo, questo è un lasso di tempo enorme se paragonato ai 200 mila anni dell’uomo moderno e che da appena un centinaio di anni abbiamo imparato a capire cos’è veramente il Cosmo.
È difficile sperare che un’altra civiltà si sia sviluppata più o meno quando la nostra e che sia anche a portata di dialogo; è ben più probabile che io – noi fossimo qui in questo luogo e momento l’unico angolo di Universo abbastanza evoluto da porsi delle domande sulla propria esistenza. Le domande non sono mai banali.
Un cammino che parte da lontano nel tempo: Gennaio 2010. Questa era la testata originale nata su Blogspot, la piattaforma blog di Google, e che per tanti anni aveva distinto il Blog da tutti gli altri.
E dopo sei lunghi anni e svariati tentativi rimasti su carta, ecco il nuovo logo. Arrivato dopo il cambio di tema di maggio e il supporto SSH di settembre, la nuova veste grafica è stata profondamente rivista e curata, dalle animazioni delle finestre fino ai font dei caratteri, dal pieno supporto degli articoli con più autori all’interfaccia audio che legge gli articoli per gli ipovedenti e tante altre migliorie non solo estetiche, spero che il restyling sia da voi gradito.
Nelle mie continue ricerche mi sono imbattuto sulla leggenda Maori che descrive la nascita della Via Lattea. L’ho trovata carina, e penso che sia una delle più belle leggende sulla creazione della nostra galassia abbia mai letto.
La cosa che più mi ha colpito è quando il Dio del Cielo chiede il permesso e consiglio a un semplice uomo mortale, cosa che nel pantheon greco-romano nessuno avrebbe mai pensato di fare. Ma non voglio rovinarvi la lettura.
Te Waka o Tama Rereti Credit: John Drummond
Molto tempo fa, subito dopo le prime persone apparvero sulla Terra, non c’erano ancora le stelle nel cielo notturno. Era così buio che era impossibile vedere e muoversi di notte senza inciampare. Solo il Taniwha (lo spirito delle acque e custode della natura) era l’unica creatura che era in grado di muoversi nel buio. Qualsiasi cosa che si fosse mossa nell’oscurità rischiava di essere divorata dal Taniwha che durante il giorno riposava sul fondo dei laghi e dei fiumi.
In quell’epoca viveva anche un grande e astuto guerriero di nome Tama Rereti. La sua casa era sulla sponda sud del grande lago Taupo.
Una mattina di primavera, Tama Rereti si svegliò nella sua capanna 1 e si scoprì molto molto affamato ma in casa non aveva più niente mangiare. Così, osservando le acque increspate del lago, decise di andare a pesca, per poter catturare qualche pesce per se stesso e la sua famiglia.
E così Tama Rereti raccolse le sue reti ele esche e le mise nella sua canoa 2, dopodiché issò la vela e uscì fuori sul lago. Quando giunse nel suo luogo di pesca preferito abbassò la vela e cominciò a pescare. Quando Tama Rereti ebbe preso qualche bel pesce decise di tornare al villaggio per mangiare.
Però purtroppo il vento era calato e fu bonaccia. Ma la giornata era mite e durante il lungo viaggio di ritorno Tama Rereti si concesse un sonnellino sdraiandosi sul fondo della canoa. Cullato dal dolce dondolio della barca e il suono delle onde si addormentò. Mentre Tama Rereti dormiva si alzò una dolce brezza che sospinse la canoa fino alla riva nord del grande lago. Quando si svegliò vide con sua grande sorpresa che era dalla parte opposta del lago. Non c’era modo che potesse tornare a casa prima del tramonto. E sapeva che dopo il tramonto il Taniwha guardiano del lago, mangiava tutto ciò che si muoveva nel buio e che questa sorte sarebbe presto capitata anche a lui. Ma Tama Rereti era un valoroso guerriero. Non aveva paura di combattere con il Taniwha ma amava la sua famiglia ancora di più. Tutto quello che voleva era di tornare a casa da sua moglie e i figli, al sacro fuoco della sua famiglia 3.
Tama Rereti era anche saggio, sapeva che non vanno mai prese le decisioni importanti a stomaco vuoto, e lui aveva ora molta fame. Così si diresse con la sua canoa verso una spiaggetta di ghiaia lì vicino dove gettare l’ancora e mangiare il suo pesce. Così accese un piccolo falò e cosse il suo pesce; poi, seduto su un tronco caduto, se lo mangiò. Tama Rereti poi rimase lì seduto, ascoltando il canto del Tui 4, il frangersi delle lievi onde del lago sui ciottoli della riva e lo stormir delle foglie degli alberi all’alitar della brezza. Era tutto così tranquillo e caldo davanti al piccolo falò quando Tama Rereti vide che i ciottoli usati per costruire il falò erano diventati luminosi, ed ebbe un’idea per tornare a casa.
Allora caricò più sassi brillanti possibile sulla canoa e la spinse fuori nel lago e poi pensò: “Che succede se invece di attraversare il lago, navigo sul Grande Fiume del Cielo?”
E così Tama Rereti diresse la sua canoa verso quel punto in cui il sole scivola sotto l’orizzonte per far spazio alla notte e scoprì che la corrente del fiume era potente ma costante.
Come fu entrato nel Fiume del Cielo, Tama Rereti cominciò a spargere in tutte le direzioni tutti i suoi ciottoli luminosi mentre avanzava. La scia della canoa divenne la Via Lattea e i ciottoli le sue stelle. Per questo oggi abbiamo le stelle nel cielo.
Alle prime luci dell’alba Tama Rereti aveva finito tutti i sassolini quando poté vedere il suo villaggio: egli aveva navigato nelle direzione giusta cavalcando il Grande Fiume del Cielo.
Era così stanco che dopo aver fissato la sua canoa a un grande ceppo, Tama Rereti si trascinò alla sua capanna e, proprio mentre il sole appariva sulle colline d’oriente, si sdraiò sul giaciglio e si addormentò profondamente.
Quando il guerriero finalmente si svegliò nel mezzo del pomeriggio, Ranginui, il Dio del Cielo, era seduto fuori la capanna ad aspettarlo.
Tama Rereti pensò che Ranginui fosse arrabbiato con lui che aveva osato sporcargli il cielo con tutti quei ciottoli brillanti. E invece il dio del cielo era contento del risultato. Per la prima volta c’era abbastanza luce di notte da permettere alle persone di vedere cosa facevano e di muoversi in tutta sicurezza. Ranginui era felice della bellezza del nuovo cielo notturno.
E così perché la gente si ricordi come furono messe le stelle nel cielo e quanto questo sia così bello di notte, Ranginui chiese a Tama Rereti il permesso di ancorare per sempre tra le stelle la sua canoa e insieme scelsero il posto nel cielo. Là dove la scia è più brillante c’è la grande canoa di Tama Rereti che galleggia da quel giorno.