
Queste sono le prime immagini riprese dalla missione EPOXI della cometa 103P/Hartley2 rese disponibili sul portale della NASA. Buona visione.

Queste sono le prime immagini riprese dalla missione EPOXI della cometa 103P/Hartley2 rese disponibili sul portale della NASA. Buona visione.
Una delle cose più affascinanti della scienza è che mentre studi un fenomeno, ti imbatti in qualcosa di diverso e di inaspettato, un po’ come andare a cercare i funghi e trovare una pepita d’oro. Mentre i ricercatori dell’Ohio University stavano cercando indizi che mostrassero l’attività degli AGN (Nuclei Galattici Attivi) si sono imbattuti in un particolare fenomeno in grado di nascondere alla vista le supernovae e che questo fenomeno probabilmente era molto più comune nel passato.

Christopher Kochanek e i suoi colleghi stavano investigando i meccanismi dei nuclei galattici attivi (AGN) quando si sono imbattuti per caso in un nuovo, particolarissimo femomeno.
Gli AGN o nuclei galattici attivi, sono in pratica immensi buchi neri, la cui massa può variare da milioni a miliardi di masse solari, che risiedono al centro delle galassie e sono responsabili di una vasta gamma di fenomeni solo apparentemente slegati tra loro: quasar, radiogalassie, galassie di Seyfert, getti galattici, tutti fenomeni causati dai buchi neri al centro delle galassie a seconda se siano più o meno alimentati dalla materia che li circonda e dalla posizione prospettica con cui noi osserviamo la galassia in questione. In questo caso la materia che cade nel buco nero supermassiccio crea un enorme disco di accrescimento di plasma che raggiunge le decine di milioni di gradi, dove si innescano reazioni di fusione termonucleare e radiazione di sincrotrone prima di cadere oltre l’orizzonte degli eventi. Durante la sua esistenza quindi il buco nero supermasiccio spazzola tutta la materia che trova attorno accrescendosi; quando la materia intorno al buco nero finisce, l’AGN cessa di essere tale e si acquieta. Si pensa che tutte le galassie, quindi anche la nostra, nel lontano passato abbia avuto un AGN al centro, ora però per nostra fortuna, questo dorme.
Questi astronomi stavano cercando appunto questo, segnali di attività che rivelassero la presenza di questi dischi di accrescimento, dei punti estremamente caldi in altre galassie col telescopio spaziale Spitzer che lavora appunto nell’infrarosso. Tra le galassie studiate ce n’è stata una che pare che nel 2007 abbia ospitato una supernova tutto sommato atipica.
Questo spot apparso in una galassia distante circa 3 miliardi di anni luce non mostrava l’andamento della curva di luce previsto per un AGN e non mostrava la luminosità tipica di una supernova ma di quest’ultima ne aveva la curva d’evoluzione temporale. l’oggetto non era luminoso come una supernova ed era caldo appena un migliaio di gradi kelvin.

Come nasce una nebulosa planetaria
L’unica soluzione possibile che gli astronomi hanno trovato studiando i dati dello Spitzer, è che si sia trattato di una supernova che ha avuto origine da una stella almeno 50 volte più grande del Sole che ha espulso due gusci concentrici.
Uno, il più antico, è stato espulso quando la stella in fase morente ha attraversato un periodo di instabilità circa 300 anni prima della sua esplosione, quando il nucleo a cominciato a fondere elementi elementi via via sempre più pesanti come neon e magnesio producendo silicio. In questa fase quindi si è creata una nebulosa planetaria piuttosto spessa, e quando la stella si è contratta ulteriormente per innescare la reazione del silicio quattro anni prima di esplodere definitivamente ha espulso altra materia che poi è stata capace di assorbire completamente la radiazione della supernova. Per questo Kochanek e il suo team hanno visto solo uno spot caldo: i gusci concentrici di materia stellare opaca hanno assorbito e convertito tutta l’energia luminosa in calore impedendoci di vedere la stella esplosa in tutto il suo splendore.
Stelle così grandi sono rare, hanno una vita brevissima stimata in pochi milioni di anni prima di morire, ma sicuramente all’inizio del ciclo vitale delle galassie quando queste erano molto più ricche di idrogeno di adesso, quella che gli astronomi chiamano fase di bassa metallicità, probabilmente erano molto più comuni: questa è l’opinione di Krzysztof Stanek, professore di astronomia all’Ohio State, il quale confida sul fatto di sapere ora che cosa cercare per scoprire attraverso il NASA Wide-field Infrared Explorer (WISE) almeno un centinaio di altri casi in due anni.
Ma nella nostra galassia come siamo messi? Probabilmente un caso abbastanza simile lo abbiamo dietro l’angolo, a 7500 anni luce da qui nella costellazione della Carena. Eta Carinae, di cui ho già parlato in questo articolo, potrebbe essere un prototipo abbastanza vicino per poter essere studiato in dettaglio, rappresentando le ultime fasi della vita di una stella ipergigante, di cui l’attività insolita del 1840 era forse solo l’inizio dell’ultimo atto.
Ho già narrato in uno scorso articolo che preparai giusto per il 20° compleanno del lancio di Hubble, delle riparazioni fatte durante la missione STS-125 dello Space Shuttle nel maggio del 2009 per assicurare al telescopio spaziale una serena e proficua vecchiaia: ho scovato questo breve filmato che narra della Wide Field Camera 3, uno dei tre strumenti che furono installati sul telescopio al posto di quelli vecchi, le cui immagini che vi ho spesso ritrasmesso narrano una bellezza che nessun pittore o scultore, oltre che il Cosmo, potrà mai eguagliare.
Hubblecast 40: Wide Field Camera 3 – Hubbles New Miracle Camera | ESA/Hubble.
Embedded video from
NASA Jet Propulsion Laboratory California Institute of Technology
Usando il NASA Spitzer Space Telescope gli astronomi (Sellgren ed altri) hanno trovato traccie di carbonio in tutta la nostra galassia: prima attorno a NGC 2023, vicino alla famosa Nebulosa Testa di Cavallo nella costellazione di Orione, poi attorno a NGC 7023, conosciuta come la Nebulosa di Iris, nella costellazione di Cefeo: nello spazio interstellare e intorno a stelle morenti. Ma com’era prevedibile tracce di carbonio sono state trovate anche attorno a un’altra stella morente nella Piccola Nube di Magellano: l’equivalente in massa come 15 volte la Luna.
Non è carbonio atomico comune, ma sono molecole di fullerene, cioè 60 atomi di carbonio legati fra loro a comporre un poliedro, una pallina. Il fullerene deve il suo nome per la sua somiglianza con le cupole geodetiche disegnate da Buckminster Fuller.
| In matematica, un fullerene è un poliedro convesso trivalente con facce esagonali e pentagonali. Usando la formula di Eulero, si può dimostrare facilmente che ci sono esattamente 12 pentagoni in un fullerene. Il più piccolo fullerene è il C20, il dodecaedro. Non ci sono fullereni con 22 vertici. Il numero di fullereno C2n si sviluppa velocemente con l’aumento di n = 12, 13, … Per esempio, ci sono 1812 fullereni non-isomorfici C60 ma soltanto uno di essi, il fullerite, non ha accoppiamento di pentagoni adiacenti. |
Per l’astronomo Letizia Stanghellini del National Optical Astronomy Observatory di Tucson, in Arizona, l’aver scoperto che i fullereni sono molto più comuni di quanto inizialmente supposto può avere importanti implicazioni sulla chimica della Vita: è possibile che questi possano aver fatto da vettori per il trasporto di molecole prebiotiche sulla giovane Terra a cavallo di comete e meteore.
Infatti la chimica del fullerene è impressionante: è una delle molecole non organiche più grandi conosciute e la sua struttura composta unicamente dal carbonio la rende particolarmente resistente. Il suo interno però è vuoto e per questo è in grado di intrappolare altre molecole proteggendole dalle dure condizioni dello spazio cosmico. Fullereni di origine extraterrestre ritrovate nei meteoriti hanno mostrato di contenere gas al loro interno, come una palla da calcio contiene aria.
Questa caratteristica rende le molecole di fullerene uniche e interessanti dal punto di vista della chimica interstellare e prebiotica, oltre che per la memdicina, la metallurgia, i materiali ottici, i superconduttori etc.
Inoltre le ricerche astronomiche hanno provato quello che in laboratorio era considerato impossibile, ossia la coesistenza dei fullereni con l’idrogeno atomico, quando invece si riteneva che questo avrebbe spinto il carbonio a formare altri composti come catene e altre strutture molecolari piuttosto che poliedri, e questo per Anibal García-Hernández dell’Instituto de Astrofísica de Canarias in Spagna è importante capire perché. García-Hernández è l’autore principale di uno studio il cui co-autore è Letizia Stanghellini [1]·
Ora quando vedrete un fullerene, o più semplicemente il logo di questo Blog, capirete perché l’ho scelto.
[1] http://arxiv.org/abs/1009.4357
Altre fonti:
Con la missione ST-133 dello Space Shuttle Discovery sta per essere spedito sulla Stazione Spaziale Internazionale anche Robonaut2 (R2 per gli amici), un robot umanoide progettato per aiutare gli astronauti della ISS nelle operazioni più rischiose. Inoltre ha le mani, il che gli permette di usare tutti gli strumenti generici che già esistono per gli esseri umani, senza la necessità di reingegnerizzare oggetti di uso comune.
Anche questo è un piccolo passo dell’Uomo, un grande balzo dell’Umanità.
Quante volte ci è capitato, specie da un luogo abbastanza alto, di vedere una cappa di smog nelle pianure più in basso e magari pensare che quello schifo lo respiriamo anche noi per tutto l’anno. Quello è un sottoprodotto delle nostre automobili che pompano ossidi di azoto e altre schifezze simili nell’atmosfera inferiore, dove la luce del Sole li trasforma in particelle di aerosol.
Un altro mondo ricco di smog, ma di altra natura, è Titano, la cui atmosfera, come quella terrestre, è dominata dall’azoto.
L’atmosfera di Titano contiene anche un po’ di metano (CH4). Sotto la luce solare questi due gas si comportano come lo smog sulla terra: si ricombinano formando strati di aerosol opachi che impediscono l’osservazione della superficie del satellite.
Si era supposto che la foschia di Titano fosse dovuta principalmente da etano (C2H6) che avrebbe dovuto creare una continua pioggia sulla superficie, eppure quando la sonda Huygens atterrò (o attitanò?) su Titano non fece ‘splash’, ma ‘punf’, come ci insegnano i fumetti.
Questo tonfo in parte inatteso, mise in allarme i ricercatori dell’atmosfera di Titano, che dovettero in parte rivedere le loro teorie. Si scoprì che ad esempio, l’atmosfera del satellite conteneva anche un po’ d’ossigeno, come rivelò nel 2004 la sonda Cassini. Il responsabile probabilmente era Encelado, che spruzza continuamente vapore acqueo nello spazio attraverso quei fenomeni che oggi sono conosciuti come criovulcanismo, dove questo viene poi dissociato in ossigeno e idrogeno dalla radiazione solare. Tutto questo rende la chimica della parte superiore dell’atmosfera di Titano molto più interessante.

Le particelle ricreate in laboratorio (toline) osservate al microscopio elettronico. Credit: Edith Hadamuck / UPMC / Univ. di Parigi
Un team di ricerca internazionale guidato dalla studentessa laureata Sarah Horst [1] ha avuto l’idea di riprodurre l’atmosfera superiore di Titano, rifacendosi un po’ agli esperimenti di Miller-Hurey pompando energia a microonde in una miscela di azoto, metano e ossigeno a bassa pressione.
Il risultato è stato una nebbiolina composta da idrocarburi non più grandi di 0,1 micron non dissimile a quella responsabile dello smog nell’atmosfera di Titano chiamati toline. La parte più eccitante della scoperta è stata quando Horst e il suo team ha analizzato la composizione di quelle goccioline: tra di loro c’erano i cinque nucleotidi necessari alla formazione del DNA e RNA (adenina, citosina, guanina, timina, uracile) e un’altra manciata di amminoacidi. Scherzando, ma non troppo, Hurst ha definito i risultati “Come se qualcuno avesse starnutito nella provetta”, ma accurati controlli successivi hanno escluso qualsiasi ipotesi di contaminazione, confermando che questi composti erano stati sintetizzati durante l’esperimento.
Chimica delle toline nell'atmosfera di Titano Credit: NASA Jet Propulsion Laboratory (NASA-JPL)
Il termine Toline (dal greco Tholos che vuol dire fango) fu coniato dall’astronomo Carl Sagan [2] per descrivere le sostanze organiche che dovrebbero generarsi quando miscele ricche di azoto e metano, tipiche in alcune atmosfere planetarie e nelle comete, interagiscono sotto l’azione della radiazione ultravioletta delle stelle. Non è quindi una mescola specifica ma è un termine generalmente usato per descrivere la componente organica rossastra di alcune superfici planetarie del sistema solare esterno e di alcuni gusci protoplanetari.
Le toline possono pertanto essere un efficace schermo per la radiazione ultravioletta, da consentire la possibile esistenza di microbiche forme di vita sulla superficie del satellite [3].
Quindi le toline potrebbebbero essere il principale alimento per microscopici microrganismi eterotrofi evolutisi ancora prima di batteri autotrofi come ad esempio i metanogeni [4].
Lo scenario aperto da questi esperimenti, combinati con i dati in arrivo continuamente dalla sonda Cassini, apre quindi un nuovo interessante dibattito scientifico sulla Vita extraterrestre: non c’è quindi bisogno di una superficie solida o di uno specchio d’acqua per sviluppare una chimica prebiotica importante: si può addirittura ipotizzare che possa svilupparsi una vita microbica sulla superficie planetaria che utilizzerebbe le toline come sua unica fonte di carbonio e di energia, che per essa rappresenterebbe una vera manna dal cielo.
[1] http://www.lpl.arizona.edu/spotlight.php?ID=73
[2] http://www.nature.com/nature/journal/v277/n5692/abs/277102a0.html
[3] http://www.spectroscopynow.com/coi/cda/detail.cda?chId=4&id=14793&type=Feature&page=1